Il colera morbus del 1835-36 visto da Faenza

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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 Storia Moderna


IL COLERA MORBUS DEL 1835-36 VISTO DA FAENZA

Giuseppe Porisini


"Si sa infatti che dal 11 dicembre (1834) giorno nel quale morì in  detta città (di Marsiglia) un individuo con dei sintomi che lo fecero giudicare affetto di cholera, fino al 31 del mese istesso, e così per il corso di giorni 21, altri quindici individui sono caduti malati, alcuni con sintomi simili a quelli del primo, altri con quelli del così detto Cholerina. Dodici di questi sono mancati...”, così riferisce la Gazzetta di Bologna, nel suo numero di giovedì 8 gennaio 1835, riportando una comunicazione della consorella di Firenze. È questa la prima notizia che a noi proviene dalla Francia, via Livorno, riguardante l'epidemia colerica che in un primo momento si estese nel litorale mediterraneo francese per passare poi, in prosieguo di tempo, attraverso le Alpi e il Mare e svilupparsi con una certa virulenza nello Stato Sardo ed in altri Stati Italiani.

Copertina del volume dal quale è tratto l'articolo a fianco pubblicato del 1936.
La notizia sopra riportata ci viene confermata dalla circolare del Pro Legato Apostolico di Ravenna sotto la data del 21 gennaio dello stesso anno nella quale, mentre si ricorda che la "disgustosa emergenza del Cholerà Morbus nella città di Marsiglia non presenta tutta la sua intensità forse a cagione della stagione", notifica inoltre che la Congregazione Speciale di Sanità aveva date tutte le disposizioni, “per mare e per terra”, onde impedire che il male potesse penetrare negli Stati Pontifici richiamando, allo scopo, in vigore il Regolamento 20 agosto 1831. A nome pertanto della lodata Congregazione, continua il Pro Legato, l'Eminentissimo sig. Cardinale commissario straordinario si interessa a voler dare le più “energiche disposizioni alla Magistratura ed alle Commissioni di Sanità di questa Provincia, onde ciascuna nella sua periferia giurisdizionale se ne occupi con tutto l'impegno". Il magistrato commutativo di Faenza, aderendo quindi all'invito pervenutogli dalla superiorità, dopo di avere pubblicato un avviso alla cittadinanza, istituì una Commissione speciale incaricata di “invigilare che nella città venga conservata possibilmente la pulizia e nettezza delegandola inoltre di provvedere a tutte quelle misure atte a far fronte ad ogni pericolo di cholera qualora, malauguratamente, si fosse presentato”. Tale commissione risultò formata dai cittadini: dott. Paolo Anderlini, dott. Francesco Brentani, conte Alessandro Ricciardelli, conte Battista Troacossi Filippo Bandini, Giuseppe Silvagni, don Andrea Marcucci, parroco di S. Severo e canonico Antonio Bandini. Per dar principio all'adempimento dell'incarico ricevuto, la commissione testé ricordata tenne alle ore 12 del giorno 9 febbraio la sua prima sessione. Dal rapporto redatto ed inviato al Gonfaloniere apprendiamo che ciò che, subito, stette a cuore dei commissari fu la nettezza della città.

Pulizia delle strade e delle case
Le strade di Faenza lasciavano in quel tempo molto a desiderare, sia come viabilità e sia come pulizia. Benché esse venissero spurgate una volta al giorno, un certo numero di poveri "sul far del giorno cominciano a raccogliere in esse ogni sorta di lordura e immondezze, continuando tutto il dì in tale occupazione per farne mucchi di stabbio, presso le loro case o nei loro cortili, in vicoli angusti o intorno al circondario interno delle mura”. Questi ammassi di letame sono depositate sulle mura delle Carceri e su quelle del Macello a tale altezza da essere quasi a livello dei tetti delle circostanti abitazioni. Tali depositi sulle mura cittadine lungi dall'essere considerati dannosi, vennero dalla Commissione tenuti in buon conto in quantochè i gas che da essi si sviluppavano, tendendo sempre a sollevarsi in alto ed essendo perenne e libera la ventilazione sul giro delle mura stesse, si disperdevano e si dissipavano.  “Per le quali cose noi penseremmo, che quanto al circondario interno delle mura non si dovesse eseguire alcun cambiamento, salvo far diradare i suddetti depositi di letame, che si trovano sulle mura prossime allo Spedale, per quelle del Gioco del Pallone, e sulle altre della Ganga, e di S. Ippolito,  giacché il loro spessore potrebbe dar luogo ad un cumulo tale di fetenti esalazioni da pregiudicare in qualche modo la sanità dei contigui  abitanti". Come si vede quindi la città nostra era circondata da un aulente corona di profumi.

Mura gioco del pallone.

Mura delle Carceri di San Domenico.
Ma un altro problema, pur esso inerente alle strade, doveva essere risolto: lo sgorgo delle acque torbide ed immonde provenienti dalle case prive di sotterranei condotti.  "In tutte le strade di Faenza vedesi nel loro  mezzo un rigagnolo di acque sporche che quivi vanno continuamente colando, e siccome nella maggior parte le vie non sono inclinati abbastanza  le acque non scorrano agevolmente, per imboccare i pubblici chiaviconi, così accade che in più luoghi, queste si soffermino, quindi imputridiscano".  Le proposte per ovviare a tale inconveniente furono di costruire più alte le chiaviche domestiche qualora lo sbocco delle medesime si trovasse più basso della superficie della strada ed in caso che una lunga mancanza di, pioggia facesse sì che le acque "di soverchio "rimanessero ferme o scorressero con troppa lentezza che "una volta almeno la settimana si getti molta acqua in quei dati siti per favorire lo scolo della stagnante". E non soltanto a questa branca si fermò l'interessamento della Commissione di Sanità. Vennero di conseguenza varie proibizioni, ad esempio quella di seppellire i morti nelle chiese, dato che la città possedeva un ben ordinato cimitero, posto a debita distanza dall'abitato, in luogo aprico e ben tenuto, quella di vendere frutti immaturi, o passati di maturità, come cetrioli, brugnole, cocomeri e meloni, l'altra che inibiva la vendita dei panni usati e la introduzione degli stracci provenienti da paesi infetti se non prima fossero stati immersi per dieci minuti in ranno bollente ed infine la proibizione di tenere nell'interno delle case i suini ed ogni altro animale immondo, assegnando ai detentori o proprietari il termine di ventiquattro ore per farli tradurre altrove fuori città, borgo e sobborghi.

Le mura di S. Ippolito.
E nemmeno i bracciatelli si salvarono poiché se ne proibì fino a nuovo ordine la fabbricazione "non solo perché è un cibo indigesto, ma  ben anche per togliere la causa, che le acque provenienti dalla fabbricazione medesima siano gettate sulle pubbliche strade siccome sin qui si è abusivamente praticato, le quali emanano delle fetentissime esalazioni". Le notizie poco liete invero dell'estendersi del colera e del suo diffondersi con intensità e con rapidità nel mezzogiorno della Francia non solo, ma anche nelle parti d'Italia più vicine ad essa, mettevano nella popolazione faentina un certo timore tenuto abbastanza vivo dalle molte circolari delle Legazioni che davano le "nuove" e dai molti avvisi della comunità tendenti a mettere in atto le previdenze qui sopra citate, indispensabili a tutelare la salute pubblica. Ne mancò anche un allarme; venne portato all'ospedale civile un soldato della guarnigione svizzera che presentava indizi di convulsioni. Tali convulsioni parvero alquanto sospette e furono senz'altro attribuite ad un principio di colera. Lo svizzero venne isolato dagli altri ammalati, ma ben presto l'allarme cessò poiché il dottor Paolo Anderlini, dopo due accurate visite, avvisò la Comunità che non aveva trovato nel degente "i sintomi tipici essenziali del cholera, ma che viceversa si trattava unicamente di affezione convulsiva di cui hanno partecipato anche i muscoli della faccia, onde questa compariva raggrinzata e di coler livido" (9).
II Lazzarétto
Non accolta l'idea che in un primo momento venne ventilata di adibire a Lazzarétto parte del pubblico ospedale, decise la Commissione speciale di Sanità di aprire (in caso fosse scoppiato il colera) il lazzaretto medesimo nei magazzini della Congregazione del Canal Naviglio (Darsena, ora scomparsa in seguito all'erezione del cavalcavia ed al conseguente risanamento del piazzale davanti a Porta Pia), ma, dopo una visita ai locali, effettuata al 29 agosto 1835, il pensiero venne dimesso, poiché furono trovati inadatti. Si posero gli occhi allora sul convento di San Francesco, o per essere più esatti, sulla parte del detto convento occupata dalla truppa austriaca che avrebbe dovuto, nel caso, essere trasferita nei locali di Santa Maria Nuova, di proprietà dei padri gesuiti. Ma l'attuazione di tale progetto fu ostacolata da due parti. Il primo a protestare fu Padre Francesco Reina, guardiano del convento: "Un ripetuto cicalamento, egli scrive, di imminente disavventura ci ha un poco rammaricati. La pericolosa malattia del cholera minaccia la mia esistenza, nonché de' miei religiosi, se ad effetto  conducesse quanto la comune voce parla su li progetti stabiliti dall'Eccellenza Vostra e dall’Illustrissima Deputazione sanitaria sulla scelta del locale per ricoverare gli ammalati, allorché il bisogno ne lo chiedesse". Ma questo si può considerare il minore dei mali perché una risposta alquanto pepata del Gonfaloniere mise in tacere il pauroso guardiano. L'ostacolo insormontabile venne dall'autorità militare. Il rapporto che la Comunità inviò al Cardinal Commissario straordinario Pontificio in Bologna per illustrare la domanda di trasferimento dei militari austriaci ottenne un risultato che, se sulle prime parve soddisfacente, si manifestò in ultimo totalmente contrario al progetto. Scrive il Commissario straordinario : "Non ho in genere difficoltà per aderire al progetto. In specie però devo chiamare la magistratura ad esaminare bene se il cambiamento della caserma, e lo stabilimento dell'ospedale sono di facile esecuzione tanto per il tempo quanto per la spesa che dovrà essere a tutto carico della Comune.

La Darsena del Canale Naviglio, in una foto del 1930.

Piazza San Francesco, sulla sinistra la caserma.
Questo signor Generale Comandante Pachner non si oppone al cambiamento della Caserma quando quella di S. Maria Nuova. Ma il Generale Avesbery di Forlì informò il Comune che gli sembra troppo vasto il Convento di  S. Francesco per un Ospedale". Incaricato dal Generale Avesbery di una visita ai locali di S. Maria Nuova il Comandante austriaco della piazza di Faenza, De Fover, il quale, al dire del Gonfaloniere, limitò la sua ispezione alla sola porzione occupata dai Carabinieri della Colonna Mobile, trascurando due grandi e ventilati "corridori", undici e più ambienti, il cortile, il pozzo ed ogni altro comodo e diede senz'altro parere sfavorevole. Una seconda visita non portò alcun cambiamento benevolo "perché assolutamente dall'Ufficialità Austriaca non vuole acconsentirsi a verun trasferimento". La determinazione della Commissione di Sanità in data del 3 settembre 1835 stabilì in definitiva il luogo dove si sarebbe dovuto impiantare il lazzaretto : questo fu il convento dell'Osservanza, di proprietà Comunale, il quale convento era pure stato adibito per Ospedale suburbano nell'anno 1817 in occasione di una epidemia di tifo. I religiosi Osservanti sarebbero stati convenientemente situati nell'ex Convento della SS. Trinità in Borgo, che allora veniva goduto dal Parroco di Sant'Antonino. La porzione del convento ceduta per il lazzaretto poteva contenere tra uomini, e donne e militari, "che debbono occupare un luogo separato”, sessantasei individui e ventiquattro inservienti. Tali inservienti erano: un medico, un medico astante "che sarebbe ben fatto che fosse ancora chirurgo", uno speziale, due flebotomi, due cappellani, un custode che sbrigasse anche le mansioni di economo, un portinaio, un cuoco, un sottocuoco, due inservienti militari, quattro uomini inservienti, quattro donne pure inservienti, quattro portantini. "Per essere molto da vicino minacciati dal Cholera Morbus stimiamo" cosa ben fatta, e necessaria l'allestire il locale dell'Osservanza" se non tutto almeno due corridoi, quello cioè che guarda il campo santo, "ed altro che fosse di minor incomodo dei frati" così scriveva al Gonfaloniere la Commissione di Sanità in data 7 settembre 1836. Venne data esecuzione all'ordine della Commissione? Non ci è dato precisarlo, ma nulla si può propendere per l'affermativa, dato che si rinviene in una lettera del Gonfaloniere al Padre Guardiano dell'Osservanza ed una determinazione municipale con la quale si reclamavano dai cittadini gli effetti richiesti col foglio Circolare 3 settembre 1835, effetti necessari appunto per l'impianto del Lazzaretto medesimo (10).

Casa di osservazione
Ligia a quanto aveva prescritto il superiore governo, la Comunità di Faenza dovette allestire anche un locale ad uso di casa di osservazione adatto a custodire temporaneamente merci e persone per le quali esistesse il sospetto d'infezione colerica. Ma anche per questa si dovette ripetere la via crucis fatta già per il Lazzaretto poiché vari proprietari di ville, poste nelle adiacenze della città, eccepirono in vario modo alle richieste, non intendendo concedere le loro proprietà per la tutela della salute pubblica. Eransi, in un primo tempo, posti gli occhi sopra il Casino dell'Isola, ma il proprietario Antonio Guidi rispose al Gonfaloniere di “esserne rimasto grandemente sorpreso, dato che il casino stesso era stato poco tempo prima convertito, per due terzi, ad uso di bigattiera, che nel medesimo presentemente vi erano collocate due cantine, una padronale ed una per uso di un colono, che nelle vicinanze si trovava pure un mulino a cui convengono non poche persone, le quali in tanta prossimità di un lazzaretto si asterranno dal concorrervi e che finalmente, giacendo il locale solamente ad un quarto di miglio in linea retta da Faenza e rimanendo esso sotto vento e in grande vicinanza di due fiumi e quasi attiguo ad un canale, si vedeva esso mal adatto all'uopo al quale si vorrebbe usare e porrebbe in non piccolo pericolo la troppo vicina e sottoposta Città ".


Una morte per colera.
Pur non scartando questa prima scelta, la Comunità si rivolse ad Antonio Caldesi per il suo villino situato sul fondo Ravona, ma anch'egli, uniformandosi però all'opinione che "se v'è circostanza, nella quale ogni cittadino sia strettamente tenuto a concorrere coi mezzi, che sono in suo potere per il comune bene, specialissima sarebbe quella che ponesse in pericolo la salute pubblica", faceva rispettosamente riflettere che nell'indicato casino si trova “la cantina dei contadini, e che per questo comodo, all'evenienza, egli avrebbe dovuto costruire un casone o una capanna. "Considerato, conclude il Caldesi, del pari all'uso, che andrebbe a destinarsi penso di non potervi acconsentire a meno  che non mi venga a titolo corrisposta l'annua somma di scudi "cinquanta". Ed anche questa proposta tramontò ben presto. Scriveva la commissione speciale di Sanità in data 17 settembre 1835: "Fra i casini visitati per ridurne uno a casa di osservazione nel caso di "sviluppo di qualche malattia sospetta dietro ispezione locale abbiamo" potuto osservare che il Casino del Signor Canonico Matteo Mamini posto "sulla strada dei Capuccini è adatto, concorrendo in questo tutto il comodo che occorre per l'effetto.
Si aggiunga che il Casino in discorso "è vicino al luogo destinato ad uso di Lazzaretto ". Il proprietario, di buon grado, rimise al libero e prudente arbitrio dell'Ill.mo Gonfaloniere tutta l'abitazione superiore del suo villino. "Io non addimando altro compenso fuorché l'Ecc.za vostra si compiaccia di ordinare il trasporto del frumento, del granturco, della fava, fagioli etc. delle quali cose essa si ritrova al presente ingombra e ripiena di provvedere al ricovero di tre famiglie che soggiornavano al pianterreno, e nel caso in cui anche per giorni soli soggiornasse alcun infermo di cholera, credo di poter esigere che tutto l'abitato interno del casino prima della restituzione venga imbiancato e ripulito ". Nel luglio del 1836 il villino in parola era allestito in parte come casa di osservazione, e dato che era necessario che qualcuno si rendesse responsabile degli effetti ivi esistenti, se ne nominò custode un tal Vincenzo Maccolini col mensile indennizzo di scudi tre, ed un baiocco al giorno per il lume, salvo poi a portare il mensile stesso a scudi otto, qualora si sviluppasse la epidemia. Ma questo aumento non avvenne mai, anzi nel settembre, essendo le notizie intorno alla malattia sempre più favorevoli, il Gonfaloniere credette opportuno di sospendere il pagamento dell'indennizzo al custode, togliendogliene nello stesso tempo l'incarico (11).

II convalescenziario
A tale scopo fu scelto il "convento" degli esposti non solo per la favorevole sua posizione, ma ancora perché in esso si sono rinvenuti tutti quei comodi che possano essere necessari ad un tal uso e finalmente per la ragione che in questo locale compatibilmente con la sua nuova destinazione può conciliarsi la permanenza in esso dei proietti stessi in luogo tale che rimanendo in esso comodamente piazzati si toglie fra essi, e gli  altri che dovranno abitare l'altra parte qualunque  comunicazione.
Ma per raggiungere tale scopo, per porre cioè in completo isolamento la parte del locale destinato a convalescenziario, furono necessari lavori di una certa entità e dispendio. Si dovette cioè aprire una porta nel muro di cinta che costeggiava e costeggia ancora la strada delle mura, costruire una rampa "di dolce salita" lunga circa cinquanta metri dato che il piano della strada rimaneva elevato due metri più del livello del cortile, chiudere quelle finestre e quelle porte che davano comunicazione interna ed esterna col resto del fabbricato. La perizia di tali lavori, fatta dall'Ingegnere Comunale F. Laghi, portò una spesa complessiva di scudi centotrentasette e sette baiocchi. L'asta privata per l'appalto dei lavori stessi venne tenuta il 23 luglio nella residenza municipale ed in base a questa vennero assegnati ad Antonio Argnani per la somma di scudi centotrentaquattro (11).

II cholera morbus in Italia descritto dalle circolari della Legazione Apostolica di Ravenna
Le prime città italiane invase dall'epidemia cholerica che proveniva, come si è più sopra visto, dal mezzogiorno della Francia, furono Torino, Cuneo e Genova. A Cuneo dal 29 al 31 luglio (1835) si verificarono sessantun casi di morbo con diciotto decessi. Nella prima decade di agosto il male serpeggiava anche in Genova, ma però si nutriva ancora qualche dubbio che i casi denunciati, che dimostravano però la gravità, la rapidità e molti sintomi del cholera asiatico, non fossero dovuti a tale malattia. Anche in Livorno, porto in diretta corrispondenza colle coste francesi di Nizza e col genovesato, pare fosse avvenuto qualche caso sporadico, ma una circolare del Pro Legato di Ravenna con la quale ammetteva nello stato le persone e le merci di Firenze e Livorno ed un avviso a stampa del Gonfaloniere faentino (11 agosto 1835) col quale si notificava alla cittadinanza che "officiali notizie pervenute colla posta di questa mattina assicurano, che nello stato Toscano sono svaniti quei forti timori, che si erano concepiti, che ivi serpeggiasse il cholera morbus" vennero a troncare la diceria. Nel Piemonte intanto il male dilagava: Mondovì e Racconigi ne erano soggette, in Cuneo ed in Genova continuava ad infierire di natura violenta, dato che tutti gli attaccati soccombevano, e quel che è peggio, dopo appena dieci giorni, si ammetteva ufficialmente quello che prima ufficialmente si era negato che cioè anche in Livorno ed in Firenze era comparsa l'epidemia. La città di Bologna frattanto pubblicava una popolare istruzione intorno al colera e ne veniva copiata alla lettera dal magistrato comunitativo di Faenza, desideroso di imitare l'esempio della città consorella.

Cartina politica dell'Italia nel 1835.
 Da Genova il morbo discendeva poscia in tutta la riviera di levante, alla Spezia, a Lerici, a Chiavari, a Rapallo, a Camogli, a Pegli, ad Arenzano. Come dal Piemonte il morbo pervenisse nelle isole venete ce Io spiega Domenico Meli nel suo libro: "II cholera asiatico in Italia": "Ecco come esso cammina, e si potrà averne conferma con la carta geografica alla mano. Genova, San Pier d'Arena, Bolgareto, Rivarolo, San Quirico, Ponte decimo. Isola Romo, Rovi, Casal Monferrato, Casaretto di Po. Da questi due ultimi paesi il 5 di ottobre (1835) partirono alcuni mercanti di sanguisughe, discesero il Po, entrarono nel canale di Loreo ed alla fiera di quel luogo sparsero il contagio. Nel principio dell'azione del contagio per entro Loreo, ecco che due comacchesi, Luigi Cavalieri ed Antonio Zamboni, impiegati nella salagione delle anguille, passati all'isola di Treponti, caddero ammalati di cholera. Una lavandaia che da Treponti si recò in Venezia, fu la conduttrice del contagio da quell'isola a questa città . A Venezia quindi il male attecchì subito su vasta scala; fino ai venti di dicembre si contarono seicentosessantun colpiti, dei quali trecentodue furono salvi e trecentocinquantanove morti, si ebbe quindi una mortalità del 54,31 per cento rispetto ai colerici. Da questa città l'epidemia si irradiò fino a Treviso, ad Udine, a Vicenza, a Verona, entrando quindi in Lombardia, per discendere poi a Padova, a Dolo, a Rovigo, a Chioggia."
"Già da qualche tempo, dice una circolare del Pro Legato Apostolico di Ravenna in data 17 giugno 1836, erasi aumentato il cholera morbus nel Regno Lombardo Veneto: e le ultime notizie non sono soddisfacenti. È vero che nella Lombardia ha quasi interamente cessato, benché due nuovi casi siansi mostrati a Milano. Ma quel che più spaventa si è che il colera si manifestò sulla frontiera dello Stato Pontificio, nel paese cioè di S. Maria Maddalena alla Riva opposta del Po, e sino al giorno otto corrente giugno, sedici erano stati i casi, fra i quali si conosce esservi cinque periti". In altra (30 giugno) "Si assicura che in tutta la Legazione di Ferrara regna perfetta salute, benché giorni sono a Massa Lombarda un uomo disordinatissimo sia morto in breve tempo con sintomi cholerici".
E mentre la riva sinistra del Po, dal mare venendo superiormente fino alla Polesella, era tutta attaccata, arrivavano notizie funeste da Cesenatico. Notizie private, portate in Faenza da una nipote del signor Lorenzo Padovani, contenevano frasi come queste: "Si vocifera, che essa con alcuni abbia assicurato, che nel predetto paese sono realmente accaduti alcuni casi di cholera asiatico".
Le notizie ufficiali, non parlavano però di morbo asiatico, ma bensì di febbri coleriche e perniciose, solite ad affliggere gli abitanti di quel paese nella stagione estiva. In Ancona intanto era pervenuta, per via di mare, la malattia e mentre a Rovigo questa si trovava in diminuzione, a Trieste assumeva proporzioni catastrofìche, a Parma in tre giorni si ebbero ventisei casi ed in Milano infieriva in modo violento, estendendosi anche a Monza, Como, Bergamo, Broscia, Pavia, Cremona.
Il mese d'Agosto del 1836 si può chiamare l'apice dell'invasione del morbo sulle varie provincie italiane, ma poi, pian piano la virulenza del male accennò a diminuire in ogni parte, di modo che le notizie che pervenivano si andavano facendo più confortanti sollevando gli animi dall'incubo sotto il quale erano stati per mesi soggetti. "Il Governatore generale di Venezia ha dato la fausta notizia di aver potuto far cessare ogni straordinario servigio, per la sempre migliore condizione dello stato sanitario di quella città, comune anche a tutte le altre provincie venete". E buone notizie giungevano del pari dal Lombardo Veneto, dove erano cessate tutte le misure straordinarie perché lo stato di salute era ottimo, e dal Genovesato e dalla Toscana e da Ancona, si che Mons. Luigi de' Conti Vannicelli Casoni, Pro Legato Apostolico di Ravenna, al 10 dicembre emise una "notificazione" con la quale, "essendo, mercé la divina misericordia, totalmente cessato nel nostro Stato il cholera morbus”, e non trovandosi le quattro “Legazioni nemmeno a contatto con Paesi infetti o sospetti, dietro un attento esame dei vari domini d'Italia, nonché della Germania e della Baviera,  scioglieva i cordoni sanitari lungo il Po e le frontiere terrestri coi limitrofi domini e toglieva il vincolo delle bollette sanitarie per l'interno dello Stato”.
E Faenza? Rimase essa totalmente illesa dalla pestilenza? Guardando all'ingrosso attraverso le stampe dell'epoca, alle circolari, agli atti prettamente ufficiali, cioè a quegli atti che di qui salivano alle sfere governative e che informavano sullo stato della salute cittadina, si potrebbe senz'altro opinare per l'affermativi, ma una piccola lettera che si perde facilmente tra le molte delle pratiche comunali che trattano della disgraziata è funesta "emergenza" e che ad un esame attento e coscienzioso non può sfuggire, ci vien senz'altro a persuadere del contrario. Per la verità storica Faenza non fu totalmente risparmiata dal contagio. E siccome la lettera ricordata è l'unico documento sul quale si basa la nostra asserzione, documento quindi di somma importanza, è bene trascriverlo qui integro; essa è diretta
all'Ill.mo Signor Padron Colendissimo il Sig. Conte Carlo Zucchini Gonfaloniere di Faenza da un medico della città :

Ill.mo Signor Gonfaloniere
"Nella scorsa notte alle due circa sono stato chiamato a visitare Maria moglie di Pietro Piazza della Parrocchia di San Salvatore di anni 26 circa, quale ho trovata attaccata da colera con alcuni sintomi allarmanti, e propri dell'Asiatico. Dietro l'amministrazione dei medicamenti ordinati ho veduto l'ammalata in istato migliore alle sei circa, ed alle dieci ho avuto il contento di trovarla molto migliorata. Voglio sperare che l'esito sarà felice, non per questo mi credo in dovere, di prevenirne la S. V. Ill.ma in conseguenza degl'ordini emanati in proposito. Intanto colla più alta stima, e profondo rispetto passo a dichiararmi
Della Signoria Vostra Ill.ma
Faenza, 23 luglio 1836

Dev.mo ed obbl.mo Servo
GIROLAMO Dott. BRUNETTI

Nella stessa data il Gonfaloniere passò la missiva agli atti essendo assicurati che l'inferma continua a migliorare, e non evvi quindi verun timore di sinistre conseguenze " (12).

Note

(9) Pratiche Comunali 1835.1836 • Titolo XV » Sanità ".
(10) Pratiche Comunali 1835.1836 • Tit. XV " Cholera morbus.
(11) Pratiche Comunali 1835-1836 • Titolo XV " Sanità e Cholera morbua ".
(12) Pratiche Comunali e " Gazzetta Privilegiata di Bologna "1835-1836.

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