La statua dimenticata

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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La statua dimenticata

di Andrè Maurel


Il 4 gennaio 1914 il settimanale faentino Il Piccolo pubblica su suggerimento di un “assiduo lettore” il seguente articolo preceduto da una breve lettera


Egregio Sig. Direttore.
Faenza, 27 dicembre 1913.

Andrè Maurel, uno scrittore francese che ha pubblicato 9 volumi sull’Italia, alcuni intitolati "Petites villes d’Italie e altri Paysages d’Italie", e che ora sta pubblicando il decimo e ultimo volume su "Venezia", in un volume della serie "Paysages d’Italie" si occupa anche di Faenza, con molta simpatia. Mi parrebbe opportuno pubblicare nel Piccolo il suo scritto su Faenza…


Dopo un secolo lo riproponiamo noi di Historia Faentina

  “E’ graziosa Faenza. Ma perché una città è graziosa? Da che passeggio in Italia ne ho visto un centinaio. E ogni volta mi sono chiesto, senza mai trovare una risposta precisa ed esauriente, quali siano i segni evidenti e incontestabili che spiegano il fascino di una città. Forse i fogliami che ci accolgono all’arrivo; la prima impressione agisce fortemente ed esercita la sua influenza durante tutta la visita.Forse anche una certa apertura di strade, la pulizia delle case, l’eleganza degli abitanti. Ma, sopratutto, credo, la disposizione del momento, la città che avete visitato per ultima e che non vi è piaciuta e, perché no, la sorpresa di non urtare alle medesime contrarietà e, chissà, l’ora della visita, prima o dopo il pranzo, la fatica sofferta o il riposo goduto, la speranza di un buon alloggio o il fatto di averlo trovato. Una città è graziosa per mille piccoli particolari indefinibili… l’aspetto generale delle strade l’imprevisto della distribuzione degli edifici e del loro insieme, mille cose vaghe e che piacciono. Faenza mi è sembrata, almeno nell’ora del mio arrivo, e nelle condizioni morali e fisiche in cui mi trovavo nell’entrarvi graziosa. Subito, uscendo dalla stazione, ho sorriso agli alberi del bel passeggio dalla strada ferrata alla città e sotto ai quali mi riposerò in attesa del treno. Banchine che invitano a sedervisi, benché poca cosa, rendono quel passeggio più gradevole. E poi ho provato una piccola soddisfazione. Anche questo è un elemento di piacere… ho scoperto un pittore; anzi due. E cioè di quel pittore, se non sconosciuto, nulla dicono le raccolte speciali. Burckhardt fra gli altri, ed è strano, non ne parla! Sorprende Burckhardt in fallo ! Qualchevolta si sbaglia, ma non dimentica nulla. Questa volta l’ho colto in fallo e me ne vanto. 







Giovanni Battista Bertucci il Vecchio,  Natività con quattro Santi. (Girolamo, Giovannino, Giovanni Evangelista e Bernardino da Siena). Appartiene alla Pinacoteca Civica di Faenza, proveniente con grande probabilità dalla distrutta chiesa dei Celestini.

Due sono i quadri di Giovanni Battista Bertucci raffiguranti la Natività, nella Pinacoteca Comunale di Faenza. I critici propendono che il quadro che ha entusiasmato Andrè Muriel,
"per la potenza del disegno,
per l'arditezza armoniosa del colore"

sia quello qui rappresentato a sinistra.


Giovanni Battista Bertucci il Vecchio, Adorazione dei Magi,
 Tavola cm 174 x 139. Provenienza ignota

Questo pittore, questi pittori si chiamano Bertucci, Gianbattista e Giacomo, quest’ultimo chiamato anche Jacopone da Faenza, mediocre, declamatore senza vigore, volgare senza accento; pittura industriale. Ma l’altro, Gianbattista, è un maestro! La sua Adorazione dei magi è uno dei quadri più impressionanti che abbia visto, per la potenza del disegno, per l’arditezza armoniosa del colore. Risente il Perugino, ma nelle qualità buone; tutti i suoi pregi, senza difetti di languore.Una sala interna del Museo di Faenza è piena di quadri dei Bertucci. La gioia di scoprire quadri così belli, perduti in fondo a una piccola città abbandonata, è un sollievo in viaggi minuziosi, tanto spesso deprimenti. Vi dà un nuovo vigore, vi incoraggia a nuove fermate che avevate voglia di dire superflue, a risparmio di fatica. La sala Bertucci del Museo di Faenza è un raggio di sole in questo viaggio in Romagna: sento che un giorno dovrò tornarvi per riscaldarmi di nuovo.L’intiero museo del resto merita di essere visitato. Un interessante Gesù sotto la croce del Palmezzano che vedrò a Forlì; un Luca Giordano saporito, una Sacra Famiglia vellutata e di una delicatezza squisita, che mi riconcilia con questo napoletano, che, del resto, avevo distinto dalla banda di malfattori attaccati alle calcagna del Domenicanino; in una sala una raccolta di maioliche, le celebri maioliche di Faenza, che si distinguono dalle altre di  Romagna, per il loro bleu di una tenerezza meravigliosa, di una tinta così fine; povere maioliche in pezzi, pietosamente raccolti; e finalmente due Donatelli, un San Girolamo e un San Giovanni Battista. Non basta questo per fermarsi un istante e per dire Faenza una città graziosa?


In alto il viale della stazione nel 1916.

A lato, il Palazzo del Podestà in una foto del 1930,
dopo lo smontaggio del loggiato superiore.




Il Duomo
Faenza ebbe un periodo di attività artistica; al tempo dei Bertucci aveva 19 pittori. Ma Venezia assorbì tutto. E Faenza disparve. Ebbe, siamo giusti, nella Rinascenza, sotto i Manfredi, benché poco amanti dell’arte, un certo splendore. In quell’epoca fu eretto il Duomo, costruito sul modello delle chiese fiorentine e come quelle con la facciata incompiuta, non rivestita di marmi. L’interno è una basilica a tre navate, opera di Giuliano da Maiano, terminata dal San Gallo e a cui la molteplicità delle cappelle attorno all’abside, la fantasia di piccole arcate poggianti su una colonna comune e inserite in un’altra arcata più grande che poggia su due pilastri, danno una fisonomia aperta e gaia. All’infuori di questa architettura, non vi è altro d’interessante che il monumento di San Savino, opera di Benedetto da Maiano, dai bassorilievi divertenti e che narrano le audacie del santo; fra le altre quella in cui da Maiano ha riprodotto un’eccellente statua antica: Savino rovescia un idolo, Cupido o Paride, eretto su un tripode e con un pomo in mano. La posa dell’efebo è gradevole, quella di Savino non le cede in nulla: egli spinge la statua con un buffetto, mentre l’altra mano, con noncuranza, è poggiata al fianco. Ma Bramante è venuto a Faenza? Alcuni lo negano, altri dicono che vi rimase dieci ani, ospite dei Manfredi. Sono lontani dall’intendersi: ma del resto che importa se il Bramante vi sia stato o no, dal  momento che non vi ha lasciato nulla di suo? Benché graziose e belle non si possono attribuire a lui le loggie che fiancheggiano la lunga Piazza. Due ordini di gallerie del genere di quelle di imola, ma con meno spazio davanti, ciò che le eleva e le rende più leggere. Bramante avrebbe eretto pilastri enormi e non queste svelte colonne.


Astorgio III Manfredi.
Sembrano perfino troppo leggere; appariscono quasi come una decorazione effimera di giorni di festa. Dietro queste gallerie si eleva il palazzo dei Manfredi, almeno il palazzo del loro governo, giacché si attribuisce ad essi un altro palazzo nella città, ma ricostruito nel secolo XVIII. Non resta nulla né del primo, né del secondo. Il palazzo del governo è diventata la sede del municipio, ma non vi è più nulla del tempo di Cesare Borgia e del bel Astorgio, null’altro che il ricordo di qualche delitto. L’autore poi ricorda il matrimonio di Galeotto con Francesca Bentivoglio, l’uccisione di Galeotto per mandato della moglie e l’intervento di Firenze per impedire che la madre assuma la tutela del figlio Astorgio. Firenze mise il loro figlio Astorgio, dell’età di tre anni sotto la tutela della città. E Astorgio crebbe in forza, bellezza e intelligenza, idolo del popolo di Faenza. Nel 1500 Astorgio aveva 18 anni. Cesare Borgia, in cerca di un principato da tramutare in un regno, con perspicacia e prudenza aveva posto l’occhio sulla Romagna. Il paese era prospero, la sua condizione politica di terra pontificia si prestava alla segreta ambizione del Duca Valentino. Chi poteva fargli un rimprovero se tentava di riprendere i domini della Santa Sede? Faenza forse credè un momento di essere trascurata. Passando da Imola a Forlì e da Forlì a Imola, Cesare rispettava il territorio di Faenza e ancora più la città. Passava senza molestarla: aveva perfino fatto delle promesse tranquillizanti.  Ma Faenza non si faceva illusioni.  Aveva ottenuto che un provveditore veneto venisse presso Astorgio; la sua presenza bastava per calmare l’impazienza di Cesare. La calmò fino a che Cesare non distaccò Venezia da Faenza. Astorgio allora si rivolse a suo nonno a Bologna e invocò il suo soccorso, Bentivoglio gli mandò uno dei suoi condottieri. Astorgio non aveva bisogno di capi, ma di soldati. Di fronte a questa decisione, lealmente propose ai suoi concittadini di allontanarsi; il massacro sarebbe stato evitato.
Faenza gettò un grido di indignazione, che echeggiò fino a Bologna, da cui partirono mille soldati. Il 10 Novembre fu posto l’assedio alla città. Cesare era tanto abile da non ricorrer alla forza che in mancanza d’altri mezzi e propose condizioni vantaggiose se Faenza si arrendeva. Faenza respinse ogni proposta. Ricorse alle minacce e fu deriso. Tentò l’assalto; fu respinto. Cesare rimase titubante. Non era utile conquistare un regno rovinandolo. Che vantaggio regnava su ceneri e in mezzo a rancori? Con il pretesto dell’inverno che tribolava le sue truppe, levò l’assedio. Forse il tempo avrebbe composto la vertenza.

  Quando Cesare tornò nell’Aprile del 1501 il tempo non aveva composto nulla. L’assedio fu posto di nuovo e Faenza si mostrò così valorosa che strappò un grido di ammirazione a tutta Italia, di cui Isabella d’Este, duchessa di Mantova, riassunse la gioia con la celebre frase: “i faentini hanno salvato l’onore d’Italia”. Salvarono l’onore, ma erano allo stremo di tutto. La città moriva di fame: Cesare lo seppe da disertori che fece impiccare per la réclame e aspettò. Dopo avere consultato gli Anziani, Astorgio nella notte dal 21 al 22 aprile si presentò al campo di Cesare e propose la pace, Cesare fu magnanimo. Giurò di non recare nessuna offesa alla città, da cui sperava fedeltà e sussidi, contentandosi di occupare la rocca. Ad Astorgio, l’idolo dei faentini, lasciò la vita, libero di recarsi ove più gli piaceva. Il condottiero Paolo Orsini, agli stipendi di Cesare, si rese garante di tanta mansuetudine. Ma che può fare un condottiero quando la guerra è terminata, se non andarsene? Orsini partì e Astorgio, che Cesare carezzava, il giovane e ingenuo ragazzo sedotto dalla benevolenza di Cesare rimase. Le cortesie si moltiplicarono e Astorgio non finiva dal lodare la magnimità del Borgia; l’avrebbe seguito in capo al mondo. Cesare si contentò di condurlo a Roma. E spinse i riguardi fino a dargli un alloggio in Castel S. Angelo, quello stesso in cui Caterina Sforza sarebbe morta se Yves d’Allégre non avesse imposto la sua liberazione. Astorgio resistè un anno intiero e siccome non mostrava nessuna disposizione a morire da solo, il 9 giugno 1502 Cesare lo fece gettare nel Tevere.  Nel passato, sulla spiaggia d’Anzio e nel Mercato di Napoli, vidi soccombere e morire un bravo giovanetto che scontava gli errori degli antenati e le ingordigie scatenate contro di lui. Corradino rimase una delle più commoventi immagini della storia e della leggenda. Il bello e amabile Astorgio merita di essere collocato presso Corradino. Non è morto come lui davanti al suo popolo al quale non ha potuto gettare un guanto che venisse raccolto e portato al suo vendicatore. La sua morte oscura è una nuova ingiustizia alla quale non dobbiamo associarci. Senza dubbioparla in favore di Corradino e d’Astorgio solo la loro giovinezza. Che avrebbero fatto se fossero vissuti? Non si può dir male di loro supposizione. Astorgio, il bello adolescente, intrepido e fiducioso, renderà sempre Faenza oggetto della nostra commozione. Napoli ha eretto una statua a Corradino. Come mi parrebbe ancora più graziosa Faenza se nella sua piazza fosse eretta la statua di Astorgio
  




MAUREL, André. - Scrittore francese, (Parigi 1863 - Parigi 1943). Critico d'arte ottiene un'enorme successo con la pubblicazione di libri  in cui descrive le sue impressioni di viaggiatore nelle città italiane, pieni di annotazioni storiche con descrizione dettagliata dei monumenti.
Con ardente simpatia e con vivacità pittorica il Maurel ha scritto sulle Petites villes d'Italie (4 serie, 1906-1911); Un mois à Rome (1909); La Sicile (1910); Quinze jours à Naples (1912); Paysages d'Italie (1912-1932); La jeune Italie (1918); L'art de voyager en Italie (1920); Un mois en Italie (1921); Les délices du pays des doges (1929), ecc. Ha scritto inoltre; Souvenirs d'un écrivain, 1883-1914 (1925); La duchesse du Maine (1928); La marquise du Châtelet, amie de Voltaire (1930), ecc.


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