L'EPOPEA DEGLI SCARIOLANTI
Angelo Emiliani
Quasi centotrentacinque anni fa, il 24 novembre 1884, i primi
braccianti partivano per andare a bonificare l’Agro Pontino. Erano 462
fra uomini e donne, furono definiti “i socialisti della repubblica di
Utopia”. A salutare il convoglio alla stazione di Ravenna c’era un
tripudio di bandiere e di autorità. C’era anche Andrea Costa, imolese,
primo deputato socialista.
In una decina d’anni i braccianti della “bassa” erano passati da poco
più di 500 ai quasi diecimila registrati nel Censimento del 1881. Due
anni dopo avevano costituito l’Associazione degli operai braccianti
sotto la guida di Armando Armuzzi, nato a Corfù 31 anni prima e figlio
di un emigrato politico, e di Nullo Baldini, un ventunenne cresciuto in
una famiglia garibaldina.
“Noi qui siamo troppi - affermò Armuzzi nel corso di un’assemblea al
Teatro Mariani il 16 marzo 1884 - bisogna che una parte di noi si
allontani per lavorare. Emigrando è meglio scegliere i lavori più
importanti e che durano maggiormente. Uno di questi sarebbe l’Agro
Romano. Se c’è lavoro in una provincia più vicina non dobbiamo e non
possiamo far la concorrenza ai braccianti di quella zona”. Dello stesso
parere era Baldini: “Meglio è che i braccianti riservino la loro
vigoria alla redenzione del loro Paese, piuttosto che andare in Paesi
stranieri, lontani, in balia di speculatori, senza alcuna difesa”.
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La casa donata da Umberto I nel 1895.
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Armando Armuzzi.
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Nullo Baldini.
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Il proposito espresso da Armuzzi prese corpo due mesi dopo, il 15
maggio, con la firma del contratto con la società Canzini e Fueter che
sanciva l’assegnazione dell’appalto per un importo di tre milioni e 700
mila lire. Le tappa successive furono l’organizzazione del viaggio, il
far fronte al costo dei biglietti, la formazione di squadre ciascuna
diretta da uno che sapesse leggere e scrivere. Il convoglio impiegò 36
ore per giungere a destinazione. A Roma i braccianti trovarono
un’accoglienza ben diversa dal calore col quale erano stati salutati
nel partire. Erano seguaci di Bakunin e di Mazzini, li precedeva la
fama di bestemmiatori e di sovversivi.
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Attrezzi degli scariolanti.
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I braccianti di Ravenna ritratti in una foto di gruppo a Ostia.
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La Questura li trattò come delinquenti. In fila e sotto costante
sorveglianza furono avviati al traghetto e da qui ai luoghi di
destinazione: le paludi di Ostia, gli stagni di Maccarese, Campo
Salino, Isola Sacra. Erano queste aree inospitali, infestate dalla
malaria, invase ad ogni piena dalle acque del Tevere. Prive di strade e
di ponti e pressoché disabitate, non vi si avventuravano che pochi
pastori con le loro bestie. Prima di loro erano giunte soltanto le
poche famiglie abruzzesi occupate sui terreni che il principe
Aldobrandini aveva preso in affitto dal vescovo di Ostia.
I braccianti venuti dal ravennate si divisero in due gruppi, 220
persone a Ostia e le restanti 242 a Fiumicino. Il primo comprendeva gli
addetti ai diversi servizi - fornai, macellai, ciabattini e altro - con
12 donne e alcuni ragazzi impegnati nelle pulizie. Erano alloggiati in
vecchi granai e case abbandonate riattati alla meglio, “come i soldati
nelle caserme”.
Oltre all’esperienza e alla grande capacità di lavoro, portavano in
quelle zone un’organizzazione sconosciuta. Fino ad allora, nei fondi
delle grandi proprietà nobiliari, i lavoratori della zona e quelli
provenienti da province lontane per sopperire al fabbisogno di mano
d’opera nelle attività stagionali, dovevano sottostare allo
strozzinaggio del caporalato e accontentarsi di un salario da fame.
Il grande fautore della “bonificazione dell’Agro Romano” era stato
quindici anni prima lo stesso Garibaldi. Per attuarla, sotto il suo
impulso era stata varata la prima legge nel 1876. Ma nessun altro, se
non gli scariolanti ravennati, era in grado di affrontare un’impresa di
quelle proporzioni e in quell’ambiente. Occorrevano uomini capaci di
grandi fatiche, abituati ai lavori di sterro, alla lotta quotidiana con
l’acqua. E soprattutto capaci di mettere in produzione le terre
strappate alla palude.
In sette anni, lavorando di braccia e di carriola, scavarono canali,
alzarono argini, misero in funzione idrovore a vapore, costruirono e
regolarono bonificando tremila ettari di terreno. Resero l’ambiente
vivibile e tale da consentire l’avvio di attività economiche.
Non si limitarono però al solo lavoro di bonifica. Diedero vita ad una
colonia le cui regole traevano alimento dai valori umanitari e di
solidarietà che li avevano spinti a unirsi in cooperativa e ad
affrontare una simile avventura. Il prezzo pagato in termini di vite
umane fu altissimo: circa 600 i morti, dovuti soprattutto alla malaria,
nei primi 12 anni di lavoro.
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Il monumento in questione si trova in Piazza Ravenna, nella Zona Ostia
Antica, ed è dedicato agli Scariolanti, provenienti
dalla Romagna.
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La Cooperativa aveva cominciato subito a
coniare monete e a stampare banconote. All’inizio tale danaro ebbe uso
interno. Serviva nella colonia per conteggiare le paghe, le spese alla
dispensa sociale, i costi dei servizi comuni. Poi le banconote e le
monete apparvero sul bancone della trattoria che funzionava dentro la
colonia agricola di Ostia. Le banconote erano stampate dalla Tipografia
Ravegnana di Ravenna. Sui valori da 2 e 5 lire era scritto “Valido
nella sola provincia di Roma”. Le monete erano da 5, 10 e 25 centesimi.
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L’iniziale diffidenza nei loro confronti andò stemperandosi e persino
il re Umberto I, spesso impegnato in battute di caccia nella vicina
tenuta di Castel Porziano, venne in loro aiuto con consistenti somme di
denaro. Benché si trattasse di un sostegno provvidenziale, la cosa
suscitò non poche contrarietà in quanti non intendevano riconoscersi
nell’imbarazzante titolo di “socialisti del re”. La moneta che avevano
coniato, destinata inizialmente alla sola circolazione interna, finì
per essere accettata nella stessa Roma.
Se si confermarono abili nella bonifica, i braccianti ravennati non lo
furono altrettanto nella gestione delle terre bonificate. Mancavano i
capitali e le attrezzature necessarie, nei primi anni piene rovinose
distrussero i lavori già eseguiti. Di più non si poteva chiedere loro.
Fra i tentativi di incrementare il reddito rientrò anche la produzione
su larga scala di cocomeri ottenuti da semi selezionati nel faentino e
nel cesenate. Andavano a venderli direttamente sui mercati rionali
della capitale, dove il loro grido “Taja ch l’è ross” finì per divenire
familiare ai romani.
La
canzone
è nata dopo il 1880 fra i braccianti addetti ai lavori di bonifica
delle
paludi costiere della Romagna e della provincia di Ferrara (viene
cantata
poi anche durante le analoghe bonifiche dell’Agro Romano e Pontino).
La bonifica richiamò nella zona masse enormi di poveri contadini e di
braccianti, attratti dalla nuova possibilità di impiego: è proprio
dalla concentrazione di province diverse che nasce un canto in
italiano, anziché in dialetto. Protagonisti sono gli "scariolanti",
cioè i braccianti che trasportavano la terra per mezzo di carriole
durante i lavori di bonifica nel territorio del fiume Reno. Gli
scariolanti venivano arruolati dai caporali ad ogni inizio settimana.
Al suono di una tromba, a mezzanotte, gli scriolanti lasciavano le loro
donne, che si erano illuse di averli anora con sè, e, con cariole,
vanghe e badili, partono cantando per dirigersi verso lontani luoghi di
lavoro.
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A mezzanotte in punto
si sente un gran rumor,
sono gli scariolanti, lerì lerà,
che vanno a lavorar.
Rit. Volta, rivolta,
e torna a rivoltar:
sono gli scariolanti, lerì lerà,
che vanno a lavorar.
Gli scariolanti belli
son tutti ingannator,
hanno ingannà la bionda, lerì lerà,
con un bacin d’amor.
Rit. Volta, rivolta...
A mezzanotte in punto
si sente una tromba suonar:
sono gli scariolanti, lerì lerà,
che vanno a lavorar.
Rit. Volta, rivolta...
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La copertina del libro riproduce il manifesto
celebrativo del centenario firmato dal pittore
Giulio Ruffini.
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PER CHI VUOLE APPROFONDIRE
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Cent 'anni fa, il 24 Novembre 1884,
partivano da Ravenna i primi cooperatori operai braccianti che negli
anni successivi avrebbero bonificato l'agro romano.
Si trattò di strappare quelle terre a
secolari incurie, con estremi sacrifici, fIno a quello della vita, che
molti morirono di fatica e di malattie (soprattutte la malaria).
Le parole e la guida di Nullo Baldini
e di Armando Armuzzi, lo stesso omaggio lirico di Andrea Costa,
spronarono quegli uomini, e quelle donne, al riscatto del lavoro e a
segnare la via del progresso e dell'emancipazione della classe
lavoratrice.
L 'ottimo esito delle manifestazioni celebrative qui in Ravenna, di cui il volume e buona testimonianza, e anch'esso un segno.
Il segno che quell 'epoca è nella storia dei lavoratori di questa terra, e nella storia di questa terra.
Del resto, come loro partirono con il
«sostegno» di tutta la città (anche se a Roma subirono inizialmente
qualche «timorosa» resistenza politico-burocratica), noi oggi, più
modestamente, sentiamo quali profonde radici abbiano gettato per la
nostra storia e per quella della cooperazione.
Una storia ed una tradizione che ancora ritroviamo ad Ostia come fosse un pezzo di romagna e di Ravenna. Questo volume è dedicato a Loro, con la speranza di averne degnamente celebrato la vicenda umana e la lezione politica.
[dalla presentazione del libro]
IL VICE PRESIDENTE DELLA LEGA DELLE COOPERATIVE DI RAVENNA
Carlo Lorenzo Cortll
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