L'inizio del culto di Dante in Romagna

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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L'INIZIO DEL CULTO DI DANTE IN ROMAGNA

Giuseppe Dalmonte


(pubblicato sul mensile In Piazza, marzo 2020)



Se il 1797 è considerato l’anno di nascita del tricolore italiano, simbolo patriottico per eccellenza, il 1798 segna invece la data di nascita del culto risorgimentale al maggior poeta e padre della lingua italiana, Dante Alighieri (1265-1321). Con l’avvento nella penisola delle Repubbliche Democratiche, la loro organizzazione e suddivisione territoriale nei vari dipartimenti, venti dei quali costituirono la Repubblica Cisalpina, la Romagna fu suddivisa, nel biennio 1797-1798, nel dipartimento del Lamone (capoluogo Faenza) e nel dipartimento del Rubicone (capoluogo Rimini). Nel novembre 1797 i Commissari Luigi Oliva e Vincenzo Monti furono inviati nei territori romagnoli per organizzare in senso anti aristocratico l’amministrazione dell’Emilia, a fissare i confini dei due dipartimenti e a insediare le due Amministrazioni dipartimentali nei rispettivi capoluoghi. Nonostante le attese, il comportamento dei due Commissari non incontrò il favore, in particolare della Municipalità di Ravenna, che li accusò al Direttorio Cisalpino per aver ecceduto nei poteri conferitigli smembrando a capriccio le comunità e assumendo atteggiamenti dittatoriali, tanto che nel gennaio 1798 Oliva e Monti saranno richiamati a Milano per discolparsi davanti al Gran Consiglio.



Domenico di Michelino. Dante e il suo poema, 1465.
Affresco nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze.
Stemma della bandiera della
Repubblica Cisalpina.

Andrea Appiani, Vincenzo Monti (1754-1828),
1809,Pinacoteca Brera,  Milano.

Con le nuove condizioni politiche imposte dalla Repubblica Cisalpina, diventa urgente formare un’opinione pubblica ben disposta nei confronti dei francesi, propensa agli ideali democratici, repubblicani e patriottici, che contrasti la propaganda ostile al nuovo regime politico alimentata dagli avversari, con fogli volanti, opuscoli, giornali, e con l’influenza sulle masse popolari della predicazione religiosa cattolica. Questo compito d’indottrinamento democratico fu assolto dai Circoli Costituzionali, ‹‹prime palestre di educazione politica››, che si diffusero in Romagna durante questo biennio: a Cesena fu aperto il terzo Circolo della Repubblica Cisalpina il 26 ottobre 1797, a Faenza il 2 febbraio 1798, a Rimini solo il 29 aprile 1798. A Ravenna invece fu inaugurato il 29 dicembre 1797 dai Commissari Luigi Oliva e Vincenzo Monti, poeta originario di Alfonsine. Le due cariche principali del Circolo erano di Moderatore e di Segretario, la prima fu affidata a Paolo Costa (1771-1836) e la seconda a Jacopo Landoni (1772-1855), ambedue letterati della città bizantina.

‹‹Con grande solennità al suono della banda e con grande concorso di popolo nella sala del vecchio palazzo della Municipalità s’inaugurò un Circolo, che aprì quel giorno le sue sessioni››. Il cittadino Vincenzo Monti rivolgendosi al numeroso pubblico intervenuto, attratto dalla novità dell’evento, esaltò anzitutto il ruolo della Costituzione ‹‹questo sacro deposito della volontà generale, questo sublime testamento della ragione, che vi restituisce il possesso di tutti i vostri diritti, che vi dichiara eredi legittimi di tutti i beni morali ››, illustrò in seguito il ruolo del Circolo Costituzionale ‹‹fucina dello spirito pubblico, … libero porto degli intelletti, ove approdano da tutte le parti i pensieri della repubblica››. Concluse la sua orazione esortando i cittadini ad avere coraggio contro i nemici della Repubblica confortandoli con il paragone tra le rivoluzioni politiche e le tempeste naturali che purificano l’aria e portano presto al sereno dopo il fragore dei turbini. Intervenne pure il moderatore del Circolo Paolo Costa, esponente di spicco dei giacobini ravennati, che ‹‹se molto parlò di filosofia moderna, di privilegi scaduti, di meriti della Nazione Francese, di superstizione e ignoranza … non fece nessun accenno all’unità e indipendenza dell’Italia››. Il Commissario Luigi Oliva parlò invece improvvisando, seguirono altri oratori, fra i quali si distinsero il faentino Giacomo Laderchi a nome della Municipalità della città del Lamone e il cesenate Biscioni. Da ultimo si alzò il segretario della Commissione Della Porta che suscitò tra gli uditori popolari qualche mormorio e rimprovero per le affermazioni fatte contro la Chiesa, che aveva fatto onorare come eroi ‹‹gente che rinunciava ai doveri della patria, per seppellirsi nelle solitudini, per conversare con i bruti››. Tuttavia Della Porta ebbe poi l’idea più geniale e meno servile nei confronti della nazione francese, avanzando la proposta di onorare l’altissimo poeta, di cui Ravenna conservava gelosamente le ceneri e ‹‹di proclamarlo cittadino ravennate››. La proposta fu trasformata subito in mozione dal Commissario Monti e approvata all’unanimità per onorare la memoria del sommo poeta, proponendo che il prossimo mercoledì tre gennaio 1798 si celebrasse la festa in onore di Dante.

La tomba di Dante in una incisione del 1840.
Festeggiamenti in onore di Dante Alighieri e omaggio al suo sepolcro
Come recitava la notificazione pubblicata dal moderatore Paolo Costa e dal segretario Jacopo Landoni, alle ore 3 pomeridiane del 14 nevoso (3 gennaio secondo il vecchio stile) del 1798, ‹‹vedrete democraticamente solennizzata la gloriosa memoria del Divino Dante, nostro concittadino››. Dalla Sala del Palazzo Vecchio Municipale ‹‹s’incamminarono li Commissari con li Soci preceduti dalla Banda, e accompagnati dai Civici Granatieri, e si avviarono per la Piazza verso il Sepolcro di Dante. Era questa comitiva preceduta da un cittadino, che sopra un alto leggile (leggio) portava la Divina Commedia con una Ghirlanda d’alloro. Il Sepolcro era decentemente adorno di festoni e di addobbi. Colà giunti, il Commissario Oliva, standosene in piedi sulla Porta del sepolcro, fece una Allocuzione, colla quale significava, che ad onore di quel Genio immortale, che era stato nostro ospite, si solennizzava la festa››. A due muse cittadine di origine faentina fu affidato il compito di offrire una ghirlanda di alloro e di fiori, appese sopra la tomba del poeta. Una era l’ex contessa Maria Laderchi moglie di Cristino Rasponi, l’altra Giuditta Milzetti sposa del letterato Paolo Costa. 
Dal sepolcro il corteo fece ritorno al Palazzo Municipale, dove si tenne una Seduta accademica in lode di Dante Alighieri, alla quale parteciparono vari oratori. Il Commissario Oliva diede prova della sua bravura nell’improvvisare il suo intervento, che piacque a tutti sia per la franchezza sia per la pulizia nell’esprimere i suoi concetti, come per il tono della voce nel declamare i suoi versi. Paolo Costa recitò, chi dice due, chi invece un sonetto solo, che in forme convenzionali esprimeva il pathos della città giacobina in quei giorni di grande fermento.

Corona di alloro e La Divina Commedia.
Carta da lettere della Repubblica Cisalpina,

 la Libertà con beretto frigio omaggia Dante.

Poetic’ombra che dal lungo affanno
Vendicata risorgi al suon de’carmi,
Dì vai tu lieta dei funerei marmi
Che a mendicarsi nome erse un Tiranno?
………………………
Siam di ragione i figli, che non d’oro,
Ma di lauri a te cari offriam corona.
………………..

Dopo di lui declamò un sonetto il Cittadino Prete Andrea Corlari, che attaccò con energia la Curia Romana, la cui impostura era stata svelata nel Divino Poema, scritto in gran parte a Ravenna, concluse perciò il sonetto con l’invito a rendere omaggio al poeta:

…… I dotti inchiostri
Fur vergati fra noi. Da noi s’onori
Dunque il gran vate, il domator dei mostri.

Volle pure inneggiare a Dante, libero cigno, anche un altro Cittadino Prete, Martino Malagola membro di varie accademie ravennati:

Dante quel lauro, che il tuo crin circonda
D’oligarchica mano fa intreccio e dono,
Stilla sangue ogni ramo e par risponda
Sangue io son cui bevé l’ira d’un trono.
……………………..

Domenico Peterlin, Dante in esilio, olio su tela, 1860-65, Musei Civici (Vicenza).
Il protagonista di questa seduta accademica in lode di Dante fu senz’altro il Commissario Vincenzo Monti con il pubblico elogio del poeta recitato in chiusura della cerimonia. Dopo aver riconosciuto i propri errori giovanili nel considerare ‹‹barbaro il vostro Dante›› alla stregua di tanti letterati, l’oratore ammise di aver mutato giudizio cogli anni, tanto che i suoi versi divennero oggetto di meditazione, di diletto e di ammirazione costante ‹‹e Dante fu ben presto il più dolce, il più caro de’ miei pensieri››. Volendo spiegare il carattere aspro e ruvido dello stile dantesco, Monti ricorda al pubblico che la bella lingua italiana al tempo di Dante era bambina, perciò ‹‹prese egli coraggiosamente a educarla, e questa lingua ruppe tosto le fasce, e matrona, e gigante si fece nelle sue mani. Ogni lingua…non è che prole ed immagine della mente, la quale i suoi concetti manifesta per la via della parola. (…) nella vastità del soggetto trovando egli scarsa suppellettile delle voci per adornarlo, tutte quelle introdusse nel suo poema, che stimò significanti, ed adatte, qualunque ne fosse l’origine, e la matrice. Altre ne fuse di conio proprio, altre ne tolse da’ fonti greci, e latini, altre ne suscitò dall’antico, altre ne derivò dai differenti italici dialetti›› tanto che solo lui può essere veramente chiamato ‹‹padre dell’idioma italiano››, per l’acconcia collocazione delle parole da cui deriva l’armonia e l’eleganza del suo stile.
Nel passaggio oratorio sull’analisi dell’ideologia politica dell’esule fiorentino, che secondo i maligni non poteva meritare onori repubblicani per aver ‹‹egli scritto un miserabile e sconosciuto trattato sui diritti della Monarchia››, Vincenzo Monti cercò di giustificare abilmente anche il mutamento delle proprie convinzioni politiche precedenti accomunando la propria condizione a quella dei sommi poeti Virgilio e Dante Alighieri, ora festeggiati con rito repubblicano, dalla città di Mantova il primo e da Ravenna il secondo. ‹‹Si è perdonato a Virgilio, non si perdonerà all’Alighieri? Si è festeggiata nella repubblica la memoria del favorito d’Augusto, e s’insulterà a quella d’un infelice, che fu il flagello dei despoti. O assolvete dunque l’Alighieri come avete assolto Marone, o private me pure del sacro titolo di Cittadino. Anch’io, voi lo sapete, anch’io son reo de’ medesimi loro delitti; anch’io nel suolo della romana tirannide per campar la vita ho oltraggiato in un momento di vertigine, e di terrore la libertà. (…) L’ombra di Dante è al mio fianco, e noi aspettiamo amendue con sommissione, e silenzio la sentenza che darete sul nostro errore››. Al termine della cerimonia fu fatta solenne promessa di rinnovare ogni anno in questo giorno la memoria del Poeta Fiorentino ora aggregato con tale atto alla Cittadinanza Ravennate.


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