Il bottino delle colonie

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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Il bottino delle colonie
di Floriano Cerini

Finito l’anno scolastico, i ragazzi come noi non andavano in vacanza coi genitori. Le ferie, infatti, le facevano solo i benestanti e le botteghe, comprese quelle da barbiere, non chiudevano mai. L’unica possibilità per i genitori meno abbienti era quello di mandare i figli  in colonia. A Faenza negli anni sessanta, le colonie che ospitavano i ragazzi erano quella di montagna a Santa Brigida, in alta Val Brembana e  la colonia “Stella maris”  a Bellaria.  Anche noi due per alcuni anni fummo inviati in colonia d’estate. Prima di partire per la colonia occorreva sottoporsi all’iniezione antitetanica,  un vero e proprio punturone da “militare”, uno spauracchio per tutti noi  ragazzi.  Il misfatto si compiva nella Molinella, per opera dell’Ufficiale Sanitario, il quale ci sottoponeva anche alla visita  medica e ci dichiarava  “abili e arruolati” con uno scappellotto e la benedizione delle crocerossine, lì presenti per ogni conforto e assistenza. L’Ufficio di Igiene e Sanità nella Molinella era un  presidio che scandiva le tappe della crescita di noi ragazzi, dalle prime vaccinazioni, appena nati  alle punture  per le colonie, fino  alla visita medica per il rilascio del libretto del lavoro.

Il giorno della partenza  le corriere che ci avrebbero portato in colonia si riempivano di ragazzi in maglietta, pantaloncini corti e cappellino bianco. Ognuno doveva portare  con sè un sacco con i propri indumenti di ricambio, marcati con un numero identificativo ricamato sopra. I sacchi venivano  caricati in cima alle corriere e fissati con delle corde. Le  signorine che ci accompagnavano, quelle che oggi si chiamano le educatrici o animatrici, tenevano l’ordine e raccoglievano dai genitori le ultime raccomandazioni e i pochi spiccioli per lo spillatico di ciascuno,  annotandoli su un quadernetto.

Questi soldi li spendevamo per acquistare, sempre tramite le signorine, oggetti utili per le nostre vacanze: una piccozza, un coltellino svizzero, un giornalino, un salvagente o delle biglie. In colonia, immancabili erano l’alza e l’ammaina bandiera che contrassegnavano le giornate;  intensi erano l’orgoglio e la trepidazione quando si era chiamati a issare o togliere il tricolore dal pennone nel cortile della colonia, mentre un gracchiante altoparlante diffondeva  Fratelli d’Italia. Memorabili erano poi gli sketch  allestiti con l’aiuto delle signorine nel refettorio o le gare del Musichiere, con tanto di seggiole, motivetti musicali e campanella da suonare  per indovinare per primi il titolo delle canzonette canticchiate,  riproponendo fra noi ragazzi il famoso quiz  musicale di Mario Riva, allora trasmesso in TV  e  molto in auge.  A Santa Brigida tutti i giorni si svolgevano  escursioni nelle vallate di montagna e nei boschi, mentre a Bellaria  non si poteva che fare vita di spiaggia, inframmezzata da un bagnetto di un quarto d’ora vicino a riva agli ordini dei fischietti delle signorine. Quando pioveva si stava al coperto a scrivere e dipingere cartelloni con le cronache della vita di colonia. 


Copertina del libro dal quale è stato tratto il capitolo qui riprodotto. Volume pubblicato da: Tempo al Libro, Casa Editrrice in Faenza.



Corriera similare con la quale si effettuava il tragitto da Faenza alla colonia di Santa Brigida in val Brembana.

Indimenticabili  furono anche  le Olimpiadi che si tennero in quelle estati nella colonia estiva, sull’onda dell’entusiasmo suscitato da quelle  di Roma del  1960. Si svolgevano gare di velocità, staffette, corse nei sacchi, gimkana, corse con una biglia posata su un cucchiaio tenuto in bocca e le immancabili partite di calcio. Le  gare erano  precedute dall’arrivo della fiaccola olimpica la sera prima  delle competizioni, portata di corsa dai ragazzi della colonia dal fondo della vallata, con l’apoteosi finale dell’accensione di un falò.  La vita in colonia era un’iniziazione all’autonomia dalla famiglia e alla socialità, in un ambiente diverso da quello serioso  e formale della scuola e  dove si potevano costruire amicizie ed esperienze nuove.



Veduta di Santa Brigida.
La colonia faentina di Santa Brigida.
La  vacanza  non era perfetta se non si portava a casa un trofeo. Per chi frequentava la colonia in montagna  i  cimeli più ambiti erano costituiti dalle stelle alpine, strappate dalle rocce durante  le ardimentose escursioni per i più grandi, o le piantine di ciclamino, ma con la relativa “patata”, trovate sotto il fogliame degli umidi boschetti attorno a Santa Brigida o Averara. Allora se ne trovavano ancora e non era vietato raccoglierle, lo stesso valeva per le stelle   o i cavallucci marini,  che si potevano acchiappare col retino durante i fugaci bagni di mare.  Nel caso di pesca infruttuosa si poteva optare per qualche conchiglia (più grande era  meglio era)  rinvenuta sulla battigia. Della colonia a Santa Brigida indimenticabile era il lungo viaggio attraverso la  pianura Padana,  su una corriera che ansimava come una  tradotta militare, un interminabile supplizio interrotto dal sempre affascinante passaggio a passo d’uomo sul ponte di barche sul Po nei pressi di  Cremona. I  sacchi degli indumenti di tutti noi, ballonzolavano pericolosamente sul tetto della corriera  con il loro carico standard e spartano: mutande 3 capi, calzini bianchi 2 paia, canottiere 4 capi, magliette 4 capi, pantaloncini corti 2 capi,  golfino 1, cappellino da sole di tela bianca 1, sandali di gomma e tela 1 paio, asciugamani 2.  Come dimenticare  i robusti sacchetti di carta  da utilizzare nel caso di vomito per noi passeggeri, qualora la pasticca contro il mal d’auto non avesse prodotto l’effetto dovuto.
Giunti in colonia,  i menù erano un po' di fortuna e tutti noi giovani villeggianti temevamo l'arrivo dei bidoni di alluminio da cui premurose suore un po' manesche e baffute facevano sgusciare confetture di giardiniera dalle multiformi e colorate configurazioni: cipolline dall’aspetto di stelle, scalette geometriche di cetriolo, carote decorate e altre verdure, tutte immerse in un brodino lungo che doveva assomigliare molto a quella “sbobba” mai assaggiata, ma evocata  dai nostri barbieri parlando dei razionamenti ai tempi della guerra e dell'invasione.

Il regime dietetico “coloniale” veniva integrato da periodiche razioni di olio di ricino, somministrato per scopi lassativi ma che noi bambini trovavamo, a ragione, disgustoso. E' stato un incubo per intere generazioni di faentini in colonia, attendere in fila, all'ingresso del refettorio, che una zelante suora introducesse nelle nostre  bocche recalcitranti, utilizzando  lo stesso cucchiaio, una  abbondante porzione della salvifica bevanda.   



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