IL CONTE DI VITRY E LA BATTAGLIA
AL "CAMPO DI CONTRA" DEL 1° MAGGIO 1080
Miro Gamberini
Per tutto il periodo del Basso Medioevo (1000 – 1492) Faenza e Ravenna
si sono contese il predominio territoriale sulla Romagna. Mai alleate
tra di loro si sono combattute in aspre battaglie, Ravenna per
rinvigorire una gloria Bizantina ormai assopita, Faenza per imporre
quella forza militare che da alcuni anni stava acquisendo in Romagna.
Dal Chronicon del Tolosano,
nei capitoli XVII e XLIII veniamo informati che nell’anno 1070, i
faentini con l’aiuto della contessa Matilde di Canossa distruggono
demolendo il castrum Basilaci (oggi chiesa di Basiago). Costruito con
l’aiuto dei ravennati il castello di Basiago fu il pretesto nel 1075
come ci informa Carlo Morbio a pag. 110 in Storia dei Municipi Italiani, di una incursione di soldati ravennati per distrugge i campi appena coltivati, “…tagliando arbori e viti, facendo preda d’uomini e d’animali, arrivando fino a Pigna, [località situata nei pressi di via Soldata] villa poco distante dalla città…”.
Terminata la distruzione i soldati di Ravenna si ritirano, mentre
riposavano sono raggiunti da armati faentini, ne nasce una breve ma
violenta lotta, tanto da costringere i ravennati a una fuga
precipitosa. Sul terreno dello scontro chiamato campo di Contra
(località nei pressi di Prada) rimangono molti morti ai quali come
narrano tutti i nostri cronisti vengono tagliate le dita e le mani onde
prelevare gli anelli d’oro, questo episodio generò nei ravennati “...il non dover più indossare anelli in battaglia”.
Passati alcuni anni di relativa tranquillità verso la fine del 1079 i
ravennati rinforzatisi durante il periodo della tregua stringendo
alleanze con alcune città limitrofe, lanciano una dichiarazione di
guerra a Faenza. Girolamo Rossi nella sua Storie Ravennati, pag. 321 – 322, descrive così gli avvenimenti:

Cavalieri pronti alla battaglia.
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“Nel medesimo anno 1080 i ravennati, bramando sottomettere i vicini al
proprio potere, dichiararono guerra ai Faentini mandando ad annunziare
loro sei mesi prima che il 1° maggio sarebbero andati a tagliare il
castagno, un albero di bellezza e altezza straordinarie che si trovava
nella campagna di Cesarola (1) in territorio faentino. I Faentini
restarono scossi da questa notizia, perché comprendevano che i
Ravennati erano molto potenti presso tutti gli altri provinciali,
mentre essi erano in odio quasi a tutti”. Vincenzo Carrari in Istoria di Romagna a pag. 79 – 80, approfondisce il racconto: "Per la quale novella essi attristati rimasero, d’animo travagliato e
di diversi pensieri ripieni; e conoscendo dall’altra parte che quasi
tutta la provincia era per esser in aiuto de’ Ravegnani, i Faentini,
creati subitamente alcuni ambasciatori, li mandarono alla volta di
Lombardia, per tentar per quella via, se potevano impetrar da quelle
parti alcuno aiuto. Andarono essi, e dichiarando il lor bisogno e
raccomandandosi non lasciarono né promesse, né prieghi per indurre gli
animi di quei popoli a sovvenir la patria loro, ed in tutto quello
viaggio non ritrovarono alcuno che si movesse a pietà di questa lor
sciagura; eccetto nel Piemonte un certo conte francese nomato Vitria,
che ritornava di Terra Santa in Francia. Costui inteso il bisogno, con
animo tutto benigno ed amorevole, promise che alle calende di maggio si
ritroverebbe del sicuro a Faenza con grosso aiuto, e per sicurezza
della promessa, cavatosi un guanto di mano, [secondo altri cronisti un
anello] diedelo agli ambasciatori suddetti; ed essi all’incontro
promisero a lui, come aveano in commissione, il dominio della città”. |
Tornati a Faenza gli ambasciatori e radunato nel palazzo vescovile il
Consiglio degli Anziani, lo relazionano sulla trattativa avuta con il
conte di Vitry. Lo sconforto è generale anche perché si è ormai
convinti di essere soli ad affrontare l’imminente attacco dei
ravennati. Nessuno ha prestato attenzione alle suppliche degli
ambasciatori, troppo forte si è rilevata l’alleanza che l’arcivescovo
di Ravenna Guiberto da Parma, (verrà eletto Antipapa nel febbraio del
1080, con il nome di Clemente III) aveva costruito con le città
della Lombardia. Giunto il giorno stabilito i ravennati raggiungono “Cesarola, recidendo con replicati colpi di manaie la prenominata Pianta” (Tonduzzi, Historie di Faenza, pag. 164) di castagno e non contenti distruggono tutta la circostante campagna. Mentre i faentini come scrive il Carrari “stavan ringhiusi nella città, mesti e da lungi mirando il disonor e la vergogna loro”
meditano vendetta. Compiuta l’incursione i ravennati si ritirano
piantando le tende tra Albereto e Prada. Puntuale come da promessa
giunge il conte di Vitry, il Carrari narra con queste parole il suo
arrivo: “…quando ecco che d’improviso giunse con 500 cavalli, contro
l’aspettazione di tutti, il conte francese con due stendardi ed essendo
tardi alloggiò presso San Proculo (oggi Pieve Ponte).

Da un codice medioevale.
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Dopo la battaglia si raccolgono gli stendardi dei vinti.
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Sospettavano i
Faentini di primo aspetto che non fossero i nemici, ma come fu
conosciuto il conte, giubilando per allegrezza tutti saltarono fuori
armati, ed il giorno seguente a buona ora posti in ordine seco unirsi,
dopo le debite accoglienze andarono, senza porvi intervallo, bramosi di
vendetta ad assalire il nemico”. Il conte di Vitry ordina a tutti coloro in grado di combattere,
vecchi bambini e donne, di radunarsi davanti alla cattedrale, ove preso
in consegna il vessillo di San Pietro, dispone di mandare i soldati
faentini verso Prada, e di fissare a due miglia dagli avversari presso
il campo di Contra l’accampamento per la serata, accordandosi che il
giorno successivo sarebbe arrivato a Prada per intercettare il
nemico e dar battaglia. Con queste parole il Tonducci in Historie di Faenza a pag.165, descrive il combattimento: “….e la mattina su l’imbrunire dell’aurora il Conte, e il Nipote
arrivati al medesimo luogo li trovarono già animati all’arme; indi
unitamente partiti presto giunsero ai nemici, che avvisati dalle
sentinelle già disposte su la sommità de gl’alberi, ne sapendo, che ciò
i Faentini fosse altra militia straniera, erano parimente pronti,
e in ordine alla battaglia, e già cominciavano le prime squadre
azzuffarsi insieme, e la Cavalleria urtarsi con l’altra; e benché
l’impeto dell’assalto fosse gagliardo, fu però sul’ principio
vigorosamente sostenuto; ma crescendo sempre maggiormente dalla parte
de nostri lo sforzo, e scoprendosi maggior numero di Cavalli, che
si fosse creduto, e il Conte tra gl’ altri facendo l’ultime prove sì
nel combattere, sì nell’animare gli altri al conflitto diede la
vittoria à gl’Amici e gl’ Avversarij la rotta, quali con grand’
uccisione, e prigionia non minore furono perseguitati fino à Russio [
Russi]… “
L’arrivo del conte di Vitry aveva cambiato l’equilibrio delle forze,
sorpresi e attoniti i ravennati dopo una breve resistenza preferirono
abbandonare il campo lasciando sul terreno dello scontro un ricco
bottino. Al ritorno il conte di Vitry fu accolto da una folla festante
nella cattedrale di Faenza, ove secondo gli accordi stipulati gli viene
offerta la signoria della città, ma il conte come scrive il cronista
Tolosano : “Cesare d’animo, Paride per bellezza, Ettore per azioni, Cicerone per eloquenza, Catone per senno”,
declinò l’offerta donando alla popolazione i due stendardi sotto i
quali si era combattuto e vittoriosamente vinto. A ricordo di questa
vittoria i faentini ogni anno celebrarono il primo di maggio la “festa degli stendardi”
, consistente nel portare in una processione dal Palazzo del
Governatore fino alla chiesa di San Sigismondo, fuori Porta Montanara,
i due stendardi donati dal conte. Coincidenza vuole che il giorno della
vittoria sia la celebrazione del patrocinio di San Sigismondo, (santo
di nazionalità francese re dei Burgundi) questa concomitanza venne di
fatto attribuita al santo consacrandone l’avvenimento a futura memoria.

Vecchi stendardi faentini, manca quello di Borgo Durbecco, da una vecchia cartolina.
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Un bando comunale del 25 aprile 1559, firmato dal Governatore Francesco
Andreucci Lucensis emendava :
“Perché l’antiqua Vittoria havuta da questa città mediante l’opera del
Capitano Vitria Francese, per la quale il 1° dì di Maggio si portano li
due stendardi, non vada in oblivione et che si habbia da fare memoria
tale, che di continuo duri, et s’abbia da seguire. Per il presente
pubblico bando s’invita in nome del Magnifico sig. Governatore et Sig.
Antiani della Città di Faenza qualunque Putto et figliolo di Cittadino,
per Domenica sera che sarà l’ultimo del presente, sino a cavallo et si
presentino al Palazzo per portare detti Stendardi come era usanza,
donando a chi per sorte toccarà li detti Stendardi un par di guanti. E
per poter venire meglio a questo fatto ciascuno delli detti Putti
intanto si verranno a fare scrivere al Cancelliere della Comunità. –
Franciscus And[ reucci Lucensis] Gubernator – 1559 die 25
Aprilis”.
Risulta da questo bando che la “festa degli Stendardi”
per un certo periodo di tempo fu dimenticata causa le travagliate
vicende politiche dell’inizio del 1500, riproponendo la manifestazione
si cercava di ricordare l’antica vittoria. Girolamo Tassinari in un
dattiloscritto conservato presso la Biblioteca Manfrediana dal titolo: “Cenni storici sullo stemma di Faenza” usa queste parole per descrivere la celebrazione:
“…la sera del 30 aprile da due fanciulli di cittadine famiglie,
cavalcanti destrieri riccamente bardati, si recassero alla mentovata
chiesa le due bandiere del Conte: che il giorno appresso vi stessero
appese sulla facciata e al tramonto del sole fossero nella stessa guisa
al Palazzo del Popolo riportate, dove gelosamente erano custodite.
Popolo innumerevole agitando fronde di pioppo, e cantando le lodi del
Vitry; precedeva, accompagnava e seguiva i Fanciulli, che al freno dei
cavalli avevano staffieri in ricche assise, e che dalla circostanza del
festeggiarsi così il primo Maggio, erano volgarmente chiamati i Maj ”.
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In
memoria del Conte di Vitry nel 1990 il Rione Giallo organizza la "Festa
degli Stendardi". Nella foto il primo cavaliere a sinistra è Igor
Argomenni in seguito a corso il Palio di Siena con il soprannome di
"Smarrancio".

Soldati armati di picca.
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Carlo Zanelli nella sua Cronica dal 1700 al 1766 e trascritta da G. B. Borsieri nei suoi Annali
(Biblioteca Comunale Manfrediana, manoscritto n° 24/1B) narra di una
rievocazione nel 1751 della “guerra del Castagno”, ove la
commemorazione assume l’aspetto di una celebrazione storica, con queste
parole:
“Addì 15 febbraio 1751 fu fatta dal sig. conte Carlo Zanelli una
mascherata che rappresentava due squadre di soldati antichi, una
significava gli antichi Ravegnati, e gl’altri gli antichi Faentini e
rappresentavano un fatto antico successo fra loro nei secoli passati, e
fu la guerra del pino o castagno come ne fanno menzione il Zuccoli e
Tonduzzi nel primo giorno di maggio nell’anno 1080. Li soldati erano
vestiti un abito verde alla antica ornati di gioielli e fettucce
d’orate con tracolle all’uso militare con elmi, scudi, e passetti, o
fioretti alla mano tutti lustri e politi che parevano spade denudate, e
fecero un bellissimo combattimento colli Faentini dopo aver gettato giù
il pino li Ravegnani, come narrano li sunominati cronisti.
Li Faentini
erano di rosso vestiti con simili ornamenti militari, ma di guarnizioni
d’argento, e doppo finito il combattimento li Ravegnani furono respinti
indietro dai Faentini con cinquecento cavalli, come conta la
storia antica. Questi soldati di cavalleria francese erano vestiti di
torchino con mostre rosse sul tracolle alla militare Stendardo bianco e
cucarde bianche che pareva una compagnia di cavalleria leggiera
francese. La Mascherata riuscì con applausi di tutta la città, e in più
giornate, ma la prima si fece in Porta Ponte in faccia alla casa del fù
Signore Bartolomeo Bartoli, dove risiede il Card.e Gian Battista Barni
Legato di Ferrara, che si tratteneva qui. Le persone e soldati della
mascherata che operavano tra francesi, Ravegnani, Faentini ed altri
ufficiali erano in tutto ottanta persone”.
Nel 1762 la cerimonia subisce un’altra modifica, non erano più i
ragazzi ad accompagnare gli stendardi, che nel frattempo erano
diventati tre con l’aggiunta del gonfalone cittadino, ma le autorità
quali il Supremo Magistrato, il Capo Priore e il Gonfaloniere,
nei nomi del conte Taddeo Rondinini, conte Francesco Conti e il sig.
Matteo Zucchini. Da una confidenza di Gaspare Liverani, padre di
Romolo, rilasciata a Girolamo Tassinari veniamo a conoscenza della
descrizione degli stendardi:
“…seppi la foggia, le pezze, e i colori dei due stendardi, i quali
sebbene avessero di molti squarci allorquando furono distrutti, pure ei
li credeva (e parmi con molto senno) rifatti a imitazione dei primi,
donati dal Conte, che, per molta cura che di loro si avesse, non
potevano agevolmente valicare otto secoli. Romolo suo figlio dipinse la
Chiesa di San Sigismondo, ricostrutta l’anno 1836, e nella cappella del
Santo espresse in uno scudo una delle insegne del mentovato Conte”.
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Questa manifestazione continuò fino al 1796, quando ironia della sorte
un altro francese Napoleone Bonaparte ne decretò la fine, distruggendo
e lacerando “un pegno della generosità francese e monumento insieme di libertà e di vittoria per Faenza”.
L’8 dicembre 1969 i sindaci Elio Assirelli per Faenza e Secondo
Bini per Ravenna firmano un simbolico trattato di pace, ponendo fine
dopo 889 anni al contenzioso tra le due città. Ravenna ci regala un
ippocastano che viene piantato nel parco Bucci, Faenza consegna copia
degli stendardi. A ricordo di questa cerimonia, una targa in ceramica
di Ivo Sassi con i simboli delle città di Faenza e Ravenna e una
epigrafe di Piero Zama:
viene collocata nel parco Bucci a fianco dell’albero piantato. Ma le
intemperie e una cattiva conservazione hanno resa non fruibile alla
cittadinanza l’iscrizione.
“I VESSILLI DEL CONTE DI VITRY PURIFICATI
DA FAZIOSA PASSIONE
FAENZA
- DOPO NOVE SECOLI –
CONSACRA A RAVENNA GLORIOSA
SIMBOLO DI CONCORDIA FRATERNA”
1080- 1969
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Faenza, targa in ceramica di Ivo Sassi
con i simboli delle città di Faenza e
Ravenna con epigrafe di Piero Zama.
Collocata l'8 dicembre nel Parco Bucci a Faenza.
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Note
1) Cesarola sembra che fosse in S. Barnaba o S. Giovannino; fin dal
1150 è ricordato in carte faentine come località in scola Quartoregii,
cioè in S. Barnaba. Carlo Mazzotti in Memorie storiche su la chiesa
parrocchiale di S. Maria in Prada, pag. 18.
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