Le esecuzioni delle sentenze capitali a Faenza e in Romagna

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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Le esecuzioni delle sentenze capitali a Faenza e in Romagna

Un numero impressionante di fucilati e ghigliottinati a metà Ottocento. Briganti e manutengoli, delinquenti comuni e cospiratori.

Angelo Emiliani
Non sappiamo se la Romagna abbia avuto un suo “Mastro Titta”, il boia romano Giovan Battista Bugatti esecutore di ben 516 sentenze capitali diligentemente descritte una ad una in un libro di memorie. Quel che è certo è che chiunque abbia assolto quel compito da queste parti ha avuto il suo da fare. Per quanto macabro, l’argomento ha un suo posto nella storia delle nostre zone. Un posto, come vedremo, tutt’altro che trascurabile. Saltiamo le epoche più remote - quando ad essere bruciati sul rogo, murati vivi, mazzolati sulla ruota o squartati erano soprattutto eretici, streghe e assassini - per venire agli ultimi decenni in cui si eseguivano in pubblico le sentenze di morte. L’elenco è sicuramente incompleto, ma basta per farsi un’idea. Il 14 agosto 1824 di buon’ora il carnefice di turno colloca al centro della piazza Maggiore di Faenza la “machina decolatrice” e alle 9 in punto la testa di Domenico Maria Martini, detto Marei, rotola nel cesto. Stessa sorte tocca tre anni dopo, il 1º agosto 1827, a Domenico Zauli, “surnomato” Tiberietto. E’ accusato dell’uccisione di un prete, don Brintani. La ghigliottina torna a Faenza il 7 aprile 1845: la pesante lama si abbatte sul collo di Giuseppe Liverani, non sappiamo per quale imputazione.

Briganti e cospiratori
Se fino a metà ‘800 le esecuzioni costituiscono eventi straordinari, da qui in avanti assumono una cadenza impressionante. Ciò è dovuto al combinarsi di più fattori: ai tradizionali “clienti” del boia - spesso poveri diavoli accusati di furto o poc’altro - si aggiungono gli appartenenti alle numerose bande di briganti che infestano il territorio e terrorizzano i benestanti, oltre a chi presta loro aiuto e rifugio o è sospettato di farlo. E i cospiratori, quelli che poi verranno chiamati “patrioti”.
Apre la lunga serie la fucilazione dell’oste Giuseppe Boesmi, colpevole di detenere un’arma vietata: un pugnale. La sentenza viene eseguita il 21 settembre del ’49. Il 17 aprile 1850 è la volta di Giuseppe Casadio, un muratore di 37 anni conosciuto come Treponti: lo fucilano nel mercato del bestiame, l’attuale Tondo, per essersi introdotto nel cortile del Brefotrofio femminile armato di coltello. Trascorrono cinque mesi. L’11 settembre, sempre a Faenza, vengono fucilati cinque condannati dalla Legge Stataria, fra i quali Giuseppe Golfieri, un 24enne detto e Schêlz, e Antonio Basili detto Basei. Sulla testa di questi ultimi grava l’accusa di aver fatto parte della banda del Passatore e di aver partecipato il 17 gennaio all’invasione di Cotignola.
Pochi giorni dopo, il 17, altra esecuzione collettiva: a Faenza vengono fucilati per delitti comuni commessi “per spirito di parte” - è questa l’accusa mossa a chi si oppone al potere costituito - Domenico e Luigi Trombetti, Luigi Michinelli e Girolamo Berti. Nella stessa giornata imputazioni analoghe portano davanti ai plotoni d’esecuzione numerosi condannati anche a Lugo e a Imola. Altre esecuzioni avvengono a Faenza e a Lugo il 30 dicembre a carico di “grassatori”, ovvero ladri di strada. Solo a Faenza sono ben cinque: Sebastiano Fabbri, Domenico Bellosi, Pietro Montanari, Giuseppe Pontezzi e Giuseppe Bordanini. Non passano neppure le Feste e il sinistro copione torna in scena. Il 6 gennaio 1851 vengono fucilati a Faenza Giuseppe Branzagli detto Bellozzi e Luigi Albonetti detto Bafión. La sentenza di morte a loro carico parla di “grassazione armata mano”. L’ufficiale di turno ordina “Fuoco!” altre due volte nel marzo seguente: il 6 per eseguire la sentenza capitale per “ricettazione abituale di malfattori” a carico di Silvestro Servadei, un colono soprannominato Biundén, e il 24 per togliere di mezzo Luigi Farabegoli, un cesenate manutengolo della banda del Passatore.

La stessa accusa costa la vita a un altro faentino, Pietro Borghi chiamato Guerrini: viene fucilato il 23 aprile. Arriviamo al 27 settembre del 1853. Per “delazione d’arma con conato d’omicidio e ferimento semplice” (detenzione d’arma e tentato omicidio) dovuti a vecchi rancori, viene eseguita la sentenza di morte per fucilazione emessa contro Gaspare Bertoni detto e Papalén o S-ciapazöcch. Non si creda che le esecuzioni capitali avvengano solo a Faenza, a Lugo o nei centri maggiori. Il 22 aprile del ’51 si esegue a Bagnacavallo la sentenza di morte per fucilazione contro i fratelli Giacomo e Giovanni Donati. Il 1º maggio 1852 Castel Bolognese è teatro di tre esecuzioni. I fucilati sono Carlo Mercadelli soprannominato Tegamello e due complici del Passatore: Giuseppe Segantini e Giacomo Drei. Ancora a Castel Bolognese sono giustiziati il 19 dicembre 1853 il possidente Giovanni Pirazzini detto Zaglióna e il sarto Antonio Gaddoni. Il Tribunale li ha giudicati colpevoli di omicidi commessi tre anni prima, guarda caso per spirito di parte.

Il conto del carnefice
Il giorno dopo a Faenza cadono le teste di Francesco Ballardini di Reda, per aver ucciso il cav. Andrea Alboni il 5 aprile del ’49 a Fognano, e di Francesco Biancini detto Badón, reo dell’assassinio di don Carlo Marabini. Sono i casi dei quali è rimasta la documentazione più consistente. Le decapitazioni di norma avvengono in piazza, ma questa volta la Deputazione comunale chiede e ottiene dal Tribunale civile e militare di Ravenna che si proceda nel foro boario. Lo spostamento comporta una maggiore spesa attorno ai 24 scudi e il “maestro di casa del Comune”, Achille Biasoli, presenta il conto. Nessuno intende pagarlo e si apre così una vertenza che, vista con gli occhi di oggi, appare a dir poco indecente. Il giorno in cui si esegue il maggior numero di condanne a Faenza è il 15 giugno 1855: nel piazzale antistante il Gioco del pallone, in Porta Montanara, vengono fucilati otto “malandrini”. Le cronache del tempo non ne fanno i nomi. Quella che forse è l’ultima esecuzione - di sicuro la più lugubre - è del 15 gennaio 1859. Viene decapitato Ignazio Toschi, conosciuto per Tracagnì, falegname e canapino di 28 anni, riacciuffato dagli svizzeri pontifici la sera del 17 gennaio di due anni prima dopo essere evaso assieme ad altri detenuti dalle prigioni di Rocca S. Cassiano. Gli tagliano la testa alle 9 di mattina, “davanti a  molto popolo”, nel luogo in Porta Imolese dov’era stato eretto l’arco in onore dei francesi. La sua testa è lasciata per un’ora alla “pubblica vista”. Luogo e rituale prescelti assumono un evidente significato simbolico. L’elenco dei faentini giustiziati in quegli anni terribili è ancora più lungo. Il 24 luglio 1847 è fucilato a Bologna “per più delitti” Luigi Ricci. Un gendarme pontificio, Carlo Laghi, è messo al muro in Ancona l’8 agosto 1850. Il 21 ottobre 1853 è la volta di Domenico Casadio detto Pacini e Carlo Pini detto Carapiòt, fucilati per rapina a Bologna. Pietro Samorini fa la stessa fine, sempre a Bologna, il 26 agosto 1854. “Esecuzione d’autore” per Giovanni Di Giuseppe: il 29 ottobre 1855 è lo stesso “Mastro Titta” a tagliargli la testa; pare che avesse ucciso un ispettore di polizia.


Una terra turbolenta
Vorremmo sbagliare, ma in fatto di esecuzioni capitali Faenza risulta in quegli anni ai primissimi posti in campo nazionale. La precedono solo Rovigo ed Este, città in cui le sentenze di morte contro delinquenti e grassatori durano a lungo con numeri impressionanti. Solo pochi esempi: a Rovigo 16 fucilati il 12 dicembre 1851 e 18 il 17 luglio dell’anno dopo; a Este 48 nei mesi di aprile e maggio del ’51. Sono, quelle, terre fra le più povere e malsane. Tornando a Faenza, l’uccisione a coltellate del gonfaloniere Giuseppe Tampieri l’8 luglio del ’52 - uno dei tanti fatti di sangue che accadono in città - è seguita da una raffica di arresti e addirittura dalla proclamazione dello stato d’assedio. Per quanto continuino a sorprendere, sembrano dunque trovare giustificazione le parole di fuoco con le quali Massimo d’Azeglio marchiò la Romagna in anni di poco successivi: … vi è “una generazione di uomini vile, oscura, di rotta e scellerata vita, usa all’ozio, al bagordo, alla risse da taverne, che si grida devota al Papa, al suo Governo, alla Religione, e con questo vanto si tiene sciolta d’ogni freno, d’ogni legge, stima lecita ogni violenza… La città e il borgo di Faenza son divisi da miserabile e inveterato odio cittadinesco, avanzo probabilmente d’antico parteggiare”. Ma non è solo un torinese, che potrebbe non conoscerci, a descriverci in questo modo. Luigi Carlo Farini, l’uomo politico di Russi assurto ai massimi incarichi di governo, non è meno esplicito nel descrivere Faenza quale “città travagliata sovra tutte per le ire di parte”.

Intanto in Toscana…
Mentre in Romagna il boia fa gli straordinari, a pochi km da qui si respira aria di civiltà. Nel Granducato di Toscana, i cui confini corrono a un tiro di schioppo da Faenza, proprio sopra Marzeno, la tortura e la pena di morte sono stati aboliti - primo Stato al mondo - fin dal 1786. Seguiranno l’esempio la Repubblica Romana nella breve parentesi del 1849 e la Repubblica di S. Marino nel 1865. Da noi bisognerà attendere il 1890, quasi trent’anni dopo l’unità d’Italia. E le donnette continueranno a lungo a recarsi furtivamente al Tondo, sul luogo delle fucilazioni, nella speranza di ricevere dai trapassati i numeri buoni da giocare al Lotto.



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