San Antonio da Padova

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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San Antonio da Padova
di Stefano Saviotti


L’edificio sorge a lato di un probabile decumano romano (via Tonducci) ed è orientato con abside verso sud-est come molte altre chiese della città. Sull’altro lato si trova la piazzetta di S. Giacomo della Penna, dal nome di un’antica chiesa parrocchiale che vi si affacciava, soppressa in epoca napoleonica e trasformata in abitazione. La facciata della chiesa di S. Antonio prospetta invece direttamente sul breve collegamento fra la piazzetta e via Tonducci, senza sagrato. La piazzetta attuale deriva invece dalla distruzione, per eventi bellici, di una casetta a schiera preesistente. La prima notizia, seppure indiretta, riguardo la chiesa di S. Antonio risale al 1450 circa; in quel tempo esisteva infatti una Compagnia dei Terziari di S. Antonio, eretta per opera dei frati dell’Osservanza. A questa Compagnia dovrebbe potersi attribuire l’impianto originario dell’edificio, che era in stile ancora gotico come si vede dalle tracce di finestre e porte ancora visibili lungo le due fiancate. La chiesa medioevale aveva una navata maggiore, ed alla sua sinistra una più piccola, da cui si accedeva a locali di servizio. Sia la navata principale, sia quella secondaria avevano accesso diretto dall’esterno, come si vede dalle tracce presenti sulla facciata. La navata principale era coperta con volte a crociera costolonate. Nelle soffitte, sopra ad una delle cappelle attuali presso la facciata, si vede l’innesto di una di queste volte, ora demolite. La navata principale riceveva luce da tre finestroni ad arco gotico posti sulla parete verso via Tonducci, dalla quale si poteva entrare in chiesa mediante una porticina di servizio. Lavori di adattamento furono compiuti nel 1496, ma fra il 1520 e la fine del secolo vi fu una grave crisi della Compagnia, ridottasi a pochissimi membri. Seguì una certa ripresa, e nel 1605 i frati di S. Francesco assunsero la vigilanza su questa congregazione di laici (sia uomini che donne, ma queste ultime senza diritto di voto). I suoi aderenti s’impegnavano a condurre una vita di grande rigore morale e a svolgere opere di carità e penitenze. Da un inventario del tardo sec. XVII presente in Archivio Vescovile, si apprende che a quel tempo esistevano gli altari di S. Antonio, S. Francesco e S. Elisabetta. Con testamento in data 5 ottobre 1614 (Atto del Notaio Andrea Rondinini), Fra’ Bellone Ceroni lasciò un legato di 122:74:10 scudi a favore di questa chiesa, con l’obbligo di celebrare sei Messe nel giorno della ricorrenza dei tre Santi sopracitati. Col tempo la chiesa medioevale si dimostrò antiquata ed insufficiente per i bisogni della Compagnia, e nella riunione del 26 luglio 1701 ne fu decisa una radicale ristrutturazione.

Il campanile di San Antonio con cuspide a cipolla.

Vista la presenza di strade pubbliche su tre lati, non fu possibile ampliare la superficie della chiesa, così furono integralmente mantenuti i muri perimetrali e vi fu solo una notevole sopraelevazione, con demolizione delle volte originarie. Il progetto fu ideato dal poliedrico matematico ed architetto Carlo Cesare Scaletta, e l’opera fu iniziata il 13 ottobre 1701.
Le murature esterne furono eseguite con rapidità: nell’intonaco della parete su via Tonducci era incisa la data 1702. I lavori interni e di finitura si protrassero però fino al 1709; l’opera fu eseguita materialmente dai capimastri Lorenzo Baschieri, Giovanni Paolo Trefogli e Stefano Sangiorgi. Sulla parete di fondo fu rimessa l’ancona lignea seicentesca, che però  occupava di misura tutto lo spazio, in quanto la navata originaria era stata ristretta per realizzare le cappelle anche sul lato destro.
Lo sforzo finanziario, piuttosto pesante per una piccola congregazione, non permise per molti anni la costruzione del campanile; esso fu realizzato solo nel 1728-29 da Lorenzo Baschieri, ed è l’unico rimasto a Faenza con cuspide “a cipolla”, dopo la distruzione di quelli dei Servi e di S. Chiara. Sul retro della chiesa, con ingresso da via Castellani, vi era una casa di proprietà dei Terziari, e che era adibita a casa del crocifero (una sorta di sagrestano). Nel periodo napoleonico la Compagnia fu espropriata di tutti i suoi beni, ma già in data 12 marzo 1802 fu riacquistata da un gruppo di sessanta ex Terziari, tramite una colletta di 43,42 Lire Milanesi per ciascuno (Atto del Notaio Fabio Morini); nel Catasto del 1814 la chiesa risulta ancora soppressa ed intestata a Don Fabio Naldi e Giulio Bertolazzi, che conservarono intatto l’edificio in attesa di tempi migliori. Altre chiese, finite in mano a speculatori privati, furono invece destinate ad abitazione o demolite. Con il ritorno dello Stato Pontificio nel 1815 la Compagnia dei Terziari si ricostituì ufficialmente, e poté riaprire al culto l’edificio sacro. Nel 1836 la chiesa divenne parrocchia, essendovi confluita quella di S. Illaro, il cui fabbricato era stato distrutto; il 10 febbraio di quell’anno ne prese possesso Don Giambattista Gottarelli, che divenne il primo parroco.

Giovan Battista Bertucci, Madonna in trono tra Sant'Antonio da Padova e San Francesco d'Assisi.
(Foto Raffaele Tassinari)
I Terziari di S. Antonio continuarono ad usufruire della chiesa, ma col tempo sorse qualche screzio a causa della forzata coabitazione. Finalmente nel 1874 la parrocchia di S. Illaro fu aggregata a quella di S. Maria Nuova, riaperta dopo le soppressioni del 1866, e S. Antonio ritornò di esclusivo uso dei Terziari. Nel corso dell’Ottocento l’interno subì alcuni ammodernamenti, volti a rimuovere parte delle originarie decorazioni a stucco nelle cappelle laterali, il cui stile rococò non rispondeva più al gusto del tempo ed appariva pesante e lezioso. Altre decorazioni dipinte furono invece coperte con una mano di bianco, probabilmente all’epoca dell’epidemia di colera del 1854-55.
Una fonte importante di reddito per la piccola chiesa proveniva dalla corporazione dei sarti, che scelsero questo tempio per venerarvi il proprio patrono, S. Omobono. Un piccolo componimento drammatico, composto appositamente nel 1773, testimonia dell’antichità di questo culto nella chiesa di S. Antonio. Durante la festa si teneva l’estrazione di alcune doti in denaro, offerte dalla corporazione artigiana a favore delle sartine che si sposavano durante l’anno; da quest’usanza ebbe origine la festa delle sartine, che riscosse grande successo e divenne un appuntamento di notevole richiamo per tutta la città fino agli anni Cinquanta del Novecento. Ai primi del secolo passato, alla festa si affiancò un giornalino, sul quale Giuseppe Castellari (Fafitò) segnalava e lodava, con garbo e discrezione, le sartine più avvenenti della città e dei dintorni. Con il mutare del tessuto sociale e produttivo e la quasi totale scomparsa della figura della sarta artigianale, la festa popolare fu abbandonata e ci si limitò alla sola celebrazione religiosa nella chiesa di S. Antonio. Nel 1996, grazie al Dopolavoro Ferroviario di Faenza, la festa delle sartine è stata riproposta in chiave moderna, divenendo un concorso di bellezza per le ragazze della città, riprendendo pure la tradizione del giornalino.


Altare maggiore.
G.B. Ballanti Graziani (1762 - 1835)
,
attribuizione. Fine XVIII inizio sec.
XIX, entro il 1835.
Cartapesta policroma.

Ma torniamo alle vicende della chiesa: nel dopoguerra l’ormai anacronistica Compagnia dei Terziari perse via via associati e fu sciolta, ed il tempio divenne proprietà della Curia Vescovile, che vi mise un sacerdote rettore. Fra questi si segnalano Mons. Pierfranco Zucchini, Mons. Mario Babini e Don Ivo Guerra, che continuarono a svolgere le celebrazioni tradizionali: la festa di S. Antonio da Padova (13 giugno), S. Rita (22 maggio) e S. Omobono (secondo lunedì di settembre).
Nel corso degli anni Ottanta purtroppo la chiesa fu chiusa al culto, trasferendo la festa dei sarti a S. Maria Nuova. Nel 1989, i sarti chiesero di ritornare nella vecchia sede, ed il Sig. Giuseppe Papa fu incaricato di riordinare il tempio. Lo stato di abbandono era notevole, ma proprio mentre ci si stava dando da fare per riportare la chiesa in condizioni decorose, la notte del 25 agosto 1989 scoppiò un incendio che causò gravi danni alla zona dell’altare maggiore. In particolare, andò distrutta l’ancona seicentesca in legno dorato ed intagliato, compresa la statua di S. Antonio, e crollò parte della cupola; tutto l’interno fu annerito dal fumo. Grazie alla passione del Sig. Papa ed alle offerte di privati ed ecclesiastici, nel giro di pochi mesi la chiesa venne interamente restaurata e ridipinta, ed il 22 maggio 1990 fu riaperta al culto con la festa di S. Rita. Altri lavori di rifinitura ed acquisto di arredi vennero compiuti negli anni successivi, e sul parapetto della cantoria fu pure scoperto un affresco dei primi del Settecento, poi restaurato da Valerio Contoli. La facciata in mattoni a vista è stata restaurata nel 2008. La chiesa di S. Antonio, seppur piccola, non è certo inferiore a molte altre per antichità e qualità artistica. La facciata, interamente in mattoni a vista, conserva con evidenza le impronte delle originarie porte di accesso, principale e secondaria; sopra la porta principale, ad arco ribassato, pare che esistesse un piccolo protiro a sbalzo. La parte superiore della facciata è invece settecentesca, con un ampio finestrone ed un ovale nel timpano. Il fianco verso via Tonducci conserva per intero la struttura quattrocentesca, con tracce di tre finestre archiacute e di una porta di servizio con arco a tutto sesto, tutte murate; al loro posto si aprono le finestre settecentesche delle due cappelle laterali. Come si è detto all’inizio, nel sottotetto si conserva l’imposta di una volta costolonata che in origine copriva la navata principale. Il locale a fianco dell’abside, lato via Tonducci, fu realizzato contestualmente alla ristrutturazione settecentesca, come dimostra l’accurata immorsatura nei muri quattrocenteschi. La chiesa di S. Antonio riveste una notevole importanza in ambito faentino perché fu la prima in assoluto in cui la divisione fra aula e presbiterio venne marcata mediante due colonne ai lati, totalmente staccate dai muri perimetrali, e che si ripetono anche sul fondo facendo da appoggio per la cupola. Tale soluzione ebbe un grande successo, e fu adottata anche nella ristrutturazione di chiese ben più importanti, come S. Francesco e S. Domenico. Nonostante l’incendio, la chiesa conserva ancora numerose opere d’arte di buon livello: ad esempio la tela nella seconda cappella a sinistra, una Madonna con Bambino fra i Santi Francesco ed Antonio, opera di Giambattista Bertucci junior (fine sec. XVI); nel presbiterio, una tela con il martirio di S. Caterina d’Alessandria (1580 circa). Di buona fattura anche la statua in cartapesta di S. Omobono, opera di G.B. Ballanti Graziani, al quale andrebbe attribuito anche il busto dell’Addolorata nella prima cappella a destra. Si conservano infine il pulpito ed i confessionali originali del Settecento, oltre alla riscoperta decorazione della cantoria.    


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