Giuseppe Pistocchi

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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Pistocchi Giuseppe

di Rino Savini

da: I faentini dello stradario, Grafiche Galeati, Imola, 1986.


Era tradizione che famiglie nobili, o qualche monsignore aiutassero i giovani che dimostravano talento nelle arti e nelle scienze. Accadde cosi, che Giuseppe Pistocchi, figlio dello scalpellino Antonio, fosse aiutato dal vescovo di Faenza, Antonio Cantoni. Giuseppe Pistocchi era nato in detta città il 12 gennaio 1744. Frequentò la Scuola di Disegno architettonico sotto la guida di Giuseppe Boschi, detto il Carloncino. A diciotto anni il giovane Pistocchi diede un saggio della sua bravura disegnando la Piazza di Faenza, tanto bene, che l'incisore Giuseppe Ballanti Graziani volle riprodurla nella sua ben nota stampa. A questo punto il vescovo Cantoni mandò Pistocchi prima a Ravenna, poi a Roma a perfezionarsi presso l'architetto vanvitelliano, Carlo Murena. Oltre alla scuola, a Pistocchi fu di grande giovamento il contatto con i meravigliosi monumenti della città eterna. II vescovo Cantoni, che lo teneva sotto la sua protezione, lo presentò alla Curia Romana, che lo inviò nelle Marche con la qualifica di Architetto Camerale. Pistocchi, in tale veste, a Pesaro, provvide al restauro del Palazzo Apostolico, della Rocca Paolina, ed al trasporto e alla relativa sistemazione della statua di Urbano VIII. Poi, diresse le opere di consolidamento del forte di San Leo.

A Senigallia costruì il Palazzo Grossi. E’ ovvio che il suo protettore desiderasse avere un saggio del suo genio e gli commissionò il progetto dell'altare maggiore del Duomo di Faenza. Non è certo un capolavoro quello che ne sortì, e che tuttora si vede; l'altare dimostra l'immaturità del disegnatore e la soggezione scolastica ai maestri romani. Fanno spicco, tuttavia, i materiali messi in opera. La maturità e la personalità dell'artista Pistocchi, si manifestarono quando, nel 1771, da Roma mandò a Faenza, al costruttore capomastro Gioacchino Tomba, i disegni della chiesa dei SS. Ippolito e Lorenzo. II riminese Antonio Trentanove arricchì l'interno con decorazioni, bassorilievi e statue in modo da rendere il tempio uno dei più belli della città. Giuseppe Pistocchi, da buon romagnolo, sentiva la nostalgia della sua terra e perciò si fece trasferire a Faenza. I compiti, qui, non mancarono: c'era il ponte Manfrediano, con le due torri, da restaurare, cosa che fece conservandone tutte le caratteristiche; poi, fu la volta della costruzione del palazzo Bandini-Spada, in corso Porta Imolese (ora Mazzini); ed altre opere importanti. Per il valore che andava dimostrando e per quell'attaccamento affettuoso che lo legava all'artista, mons. Antonio Cantoni nominato arcivescovo di Ravenna, chiamò il Pistocchi affinché ricostruisse la nuova cupola della Cattedrale, in sostituzione di quella mal riuscita del Buonamici. Mentre attendeva a quest' opera, che lo tenne impegnato per circa tre anni. Pistocchi ricevette l’incarico dall’Accademia dei Remoti di costruire il nuovo teatro a Faenza. Egli presentò un progetto che sovvertiva tutte le tradizioni sia nella forma architettonica, sia nella disposizione acustica. Però, la somma che inizialmente era sembrata sopportabile, si manifestò ben presto appena sufficiente per un quarto dell'opera. Sorsero quindi difficoltà e contrasti che provocarono interrogazioni e non poche amarezze all'architetto. Ma tutto dimenticò quando il teatro fu inaugurate la sera del 12 maggio 1788 con l'opera Caio Ostilio del Giordanello, e con il ballo pantomina Castore e Polluce. Le lodi che Pistocchi ricevette erano pienamente meritate; infatti la sala, decorata sapientemente con le statue e i bassorilievi del Trentanove ed affrescata da Antonio Valiani e da Serafino Barozzi, oltre che ad essere un gioiello di eleganza, si rivelò di un acustica perfetta.




Palazzo Gessi, corso Mazzini 54,. Giuseppe Pistocchi, 1786.
Poiché si volle collegare la residenza municipale con il nuovo teatro, si diede l'incarico a Pistocchi di provvedervi ed egli compì un altro capolavoro costruendo la Galleria dei Cento Pacifici. Sulle ali dell'entusiasmo Pistocchi tentò di inserirsi nell'agone internazionale, presentandosi al concorso di Venezia per il nuovo teatro che si doveva chiamare «La Fenice». Quando Pistocchi seppe che la giuria doveva favorire l'architetto veneziano Gian Antonio Selva, non inviò la perizia di spesa, perciò il suo progetto non fu posto nemmeno in graduatoria. Non per questo l'opera prolifica dell'artista rallenta; anzi, è del 1791 la costruzione del Pelatoio e del Macello Pubblico, sulle mura Diamante Torelli; seguono, poi, il palazzo Gessi e l'incompiuto palazzo Conti-Guidi, e la sua casa in corso Porta Imolese a Faenza. II desiderio e l'ardore per le cose nuove lo spingono alla ricerca della cultura d'oltr'Alpe, attraverso canali segreti; questo era sufficiente, nello Stato Pontificio, per essere tacciati di rivoluzionari e giacobini. Siccome le idee nuove in arte sono unite a quelle di libertà, Pistocchi riunisce nella sua casa i propagatori delle nuove idee ed egli stesso ne diventerà uno dei più fervidi diffusori. Alla polizia dello Stato Pontificio non sfuggirono queste tendenze ribelli e c'è da credere che, nell'intento di legarlo alla Chiesa, fu inviato a Faenza il cardinale legato Nicolò Colonna di Stigliano per conferire a Pistocchi il titolo di cavaliere dello Sperone d'Oro, a riconoscimento dei meriti di artista e come ricompensa alla sua attività di architetto della Camera Apostolica. Pistocchi non si commosse ne si ricredette! Nel contempo riceve dal conte Francesco Milzetti l'incarico di costruire un palazzo in via Tonducci, nel luogo in cui esistevano già delle case di proprietà del conte.
    Questi voleva che il suo palazzo potesse gareggiare con quelli dei principi e dei ricchi patrizi faentini. L'opera non poté essere portata a termine dal progettista, perché quando nel 1799 fecero ritorno le milizie austro-pontificie, Pistocchi fu imprigionato e la prosecuzione dei lavori fu affidata all'architetto Giannantonio Antolini di Castelbolognese. Sarà proprio l'Antolini la pecora nera del Pistocchi; infatti, un primo dispiacere l'ebbe quando l'amministrazione giacobina, non attendendo la liberazione di Pistocchi dalla prigionia, affidò all'Antolini l'incarico di costruire sulla via Emilia, all'altezza della chiesa del Paradiso, l'Arco a ricordo della vittoria delle truppe francesi su quelle papaline al Ponte di San Procolo (2 febbraio 1797). A sua consolazione, il Pistocchi venne nominato Ispettore Generale delle Caserme del Dipartimento del Rubicone e ingegnere idraulico del canale Naviglio.



Palazzo Milzetti, via Tonducci 15. Giuseppe Pistocchi, 1792.
  Per essere più vicino al Governo Centrale Repubblicano, egli, nel 1801, si trasferì a Milano dove assunse l'incarico di Architetto dei Quartieri Militari. E, nella capitale lombarda trova, ancora, l'Antolini che già si era affermato col famoso progetto del Foro italico, ribattezzato, poi, col nome di Foro Bonaparte. L'accanimento posto dal Pistocchi per avere una rivincita sul rivale fu espresso nei numerosi progetti presentati ed in gran parte non realizzati. Fra questi progetti vanno ricordati quello per Porta Sempione e Porta Ticinese; quello per la costruzione di un Palazzo Reale sull'area dei ruderi del castello Visconteo; quello della sistemazione chiusa a portici della piazza del Duomo; e quello di un ponte sul Ticino che per slancio strutturale si può definire precorritore di moderne strutture. Durante il soggiorno milanese, Pistocchi venne frequentemente a Faenza, tanto che nel 1803 ebbe l'incarico di costruire l'Arco Trionfale, nei pressi di Porta Imolese (quello fatto dall'Antolini era stato abbattuto nel 1799) in onore di Napoleone che doveva venire a visitare la Romagna. Inoltre, è di quel periodo la costruzione della casa posta in corso Mazzini al n. 71 e quella in corso Garibaldi al n. 9, detta «dell'Aquila». Nel 1806, Pistocchi ottenne l'incarico di Direttore dei Palazzi Reali di Mantova. Qui progettò una nuova sistemazione della Porta Pradella. Come ultimo suo lavoro di grande impegno presentò il progetto per il concorso del monumento sul Moncenisio voluto da Napoleone; progetto che non poté essere realizzato per eventi politici. Quando nel 1813 ottenne la sospirata ed ambita cattedra universitaria a Pavia, egli, sfortunatamente, si ammalò di tumore al piloro. Non volle morire lontano dalla sua città natale, perciò si fece portare nella sua Faenza ove spirò il 20 agosto 1814. Fu sepolto nel cimitero napoleonico in località di San Rocco, lungo la via Ravegnana. Poi, nel 1825, amici fedeli vollero onorarne la memoria collocando nella Cattedrale un monumento di stucco, opera dei fratelli Ballanti Graziani, su disegno di Gaetano Bertolani.




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