Bisò etimologia di un nome
di Giuliano Bettoli
“Staséra a fasèn e' bisò!" diceva mio nonno qualche volta, d'inverno.
Era festa grande per noi, bambini. Sul fuoco del camino, il paiolo
pieno di sangiovese (con l'aggiunta di bucce d'arancia, cannella e
chiodi di garofano). II profumo, impagabile, che si diffondeva
dappertutto, quando si alzava il bollore. Poi quel mezzo miracolo qual
era, ogni volta, la fantastica fiamma azzurrognola che si accendeva,
con l'aiuto di uno zolfanello, e baluginava a lungo sopra il paiolo, a
consumare l'alcool che esalava dal vino bollente (talvolta, però, la
fiamma non si accendeva: la rabbia!). E che allegria, poi, berlo: il
bisò. Nel freddo delle nostre case d'allora, il bisò confortava mente,
cuore e pancia. Già: il "bisò". Noi di Faenza, quella bevanda,
l'abbiamo sempre e solo chiamata cosi: bisò. Immaginarsi come ci
rimasi, anni dopo, quando sentii qualcuno che, in dialetto e in
Romagna, il bisò, lo chiamava "brulé"! Fu nei giorni in cui,
combinazione, quel vulcanico promoter della Romagna che fu il dottor
Alteo Dolcini, con alcuni suoi soci aveva ideato la "Nott de Bisò".

Paiolo di rame sul fuoco, pieno di bisò.
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In due parole: nella piazza, a Faenza, l'ultima notte dell'anno
1964, apparvero gli operosi stands dei cinque Rioni faentini (Rosso,
Bianco, Giallo, Nero, Verde) a far bollire paiolate di bisò rosso sui
fuochi, pancetta e salsiccia sulla graticola e, a mezzanotte, il rogo
di un gran fantoccio vestito con il colore del rione uscito vincitore
dall'ultimo Palio del Niballo.
E mucchi di gente a bere bisò e a mangiare. Fu inoltre messa in
vendita una brocca con cinque gotti in ceramica, opera dell'artista
Gaeta (la manifestazione prosegue ancor oggi, sebbene trasferita alla
notte dell'Epifania). In quell'occasione, la parola "bisò" fu
ufficializzata: difatti, per la prima volta, compariva in forma
scritta, sui manifesti in tutta la Romagna. Fuor di Faenza, la gente
era rimasta interdetta: "Nott de Bisò"?! Che diavolo era mai il "bisò"?
Ci accorgemmo, allora, che quella parola l'adoperavamo solo noi
faentini, e che nei dialetti di tutto il resto della Romagna per non
parlare del resto dell'Italia - la parola "bisò" era completamente
sconosciuta. Da dove era arrivata a Faenza? Quale ne era l'etimologia?
Un bello spirito, strizzandosi il cervello, provò ad inventarsi che il
termine faentino "bisò" derivasse dall'espressione dialettale "dbì sò",
cioè "orsù bevete". Una pena. Gli ridemmo in faccia. La soluzione
dell'enigma, come sempre, era li, sotto gli occhi di tutti, ma ci
voleva chi, gli occhi, li avesse aperti. Quello fu Mario Rosetti: ex
calciatore del Faenza, sempre impegnato in numerose iniziative
cittadine. In una rivendita ambulante trovo, casualmente, un vecchio
vocabolario francese dell'Ottocento: il Dictionnaire de la langue
française del E. Littrè. Chissà perché i suoi occhi corsero e si
focalizzarono sulla parola bischof, fino alla relativa spiegazione:
"Vino caldo e aromatizzato". Era, pan pari, il faentino bisò! Non solo:
lo stesso vocabolario indicava che si trattava di un anglicismo. La
parola era, quindi, giunta in Francia, provenendo dall’Inghilterra. Di
li, il resto e venuto da solo. A Mario Rosetti ha dato una mano il
figlio, Marcello, andando a frugare nella biblioteca dell'Università di
Bologna. Di seguito riporto il succo delle ricerche dei due Rosetti sul
lungo peregrinare del termine bisò dall’ Inghilterra sino a Faenza,
attraverso la Germania (eh si, anche in terra teutonica) e la Francia.
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Bishop, che significa "vescovo", come tutti sapete, se aprite un
dizionario inglese-italiano, ha ancora oggi altre due accezioni:
"Alfiere del gioco degli scacchi" e "Vino brulé". L'analogia vescovile
è evidentemente legata al color violetto della bevanda, colore
caratteristico anche degli abiti del vescovo. E' evidente il carattere
un po' profanatorio di un simile accostamento. "Mi bevo un bel
bicchiere di brulè", in Inghilterra, ad un anticlericale dava la
soddisfazione di dire: "Mi bevo un bel bicchiere di... vescovo!". La
prima citazione scritta del termine bishop, nell'accezione enologica,
si ritrova nel 1738 in un passo di Jonathan Swift, il famoso autore de
I viaggi di Gulliver. Anzi, in quel periodo si ha notizia di altre due
bevande simili, dette cardinal (cardinale) e prelate (prelato), a base,
rispettivamente, di vino bianco e di borgogna. Clero e alcool venivano
dunque gemellati a viva forza! Dall'Inghilterra, il termine abbinato al
suo significato "alcolico" trasmigra in Germania ove, nel 1774, si ha
la prima testimonianza scritta di
bischof, "vescovo", col significato di
vino aromatizzato e riscaldato. Altra tappa del Tour e la Francia, dove
bischof si francesizza in bichof, mantenendo il solo significato di
vino rosso caldo earomatizzato. Per i transalpini si tratta di un vero
e proprio anglicismo perché, com'e noto, "vescovo" in francese si dice
"évêque". In Francia appare usato, in forma scritta, nell'anno 1838.
Poi, chissà quando, ridotta solo a bisò, la parola si trasferisce in
Italia, ma si ferma solo a Faenza. Saprà mai qualcuno spiegarne il
perché?
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