L'eccidio della Castellina

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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L'eccidio della Castellina


di Luigi Solaroli


 
L’evoluzione storica che dai Comuni porta alla Signoria la possiamo accertare, nei nostri territori di Romagna, a Ravenna coi Traversari e nel 1248 Rimini coi Malatesta da Verrucchio, ma solo alla fine del secolo ogni città della Romagna ebbe la sua Signoria.
Nel canto 27° dell’Inferno, Dante ne traccia una sorta di mappa: Ravenna e Cervia erano soggette ai Da Polenta, Forlì agli Ordelaffi, Rimini ai Malatesta, Cesena a Galasso di Montefeltro, Faenza e Imola a Maghinardo di Susinana.
Maghinardo morendo senza figli maschi, lasciò Imola agli Alidosi e Faenza ai Manfredi rimasti vincitori nelle lotte fra le famiglie più dominanti, in particolare i Domizi, gli Zambrasi e gli Accarisi. Ma i Manfredi dovevano risolvere qualche problemino all’interno in ordine chi doveva essere il dominatore, questo emergerà dall’eccidio della Castellina del 2 Maggio del 1285.
In quell’epoca i delitti fra parenti, per ragioni patrimoniali e di cupidigia al potere erano abbastanza ricorrenti, protagonista di uno di questi fatti di sangue fu frate Alberico Manfredi. Perché è denominato "frate": per frate s’intendeva una persona inscritta ad un ordine religioso, in questo caso Alberico apparteneva alla "milizia religiosa di s. Maria Gloriosa dei frati gaudenti" fondata nel 1261, la quale aveva per scopo quello di mettere pace fra le fazioni e di abolire le armi; gli appartenenti si presentavano con una semplice verga in mano per sedare i tumulti.
Il nostro "pio frate Alberico" (che il poeta Dante definisce il “peggior spirito di Romagna “– inf. xxxııı-18), già podestà di Bagnacavallo, alla morte dello zio Alberghetto, assunse la tutela del nipote Francesco, figlio del defunto, e difese i diritti del pupillo contro il cugino Manfredo. Un giorno, venuti a grave contesa, Manfredo diede uno schiaffo ad Alberico. Si trattava di un’atroce offesa e il podestà di Faenza, per evitare lutti, mandò Manfredo e il figlio Alberghetto al confino nel territorio di Ravenna.
Intanto i parenti e gli amici delle due fazioni cercavano, in tutti i modi, di comporre la vertenza. Alberico finse di accettare la pace, per cui fu invitato a partecipare ad un banchetto, rassicurato anche dalla presenza di un comune amico, tale Serruccio da Pretella. Il luogo prescelto per la riconciliazione, fu il castello di Francesco detto "La Castellina", tra Faenza e Russi nei pressi dell’antica Pieve di Cesato. La sera del 2 maggio del 1285, si trovavano frate Alberico col figlio Ugolino (poeta e fine rimatore), il nipote ventenne Francesco (che sarà il vero capo dinastico della famiglia), il cugino Alberghetto col padre Manfredo. Alla fine del pranzo, frate Alberico diede l’ordine ”vengano le frutta” e, come a segno convenuto, i malcapitati ospiti furono assaliti e trucidati da Ugolino, il cugino Francesco e sgherri prezzolati. Lo storico Cantinelli afferma che anche il Serruccio avrebbe partecipato alla strage. Il fatto fu così noto e destò tale orrore che le maggior signorie d’Italia ne parlarono, lo stesso Dante lo cantò nel XXIII canto dell’Inferno, Alberigo parla a Dante denunciandosi: ”…Rispuose adunque "Io son frate Alberigo / io son quel delle frutta del mal orto / che qui riprendo dattera per figo".
Dante colloca Alberico nel profondo della voragine infernale: il fiume ghiacciato Cocito riservato ai traditori. E poiché nel 1300 si compie il viaggio di Dante all’aldilà e il frate gaudente era ancora vivo, ecco un espediente per metterlo comunque all’inferno: in casi di eccezionale malvagità, l’anima si danna prima del tempo e nel corpo prende posto il diavolo.
Alberico, col pupillo Francesco, fu solo assoggettato ad una multa e cacciato da Faenza dal legato pontificio. Egli soggiornò nel castello d’Oriolo, anche se questo era di proprietà dell’arcivescovo Bonifacio di Ravenna dal 1281.
Qualche anno dopo, presso il monastero delle Clarisse dell’Isola di s. Martino, seguirà la conciliazione fra Beatrice, figlia dell’ucciso Manfredo, suo marito Alberico di Cunio da un lato e gli uccisori Manfredo ed Alberghetto dall’altro. Alberigo si ritirò a Ravenna nel 1309 e “poiché egli riteneva di aver sempre osservato la legge divina, volle esser sepolto nella chiesa dei frati minori di S. Francesco”. Ci avrebbe pensato poi Dante, ancora lui vivo, a sistemarlo all’Inferno.
Il castelletto di Cesato non esiste più, fu fatto atterrare il 13 Febbraio del 1354 da Giovanni Zigardi dei Manfredi, perché non se ne impadronissero i partigiani della Chiesa. Nel 1700, sulle sue fondamenta fu costruito un palazzo che rispecchia alcuni particolari architettonici grazie alla N.D. Renata Caldesi Casalini. Dentro c’è una sala ottagonale, squallida con quattro porte d’ingresso dove, secondo la tradizione sarebbe avvenuta la strage. Attualmente la villa serve da casa colonica.
Conosciuto dai faentini, specie locali, come “e palaz de Gêvul”, si può intravvedere sulla sinistra prima di raggiungere il ponte Felisio, all’altezza di quelle due colonne di mattoni rossi ben visibili sulla Ravegnana, oppure recarvisi prendendo la strada parallela alla Ravegnana dopo la rotonda.
I poderi, in cui era sito il castelletto, furono dati in dote a Cassandra, amante di Galeotto, quando entrò nel convento di s. Maglorio.




 Villa "Palazzo", Pieve di Cesato


 Villa "Palazzo", Pieve Cesato, scalone.


Villa "Palazzo", Pieve Cesato, sala ottagonale.





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