Faenza al tempo del colera
di Giuseppe Dalmonte
(Dal Supplemento ai quaderni
della Fiera di S. Rocco 2012)
Il colera nella città del Lamone nel
biennio 1835-1837
Il colera, descritto in India fin dai primi
decenni del sec. XIX, si diffonde progressivamente in Russia nel 1829 e nei
primi anni trenta compare in Inghilterra e in Francia, per passare rapidamente
negli anni successivi negli Stati Italiani a partire dal Piemonte e via via in
tutti gli altri, compreso lo Stato Pontificio. Questa malattia molto contagiosa
si manifesta con dolori addominali e frequenti scariche di diarrea, a volte
accompagnate da vomito, provocate da un batterio, il vibrione, che sarà
individuato e studiato, però solo nel 1883 dal medico tedesco R. Koch. Questo
germe si trasmette tra i soggetti attraverso acqua e cibi infetti, oppure
attraverso il contatto con indumenti, oggetti o alimenti contaminati. Per le
precarie condizioni igieniche della maggioranza della popolazione e per le
approssimative cure sanitarie in auge in quei tempi, la mortalità raggiunge ben
presto percentuali elevate tra i contagiati, fino al 60 %, tanto da creare
allarme, paure diffuse e talora panico in paesi sconvolti da immagini di
sofferenza e di stenti.
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Le
due invasioni coleriche del biennio 1835-1837 e del 1848-1849, tanto
letali in alcuni Stati italiani, sfiorarono appena la Romagna
coinvolgendo parzialmente solo qualche piccolo paese come Cesenatico.
Crearono tuttavia allarmi e timori diffusi tra la popolazione tanto che
le stesse autorità ordinarono con sollecitudine di allestire in ogni
città lazzaretti ben aerati e asciutti, destinati a ospitare in locali
separati uomini, donne e militari, nello stesso tempo si moltiplicarono
le manifestazioni religiose come processioni, tridui, novene, missioni,
messe solenni, prima per scongiurare il flagello poi come atti di
omaggio e di ringraziamento per lo scampato pericolo.Il dottor Veniero
Casadio Strozzi ha scritto molto efficacemente su quelle vicende
“parlare dell’epidemia di colera del 1835-1837 a Faenza è raccontare la
storia di qualcosa che non è mai avvenuto, in quanto fortunatamente
(per molti miracolosamente) nella nostra città non si presentò alcun
contagio nel biennio in cui l’epidemia infuriò un po’ dappertutto”.
Infatti, nell’estate del 1835 e del 1836 per la consueta festa di S.
Pietro ci fu a Faenza “festa grossa” con affollato concorso di pubblico
per la ricca tombola da mille scudi, per l’opera in teatro la sera e la
solita carriera pomeridiana di cavalli barberi lungo il corso di Porta
Imolese, tripudi popolari ripetuti in luglio e agosto per le feste del
Beato Nevolone patrono dei calzolai e di S. Elena patrona delle
tessitrici. Tuttavia dalla Deputazione Sanitaria cittadina si destina a
lazzaretto parte del Convento dell’Osservanza, a convalescenziario
un’ala del convento di S. Maria Vecchia, per casa di osservazione si
stabilisce una casetta del canonico Mamini, posta sullo stradello dei
Cappuccini. Si suggerisce inoltre di tenere pronti medici, flebotomi e
uno speziale, cui spetta l’obbligo di praticare le fumigazioni
disinfettanti, si proibisce il commercio di robe, vestiari e stracci
provenienti da luoghi infetti o sospetti, s’invita a bandire dalla
città ciarlatani, vagabondi o oziosi forestieri.Ai beccamorti è
prescritto un camiciotto come divisa, essi dovranno evitare di toccare
i cadaveri se non con lunghe e forti tenaglie per collocarli sul
carretto per il trasporto.In alcune città romagnole si giunge a vietare
perfino la vendita e il consumo di frutta e ortaggi estivi come i
cocomeri, i meloni, i cetrioli e i peperoni, considerati nocivi alla
salute.
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Immagine
della Beata Vergine delle Grazie con quattro Santi Protettori, posta
sulle Porte della città di Faenza per conto della Municipalità a
seguito della deliberazione del 3 ottobre 1836. (Terracotta: m. 1,50 x
1,80).
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A conclusione degli allarmi e delle minacce di contagio del colera
nello Stato Pontificio, si decide dalle autorità faentine di collocare
sui muri esterni delle sei porte urbane come suggello per lo scampato
pericolo l’immagine in cotto della Madonna delle Grazie contornata dai
quattro santi patroni, modellata dal cappellano dell’ospedale don
Domenico Valenti: una di quelle immagini possiamo ancora ammirare sulla
Porta delle chiavi del Borgo Durbecco.
L’epidemia colerica del 1855
Ben diversa sarà la situazione dei paesi
romagnoli nel 1855 quando l’intera penisola sarà colpita da una terribile
epidemia di colera che produrrà secondo alcuni studiosi quasi 120 mila vittime,
ma secondo altri il numero dei morti andrebbe raddoppiato per ovviare alle
mancate denunce. Sarà la maggior epidemia del secolo che nella nostra provincia
raggiunse tassi di mortalità tra i più elevati, come si evidenzia dalle tabelle
A e B.
Questa la graduatoria dei tassi di letalità in
Romagna: 1.Romagna estense (66,55%) - 2. Romagna Toscana (63, 80%) – 3.
Legazione di Ravenna (62,03%) – 4.Legazione di Forlì (52,59%).
Tab. A - Colera (1855)
Legazione di Ravenna
Località
|
abitanti
|
n.casi
|
n.morti
|
%
letalità
|
Morti /
1000 ab.
|
Inizio epidemia
|
Fine epidemia
|
Alfonsine
|
7.082
|
242
|
127
|
52,47
|
17,93
|
5/VII/1855
|
23/XI/1855
|
Bagnara
|
1.803
|
54
|
16
|
29,62
|
8,87
|
27/VII/1855
|
28/IX/1855
|
Brisighella
|
12.039
|
335
|
189
|
56,41
|
15,69
|
6/VII/1855
|
7/X/1855
|
Casola Valsenio
|
3.918
|
218
|
131
|
60,09
|
33,43
|
1/VII/1855
|
14/X/1855
|
Castel Bolognese
|
5.374
|
94
|
54
|
57,44
|
10,04
|
27/VII/1855
|
8/X/1855
|
Castel del Rio
|
2.470
|
369
|
222
|
60,16
|
89,87
|
26/VII/1855
|
27/IX/1855
|
Cervia
|
5.692
|
239
|
145
|
60,66
|
25,47
|
6/IV/1855
|
3/X/1855
|
Dozza
|
2.090
|
76
|
43
|
56,57
|
20,57
|
3/VIII/1855
|
10/IX/1855
|
Faenza
|
37.467
|
1.146
|
761
|
66,40
|
20,31
|
25/II/1855
|
24/X/1855
|
Fontanelice
|
1.731
|
186
|
107
|
57,52
|
61,81
|
18/VII/1855
|
31/X/1855
|
Imola
|
26.760
|
636
|
459
|
72,16
|
17,15
|
6/III/1855
|
16/XII/1855
|
Mordano
|
2.253
|
139
|
83
|
59,71
|
36,83
|
7/IV/1855
|
21/X/1855
|
Ravenna
|
52.334
|
2.694
|
1.677
|
62,24
|
32,04
|
11/XII/1854
|
9/XI/1855
|
Riolo
|
2.733
|
160
|
75
|
46,87
|
27,44
|
15/VII/1855
|
30/IX/1855
|
Russi
|
6.726
|
402
|
242
|
60,19
|
35,97
|
1/III/1855
|
1/XI/1855
|
Solarolo
|
3.138
|
81
|
49
|
60,49
|
15,61
|
20/VII/1855
|
10/XI/1855
|
Tossignano
|
1.728
|
69
|
49
|
71,01
|
28,35
|
31/VII/1855
|
6/X/1855
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Tot.
|
175.338
|
7.140
|
4.429
|
62,03
|
25,25
|
|
|
Tab. B - Colera (1855) Legazione di Ferrara: Romagna
estense
Località
|
|
abitanti
|
n.casi
|
n.morti
|
%
letalità
|
Morti /
1000 ab.
|
Inizio
epidemia
|
Fine
epidemia
|
Bagnacavallo
|
|
13.527
|
281
|
203
|
72,24
|
15,00
|
13/VI/1855
|
30/X/1855
|
Conselice
|
|
5.203
|
181
|
124
|
68,50
|
23,83
|
29/V/1855
|
29/XI/1855
|
Cotignola
|
|
6.540
|
354
|
272
|
76,83
|
41,59
|
8/VII/1855
|
7/XI/1855
|
Fusignano
|
|
5.193
|
148
|
108
|
72,97
|
20,79
|
3/VIII/1855
|
1/XII/1855
|
Lugo
|
|
23.181
|
864
|
519
|
60,06
|
22,38
|
22/II/1855
|
19/XI/1855
|
Massalombarda
|
|
5.002
|
259
|
165
|
63,70
|
32,98
|
12/III/1855
|
30/XI/1855
|
S. Agata
|
|
1.636
|
78
|
50
|
64,10
|
30,56
|
15/III/1855
|
5/XI/1855
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Tot.
|
|
60.282
|
2.165
|
1.441
|
66,55
|
23,90
|
|
|
A Faenza si cominciò con la disinfezione della
corrispondenza in arrivo dalla Toscana e dal Regno di Sardegna e col respingere
i viaggiatori provenienti dagli stessi luoghi e non in grado di dimostrare la
residenza in località immuni dal contagio.Si allestisce prontamente nel convento di S. Ippolito
un lazzaretto con 12 letti ma poco efficiente per carenze idriche, di spazi e
per gli scarsi fondi a disposizione tanto da essere temporaneamente chiuso già
a metà marzo. La farmacia di Angelo Ubaldini comincia a fornire medicinali più
adatti come laudano, acido nitrico, cloruro di calce, ecc. Si prescrive dalla
Deputazione Sanitaria l’obbligo delle sepolture fuori dell’abitato e senza
l’esposizione delle salme, anzi i cadaveri dei colerosi entro quattro ore dal
decesso devono essere trasportati al cimitero senza ecclesiastico accompagno.Anche la stagione teatrale fu compromessa,
nonostante alcune opere verdiane in cartellone (La Violetta-La Traviata e Il Trovatore), come dicono le cronache
“fu una disgraziata stagione, turbata dalla venuta del colera il quale piombò
nel lutto molte famiglie della nostra città”.
Il 25 febbraio 1855 il colera colpisce a morte
uno dei primi contagiati, Gaddoni Domenico, un muratore di 54 anni della
parrocchia urbana di S. Severo e pochi giorni dopo una tessitrice maritata
senza figli, di 40 anni, di S. Margherita, seguita in breve da una merciaia
benestante della parrocchia dei Servi. Nel mese di marzo a essere colpito dal
morbo asiatico in modo virulento è invece il Borgo Durbecco, sudiccio in modo straordinario e dove è il cumulo d’ogni miseria -
secondo le parole del precettore fiorentino T. Gargani in casa Laderchi - con
17 decessi in meno di quaranta giorni, tra
lavandaie, tessitrici e povera gente in genere. In un parziale elenco sanitario relativo agli
infermi di colera nei primi due mesi di epidemia, risultano deceduti 27
individui, di cui 3 nel lazzaretto e 24 al proprio domicilio, che nella
stragrande maggioranza dei casi (22) vivono nella parrocchia di S. Antonino del
Borgo; le categorie sociali e professionali rappresentate sono: 6 braccianti, 5
tessitrici, 3 lavandaie, 1 cordarino, 1 muratore, 1 possidente, 1 merciaia, 1
servente, 6 bambini e ragazzi, mentre la maggioranza degli adulti si colloca
tra i 40-60 anni.
Con l’arrivo dei mesi caldi, si riapre il lazzaretto
mentre il colera imperversa anche nelle campagne, si sollecita perciò la
costruzione di due arcate provvisorie nel cimitero comunale e si chiede la
rimozione dell’orinatoio posto nella Molinella, per i medici condotti ormai
chiamati ogni giorno si mettono a disposizione alcuni calessi forniti dal
vetturale Zannetti. Tra luglio e agosto ci sono ormai una ventina di casi
quotidiani, con 317 contagiati e 166 decessi a metà luglio, il mese successivo
saliranno a 515 su 932 malati, solo dal mese di settembre si assiste a una
diminuzione del contagio, che gradualmente scompare nel mese di ottobre: solo 8
casi nelle prime tre settimane ottobrine.Il bollettino sanitario della Deputazione
Comunale, redatto al termine dell’epidemia durata ben otto mesi, registra 1146
individui contagiati, di cui 642 femmine e 504 maschi, i decessi ammontano a
761 (439 donne e 322 maschi) con una netta prevalenza di quelli avvenuti al
proprio domicilio (525), rispetto a quelli nel lazzaretto (235), considerato
dai ceti popolari luogo di segregazione dove si somministrano veleni per abbreviare la vita ai miseri, pregiudizio tanto più radicato tra la
gente di campagna, infatti, saranno solo 17 i contadini faentini morti nel
lazzaretto di S. Ippolito. Va infine affermato che il colera si
manifesterà come una malattia tipicamente urbana perché colpirà ben 889
individui della città e dei sobborghi e, solo 257 abitanti delle campagne
faentine. Per quanto riguarda invece la condizione sociale dei colpiti dal
morbo asiatico mancano dati puntuali e completi sul territorio faentino, ma
dalle tabelle statistiche della città di Forlì, Cesena, Imola e Bologna
prevalgono fra i deceduti le seguenti categorie sociali: filatrici, casalinghe,
braccianti, accattoni, serventi, cucitrici e sarti, si può quindi affermare per
analogia che anche nella nostra città predominano gli appartenenti alle classi
popolari più povere, e soccombono spesso gli individui malnutriti, spossati
dalle fatiche e viventi in locali angusti e malsani.
Tab.
C - Popolazione di Faenza suddivisa per parrocchie di città in base al censimento
del 1853
Parrocchie
|
Popolazione
|
Case
|
Famiglie
|
1. Commenda
|
1103
|
118
|
212
|
2. S. Antonino
|
2330
|
270
|
647
|
3. S. Lorenzo
|
1872
|
190
|
473
|
4. S. Abramo
|
1198
|
83
|
313
|
5. S. Agostino
|
1186
|
104
|
303
|
6. S. Antonio abate
|
1219
|
110
|
319
|
7. S. Ilario
|
892
|
77
|
227
|
8. S. Ippolito
|
1515
|
125
|
412
|
9. S. Maria ad Nives
|
998
|
82
|
232
|
10. S. Margherita
|
910
|
69
|
239
|
11. S. Salvatore
|
1285
|
122
|
337
|
12. Servi
|
1386
|
94
|
319
|
13. S. Stefano
|
1296
|
108
|
318
|
14. S. Terenzio
|
384
|
35
|
82
|
15. S. Vitale
|
1095
|
88
|
258
|
16. S. Savino
|
526
|
60
|
104
|
17: S. Marco
|
1914
|
182
|
493
|
|
|
|
|
Tot.
|
21.109
|
1.917
|
4268
|
Tra le carte dell’archivio comunale compare un
Regolamento da osservarsi in caso di
sviluppo di colera in Faenza, che reca la data del 27 novembre 1855 ed è
sottoscritto da Angelo Tartagni, segretario della Deputazione Sanitaria Comunale.
Il manoscritto sembra raccogliere e riordinare le disposizioni e le procedure
adottate nei mesi precedenti durante l’infuriare dell’epidemia, è composto di
vari paragrafi riguardanti i seguenti aspetti e funzioni: le disposizioni
generali per i primi interventi, gli assistenti e i disinfettatori, il
lazzaretto e l’ospedale per i colerosi, il direttore consulente, i medici
curanti e i chirurghi, il flebotomo, il servizio dei padri mendicanti e delle
suore di carità, i portatori, il portinaio e il cuoco, l’economo, e i becchini.
Spigolando fra i vari articoli e paragrafi di questo documento si apprende che
inizialmente i malati colerosi poveri sono soccorsi nelle proprie case dietro
presentazione di un certificato medico e dell’attestazione del parroco sullo
stato di miserabilità del soggetto, in questo caso le medicine sono
somministrate a spese del Comune, inoltre il parroco è autorizzato a pagare il
mantenimento del malato e dei suoi famigliari purché egli non esca di casa. In
caso di decesso i famigliari sono tenuti per sei giorni in osservazione, perciò
avranno diritto alla sovvenzione giornaliera, nello stesso tempo saranno
sottoposti insieme agli oggetti utilizzati dal deceduto al trattamento
scrupoloso della disinfezione: la biancheria sarà immersa in una soluzione di
cloruro di calce e le foglie contenute nei paglioni dei letti saranno invece
bruciate in luoghi appositi. Al termine dell’osservazione prescritta,
l’abitazione e i famigliari saranno di nuovo disinfettati e solo allora
potranno uscire ma da quel momento cesserà il sussidio.
Immagine
tratta dal Calendario dei Carabinieri in cui viene riccordata l'azione
dell'Arma nell'alleviare la sofferenza della gente, soprattutto nelle
campagne, ove i cadaveri venivano abbandonati.
|
In seguito al diffondersi del contagio e al
moltiplicarsi dei casi si ritiene necessario aprire il lazzaretto, dove il medico deve anzitutto convincere il paziente
coleroso a ricoverarsi e darne pronta denuncia alla Direzione Sanitaria;
trasportato l’ammalato al lazzaretto, si recheranno prontamente all’abitazione
i disinfettatori per eseguire le
operazioni prescritte e i famigliari non potranno uscire prima dei regolari sei
giorni, in caso di condizioni di povertà avranno diritto alle sovvenzioni
giornaliere. Gli addetti alle disinfezioni avranno il recapito presso l’ufficio
dell’economo, che provvederà a segnalare le case da disinfettare
scrupolosamente, questi uomini saranno provvisti di una biroccia e di una mastella
per svolgere le prescritte fumigazioni disinfettanti secondo il metodo del
chimico Guytton Morveau, tenendo chiuse le finestre e le porte affinché i
vapori possano vagare per le stanze almeno un quarto d’ora. In seguito
immergeranno in una soluzione di cloruro di calce gli indumenti, le coperte e
gli altri oggetti per almeno mezz’ora, per lavare il pavimento dove é giaciuto
il cadavere la soluzione di cloruro sarà più elevata. I paglioni dei letti
invece saranno trasportati sopra una biroccia coperta da una tela imbevuta di
una soluzione di cloruro di calce fino al pubblico cimitero dove saranno
bruciate le foglie, mentre la tela sarà restituita ai famigliari dopo essere
stata immersa nella stessa soluzione disinfettante. Qualora gli addetti
incontrassero ostacoli nello svolgimento delle loro importanti funzioni,
dovranno rivolgersi alla forza pubblica:
alla Caserma dei Gendarmi della città, alla stazione della Brigata nel Borgo
Durbecco. Se i disinfettatori e i loro assistenti non rispetteranno i loro doveri,
saranno denunciati al Governatore e le Deputazioni dei Rioni sono incaricate della sorveglianza del corretto svolgimento
di queste funzioni necessarie per il contenimento del colera. Un’altra misera figura, spesso disprezzata per
il ribrezzo che suscitava l’attività che svolgeva, è quella dei becchini, gli addetti al trasporto dei
cadaveri dei colerosi del lazzaretto sia dei morti al proprio domicilio. Essi
hanno l’obbligo di pernottare in un luogo adiacente l’ospedale o presso il
lazzaretto, rispondendo prontamente alla chiamata delle suore presso il
lazzaretto, o dell’economo per il trasporto dal domicilio, usando
tassativamente per ogni cadavere il cataletto dell’ospedale accompagnato dai
dati anagrafici del defunto da presentare ai Frati custodi del Campo Santo, non
dimenticando mai di farsi disinfettare prima di partire e di ritornare
all’ospedale. I colerosi morti a casa saranno prima dell’inumazione trasportati
alla camera mortuaria dell’ospedale soltanto durante le ore serali o ai primi
albori percorrendo le strade meno frequentate e utilizzando il cataletto
ordinario o quello a ruote su cui possono essere trasportati anche due
cadaveri, in mancanza della cassa funebre si ricorrerà a quelle dell’ospizio.
|
|
|
I cadaveri dei colerosi del Borgo Durbecco o
dei sobborghi saranno invece trasportati direttamente alla camera mortuaria del
cimitero seguendo la strada di circonvallazione. Nel trasporto dalla camera
mortuaria al cimitero i becchini dovranno seguire scrupolosamente lo spalto
delle mura e uscire da Porta Montanara, mentre nel trasporto notturno dalla
camera mortuaria al cimitero dovranno seguire il carrettone, un cassone ambulante dipinto di nero e tirato da un
cavallo, sotto la vigilanza dei Padri Osservanti e nelle ore fissate e nei modi
prescritti eseguire la tumulazione.Non dovranno inoltre appropriarsi di nessun
oggetto del defunto né potranno percepire dai parenti dei defunti nessun
compenso, tranne il caso in cui siano richiesti di lavare e vestire il cadavere
potranno percepire un compenso non eccessivo da parte dei famigliari, ogni
mancanza grave degli addetti sarà punita con la carcerazione. Ogni becchino
riceve 15 scudi mensili per le varie mansioni ma si ribadisce che deve tenere
buone maniere con gli infermi e i loro famigliari cercando di soccorrere gli
sventurati e concorrendo con la propria azione al corretto e buon regime
prestabilito, pena l’immediata espulsione dal servizio. La descrizione degli
obblighi e delle funzioni dei becchini riportata nel citato documento contrasta
però fortemente con la denuncia presentata in forma anonima, per non incorrere
in vendette private, al Cardinal Legato di Ravenna da alcuni cittadini contro
il disgustoso comportamento dei monatti faentini, e riportata nel saggio di
Dino Pieri.
‹‹ I cadaveri vengono trasportati dopo morti
di giorni e più, putridi, e pienamente decomposti, di giorno tante volte, o
nell’ora prima della notte. Al carrettone che contiene i cadaveri si fa
trapassare quasi tutta la città tenendo le strade primarie, ed in modo il più bestiale
ed infame. Coloro che sono addetti al trasporto, quando passano per le strade
fischiano, urlano, e schiamazzano, e fanno lunghe fermate nelle strade, ove
passano, talché spaventano i poveri abitanti, e li cittadini vengono talmente
commossi, che poco dopo restano compresi da soverchia apprensione, e quindi
attaccati dalla furente malattia di colera. Nelle strade ove è passato il
carrettone de’ morti colerosi si è trovato lo scolo delli cadaveri putridi
filtrato dalle fissure del carrettone, ove pongono i cadaveri stessi pel
trasporto alla sepoltura ››.
Nel Regolamento
interno dell’Ospedale dei colerosi si precisano le norme riguardanti le
diverse funzioni del personale medico e di servizio addetto all’ospizio. Al
vertice sta il medico direttore consulente,
cui spetterà ogni responsabilità nella gestione dell’istituto. E’ nominato
dalla Deputazione di Sanità e dall’autorità municipale ed ecclesiastica della
città, ed è tenuto a visitare una volta al giorno i ricoverati nel lazzaretto.
Dal direttore dipende direttamente l’economo,
che cura la contabilità generale delle varie spese di gestione dell’ospizio e
dei sussidi erogati ai colerosi poveri, che dovrà documentare anche al
Magistrato ogni quindici giorni, allo stesso spetta la vigilanza rigorosa sulle
disinfezioni delle case dei contagiati tramite gli addetti, il rifornimento
oculato delle provviste per il lazzaretto segnalate ogni giorno dalle suore,
infine il rapporto diretto e costante con la segreteria della Deputazione
Sanitaria.
Foto sopra. Apparecchio per la disinfestazione delle lettere in tempo
di peste. Primo recapito venivano bollate con la scritta NETTA DI FUORI
- SPORCA DI DENTRO, oppure NETTA DI FUORI - NETTA DENTRO, quando
venivano praticati "tagli e fori nella busta per favorire la
penetrazione dei profumi".
Foto a lato. Disegno di un carro funebre dei Fratelli Querzola di Faenza, anno 1837.
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Il numero dei medici e chirurghi addetti
all’ospizio varia in base al numero dei ricoverati, è previsto un posto circa
uno ogni dieci malati. Il medico curante
non risiede presso il ricovero ma è tenuto a visitare i pazienti ogni mattina
alle ore 7 e ogni sera alla stessa ora, oltre a prestarsi per ogni chiamata o nuovo ricovero e in ogni caso di aggravamento, pertanto è necessario che
indichi tassativamente il proprio recapito e sia facilmente reperibile, inoltre
ogni giorno dovrà conferire con il Direttore sullo stato dei malati e
sull’esito delle cure, segnalando per iscritto eventuali inadempienze o
prescrizioni farmaceutiche non attuate diligentemente dal personale di
servizio. Sarà inoltre tenuto ogni giorno a fare rapporto alla Deputazione
Sanitaria sul numero dei ricoverati, dei deceduti durante il giorno o la notte.
Per tutte queste mansioni il medico percepirà uno stipendio mensile di scudi
45.
Presso il lazzaretto avrà la residenza anche
un flebotomo, che su prescrizione del
medico curante eseguirà tutte le operazioni di bassa chirurgia e di pronto
soccorso, esercitando la vigilanza perché i malati siano ben serviti, riceverà
per queste mansioni oltre al mantenimento totale uno stipendio di 15 scudi
mensili. Nella
Tab. D sono indicati i nomi dei medici coinvolti nell’emergenza del
colera, ma nello stesso tempo scopriamo la generosità e lo spirito di
abnegazione di alcuni di loro, come il dottor Ercole Valenti che fu
vittima del morbo stesso, come il caritatevole direttore del lazzaretto
dottor Antonio Bucci pronto al soccorso gratuito dei più poveri, o
infine il generoso dottor Carlo Martini che si sobbarcò a visite
notturne e diurne di pazienti di un altro collega meno disponibile. Tra
i medici che non si distinsero per altruismo, in questa pietosa
circostanza, va annoverato senz’altro “il vanitoso professor Jacopo
Sacchi”, primario dell’Ospedale Civile, che fu richiamato anche dal
Gonfaloniere faentino per aver trascurato l’assistenza dei cittadini
ricoverati a favore dei militari della guarnigione austriaca presente
in città. Nel 1861 diventerà il primo deputato faentino a sedere nel
Parlamento Italiano riunito a Torino e pochi anni dopo darà alle stampe
nella tipografia faentina di P. Conti una memoria Sulla esistenza dei contagi popolari e sulla natura del cholera-morbus asiatico.
Tab. D -
Nota dei medici distintisi durante l’invasione del colera in Faenza
(1855)
Cognome e nome
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Classe
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Qualifica
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Note
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Balelli Marco
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1°
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Medico nel lazzaretto
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Si distinse per zelo e attività singolare nella cura dei malati
della città e di fuori
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Brentani Francesco
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1°
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Medico condotto
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Non si sottrasse ad alcuna fatica per essere ad ogni ora pronto al
soccorso degli ammalati
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Bucci Antonio
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1°
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Avventuriere che ebbe la direzione del lazzaretto
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Lo condusse con senno e attività singolare, si prestò gratuitamente
alle chiamate dei poveri
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Martini Carlo
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1°
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Medico condotto nei sobborghi
|
Scelse spontaneamente di abitare nel Borgo d’Urbecco, per essere
pronto di giorno e di notte al soccorso dei colerosi, vi stette per 6 mesi
continui prestando cura a tutti i malati del Borgo e dei sobborghi
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Bosi
Antonio
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2°
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Medico condotto nel Borgo Durbecco
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Brunetti Girolamo
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2°
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Medico condotto
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Conti Camillo
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2°
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Chirurgo nel lazzaretto
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Mamini Domenico
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2°
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Avventuriere
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Ha servito nel lazzaretto
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Valenti
Ercole
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2°
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Medico condotto nel contado
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Fu attaccato dal cholera
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Baldi Pietro
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2°
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Avventuriere
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Bucci
Filippo
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2°
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Avventuriere
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Spontaneamente si offrì di servire nel lazzaretto durante l’assenza
di molti giorni del dott. Conti Camillo
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Brunetti
Nicola
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2°
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Fu operosissimo in Faenza
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Cicognani
Pietro
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2°
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Avventuriere
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Galamini
Giuseppe
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2°
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Avventuriere
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Sarchielli Giuseppe
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2°
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Medico condotto in città
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Sacchi
Paolo
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2°
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Avventuriere
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Venturi
Fedele
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2°
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Medico condotto in Granarolo
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Il personale di servizio è composto di varie
figure modeste ma indispensabili al buon funzionamento del ricovero. La
Deputazione affida al portinaio del
lazzaretto anche la mansione di cuoco,
in considerazione della ridotta attività della prima mansione, con uno
stipendio di scudi 12 mensili oltre ai pasti, ma con l’obbligo di risiedere
insieme agli inservienti presso l’istituto. Non potendo questi uscire, si
destina alle mansioni di fattorino l’assunzione di un intermediario per i rapporti con l’esterno come l’acquisto di
medicinali o per svolgere commissioni da parte dei medici o del Direttore,
purché si sottoponga alle prescritte disinfezioni e non abbia contatto diretto
con i ricoverati. Sono inoltre previsti due o più portatori secondo le necessità con la stessa retribuzione degli
infermieri, con l’obbligo di trasportare i malati dal proprio domicilio al
ricovero su ordine del flebotomo o delle suore, quando il bisogno lo esige,
come gli altri inservienti, prestano la loro opera ai ricoverati. Svolgono
invece i servizi infermieristici i Padri
Mendicanti con l’aiuto di alcuni secolari che alle dipendenze del medico
curante e del flebotomo prestano soccorso ai malati: i secolari o laici
ricevono uno stipendio mensile di scudi 12 e un solo pasto al giorno composto
di once 8 di carne, once 4 di minestra e 2 libbre di pane, mentre gli
ecclesiastici ricevono “intero vitto”. A dirigere infine i servizi di questo
particolare ospedale si destinano le Suore della Carità, per essersi offerte
spontaneamente e per avere grande esperienza nella conduzione degli ospedali,
come hanno dimostrato nella gestione dell’Ospedale Cittadino. A esse è affidato
il governo della biancheria, del vasellame, delle stoviglie e della cucina, e
ogni mattina devono far recapitare all’economo la richiesta delle provviste, come
pure sono tenute a consegnare ai becchini la nota con i dati anagrafici dei
defunti per i Frati osservanti custodi del camposanto comunale.
Per illustrare il clima della nostra città
sconvolta dalla terribile epidemia merita infine fare un cenno alla nota Canzunetta pr e’colera d’Fenza de’1855,
un’ampia rappresentazione in dialetto faentino composta “da un certo Sebastiano
Borghi” nello stesso anno funesto, che esprime in forme ironiche prima lo
sgomento per un male terribile che conduce a morte rapida le persone colpite,
poi tutta la diffidenza popolare nei confronti delle cure inefficaci dei medici
e dei medicastri locali nonché la pericolosità delle stesse misure preventive
adottate.
‹‹Stasì zet››, tot am arspond, / ‹‹Povra
Fenza, povar mond! ››./ Ma a n’savì, pur tropp l’è vera, / dentr a Fenza u j è
e’colera./ A z’n’andem tot quent ‘t un fiat/ a fè terra pr al pignat./
Dopo lo sgomento e la confusione iniziale
provocata dalla terribile notizia del colera, il racconto ironico del poeta
prende il via da una visita al lazzaretto di S. Ippolito, dove sono stati
ricoverati tanti poveri malati affetti da semplici disturbi intestinali che la
sospetta comitiva dei medici e medicastri cerca di guarire dal morbo asiatico,
ma spesso invece spedisce all’altro mondo, essendo più interessati al loro
salario mensile che alla salute dei pazienti. Preso dalla stizza, il poeta si
reca allora in un altro quartiere, presso la chiesa di S. Rocco, dove trova un
crocchio di persone tenute a freno dalle guardie, che commentano l’improvvisa
morte di un sospetto di colera, si scaglia allora con sarcasmo contro le
molteplici misure preventive adottate e consigliate dai medici: proibite la
vendita di cozze e gamberetti, consiglio di indossare abiti puliti, e di
mangiare cibi sani e nutrienti. Peccato che molti dimentichino la diffusa
povertà che è presente anche a Faenza.
/ Oh, s’i vdes un po d’miseria/ ch’l’è par
Fenza propri seria:/ sti puvret in sti busot/ cum j è mess, e cum j è ardot,/ a
durmìr a mont e massa/ imparterra o ‘su na cassa,/ senza pen, senza magnuga,/
come mel ins la pacciuga/ fra la pozza e l’umditè,/ ch’i fa propi gumitè!/ .
Conclude infine la sua lunga invettiva contro
i medici incapaci di curare la malattia ma solo in grado di generare paure, con
l’invito bonario a stare allegri, e senza guai e non pensare alle false notizie
ma curare la pulizia, star lontano dai vizi, non mangiare “porcherie” e a bere
solo, con moderazione, vino buono!
Purtroppo di questa grave epidemia, che
coinvolse Faenza e tutta la Romagna pochi anni prima della formazione dello
Stato Italiano, non troviamo cenno alcuno né nel noto volume Faenza nella storia e nell’arte di A.
Messeri-Calzi né nel più recente e agile volumetto La mia Faenza (1989) di R. Savini, tanto da far scrivere troppo frettolosamente
a qualcuno, anche nel catalogo della mostra Le
Frecce Spezzate (2011), che a Faenza
il morbo non ricomparirà neppure in seguito [al biennio 1835-37], quasi a
voler negare la maggiore epidemia del XIX secolo. Già nel 1990 il dottor
Veniero Casadio Strozzi aveva in gran parte colmata la lacuna storiografica con
il saggio Il secolo del colera. Così
pure il diligente don Giulio Foschini nel riordinare l’Archivio Vescovile e
nell’illustrare anno per anno il lungo episcopato ottocentesco di mons. Giovanni
Benedetto dei conti Folicaldi (1987) tramite i documenti rinvenuti in quella
circostanza aveva fatto cenno al 1855:
l’anno del colera, citando a supporto numerosi documenti sul morbo asiatico
che aveva infierito in città e nei vari paesi della diocesi faentina.
Bibliografia
Cicognani Giorgio, Una poesia in dialetto faentino sul colera
del 1855, in ‹‹ Museo del lavoro contadino di Brisighella ›› Quaderni n. 4,1993, pp. 63-77
Ferlini
Antonio, Pestilenze nei secoli a Faenza,
Tipografia Faentina Editrice, Faenza, 1990, pp.123-132; Il secolo del colera di Veniero Casadio Strozzi, pp. 216-230
Forti
Messina Anna Lucia, L’Italia nell’800 di
fronte al colera, in Storia d’Italia, Annali n. 7, Einaudi 1984, pp. 431-
494
Foschini
Giulio, Mons. Giovanni Benedetto dei
conti Folicaldi ed i suoi tempi vescovo di Faenza (1832-1867), Tipografia
Faentina, Faenza, 1987
Pieri
Dino, Lo zingaro maledetto / Colera e
società nella Romagna dell’ottocento, Giudicini e Rosa Editori, Bologna,
1985
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