Faenza al tempo del colera

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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Faenza al tempo del colera

di Giuseppe Dalmonte
 

(Dal Supplemento ai quaderni della Fiera di S. Rocco 2012)

     Il colera nella città del Lamone nel biennio 1835-1837


Il colera, descritto in India fin dai primi decenni del sec. XIX, si diffonde progressivamente in Russia nel 1829 e nei primi anni trenta compare in Inghilterra e in Francia, per passare rapidamente negli anni successivi negli Stati Italiani a partire dal Piemonte e via via in tutti gli altri, compreso lo Stato Pontificio. Questa malattia molto contagiosa si manifesta con dolori addominali e frequenti scariche di diarrea, a volte accompagnate da vomito, provocate da un batterio, il vibrione, che sarà individuato e studiato, però solo nel 1883 dal medico tedesco R. Koch. Questo germe si trasmette tra i soggetti attraverso acqua e cibi infetti, oppure attraverso il contatto con indumenti, oggetti o alimenti contaminati. Per le precarie condizioni igieniche della maggioranza della popolazione e per le approssimative cure sanitarie in auge in quei tempi, la mortalità raggiunge ben presto percentuali elevate tra i contagiati, fino al 60 %, tanto da creare allarme, paure diffuse e talora panico in paesi sconvolti da immagini di sofferenza e di stenti.

 


Le due invasioni coleriche del biennio 1835-1837 e del 1848-1849, tanto letali in alcuni Stati italiani, sfiorarono appena la Romagna coinvolgendo parzialmente solo qualche piccolo paese come Cesenatico. Crearono tuttavia allarmi e timori diffusi tra la popolazione tanto che le stesse autorità ordinarono con sollecitudine di allestire in ogni città lazzaretti ben aerati e asciutti, destinati a ospitare in locali separati uomini, donne e militari, nello stesso tempo si moltiplicarono le manifestazioni religiose come processioni, tridui, novene, missioni, messe solenni, prima per scongiurare il flagello poi come atti di omaggio e di ringraziamento per lo scampato pericolo.Il dottor Veniero Casadio Strozzi ha scritto molto efficacemente su quelle vicende “parlare dell’epidemia di colera del 1835-1837 a Faenza è raccontare la storia di qualcosa che non è mai avvenuto, in quanto fortunatamente (per molti miracolosamente) nella nostra città non si presentò alcun contagio nel biennio in cui l’epidemia infuriò un po’ dappertutto”. Infatti, nell’estate del 1835 e del 1836 per la consueta festa di S. Pietro ci fu a Faenza “festa grossa” con affollato concorso di pubblico per la ricca tombola da mille scudi, per l’opera in teatro la sera e la solita carriera pomeridiana di cavalli barberi lungo il corso di Porta Imolese, tripudi popolari ripetuti in luglio e agosto per le feste del Beato Nevolone patrono dei calzolai e di S. Elena patrona delle tessitrici. Tuttavia dalla Deputazione Sanitaria cittadina si destina a lazzaretto parte del Convento dell’Osservanza, a convalescenziario un’ala del convento di S. Maria Vecchia, per casa di osservazione si stabilisce una casetta del canonico Mamini, posta sullo stradello dei Cappuccini. Si suggerisce inoltre di tenere pronti medici, flebotomi e uno speziale, cui spetta l’obbligo di praticare le fumigazioni disinfettanti, si proibisce il commercio di robe, vestiari e stracci provenienti da luoghi infetti o sospetti, s’invita a bandire dalla città ciarlatani, vagabondi o oziosi forestieri.Ai beccamorti è prescritto un camiciotto come divisa, essi dovranno evitare di toccare i cadaveri se non con lunghe e forti tenaglie per collocarli sul carretto per il trasporto.In alcune città romagnole si giunge a vietare perfino la vendita e il consumo di frutta e ortaggi estivi come i cocomeri, i meloni, i cetrioli e i peperoni, considerati nocivi alla salute.

Immagine della Beata Vergine delle Grazie con quattro Santi Protettori, posta sulle Porte della città di Faenza per conto della Municipalità a seguito della deliberazione del 3 ottobre 1836. (Terracotta: m. 1,50 x 1,80).

A conclusione degli allarmi e delle minacce di contagio del colera nello Stato Pontificio, si decide dalle autorità faentine di collocare sui muri esterni delle sei porte urbane come suggello per lo scampato pericolo l’immagine in cotto della Madonna delle Grazie contornata dai quattro santi patroni, modellata dal cappellano dell’ospedale don Domenico Valenti: una di quelle immagini possiamo ancora ammirare sulla Porta delle chiavi del Borgo Durbecco.

L’epidemia colerica del 1855

Ben diversa sarà la situazione dei paesi romagnoli nel 1855 quando l’intera penisola sarà colpita da una terribile epidemia di colera che produrrà secondo alcuni studiosi quasi 120 mila vittime, ma secondo altri il numero dei morti andrebbe raddoppiato per ovviare alle mancate denunce. Sarà la maggior epidemia del secolo che nella nostra provincia raggiunse tassi di mortalità tra i più elevati, come si evidenzia dalle tabelle A e B.

Questa la graduatoria dei tassi di letalità in Romagna: 1.Romagna estense (66,55%) - 2. Romagna Toscana (63, 80%) – 3. Legazione di Ravenna (62,03%) – 4.Legazione di Forlì (52,59%).

Tab. A - Colera (1855)                        Legazione di Ravenna

Località

abitanti

n.casi

n.morti

%

letalità

Morti /

1000 ab.

Inizio epidemia

Fine epidemia

Alfonsine

7.082

242

127

52,47

17,93

5/VII/1855

23/XI/1855

Bagnara

1.803

54

16

29,62

8,87

27/VII/1855

28/IX/1855

Brisighella

12.039

335

189

56,41

15,69

6/VII/1855

7/X/1855

Casola Valsenio

3.918

218

131

60,09

33,43

1/VII/1855

14/X/1855

Castel Bolognese

5.374

94

54

57,44

10,04

27/VII/1855

8/X/1855

Castel del Rio

2.470

369

222

60,16

89,87

26/VII/1855

27/IX/1855

Cervia

5.692

239

145

60,66

25,47

6/IV/1855

3/X/1855

Dozza

2.090

76

43

56,57

20,57

3/VIII/1855

10/IX/1855

Faenza

37.467

1.146

761

66,40

20,31

25/II/1855

24/X/1855

Fontanelice

1.731

186

107

57,52

61,81

18/VII/1855

31/X/1855

Imola

26.760

636

459

72,16

17,15

6/III/1855

16/XII/1855

Mordano

2.253

139

83

59,71

36,83

7/IV/1855

21/X/1855

Ravenna

52.334

2.694

1.677

62,24

32,04

11/XII/1854

9/XI/1855

Riolo

2.733

160

75

46,87

27,44

15/VII/1855

30/IX/1855

Russi

6.726

402

242

60,19

35,97

1/III/1855

1/XI/1855

Solarolo

3.138

81

49

60,49

15,61

20/VII/1855

10/XI/1855

Tossignano

1.728

69

49

71,01

28,35

31/VII/1855

6/X/1855

 

 

 

 

 

 

 

 

Tot.

175.338

7.140

4.429

62,03

25,25

 

 


Tab. B - Colera (1855)               Legazione di Ferrara: Romagna estense

Località


abitanti

n.casi

n.morti

%

letalità

Morti /

1000 ab.

Inizio

epidemia

Fine

epidemia

Bagnacavallo


13.527

281

203

72,24

15,00

13/VI/1855

30/X/1855

Conselice


5.203

181

124

68,50

23,83

29/V/1855

29/XI/1855

Cotignola


6.540

354

272

76,83

41,59

8/VII/1855

7/XI/1855

Fusignano


5.193

148

108

72,97

20,79

3/VIII/1855

1/XII/1855

Lugo


23.181

864

519

60,06

22,38

22/II/1855

19/XI/1855

Massalombarda


5.002

259

165

63,70

32,98

12/III/1855

30/XI/1855

S. Agata


1.636

78

50

64,10

30,56

15/III/1855

5/XI/1855

 


 

 

 

 

 

 

 

Tot.


60.282

2.165

1.441

66,55

23,90

 

 

A Faenza si cominciò con la disinfezione della corrispondenza in arrivo dalla Toscana e dal Regno di Sardegna e col respingere i viaggiatori provenienti dagli stessi luoghi e non in grado di dimostrare la residenza in località immuni dal contagio.Si allestisce prontamente nel convento di S. Ippolito un lazzaretto con 12 letti ma poco efficiente per carenze idriche, di spazi e per gli scarsi fondi a disposizione tanto da essere temporaneamente chiuso già a metà marzo. La farmacia di Angelo Ubaldini comincia a fornire medicinali più adatti come laudano, acido nitrico, cloruro di calce, ecc. Si prescrive dalla Deputazione Sanitaria l’obbligo delle sepolture fuori dell’abitato e senza l’esposizione delle salme, anzi i cadaveri dei colerosi entro quattro ore dal decesso devono essere trasportati al cimitero senza ecclesiastico accompagno.Anche la stagione teatrale fu compromessa, nonostante alcune opere verdiane in cartellone (La Violetta-La Traviata e Il Trovatore), come dicono le cronache “fu una disgraziata stagione, turbata dalla venuta del colera il quale piombò nel lutto molte famiglie della nostra città”.

Il 25 febbraio 1855 il colera colpisce a morte uno dei primi contagiati, Gaddoni Domenico, un muratore di 54 anni della parrocchia urbana di S. Severo e pochi giorni dopo una tessitrice maritata senza figli, di 40 anni, di S. Margherita, seguita in breve da una merciaia benestante della parrocchia dei Servi. Nel mese di marzo a essere colpito dal morbo asiatico in modo virulento è invece il Borgo Durbecco, sudiccio in modo straordinario e dove è il cumulo d’ogni miseria - secondo le parole del precettore fiorentino T. Gargani in casa Laderchi - con 17 decessi in meno di quaranta giorni, tra  lavandaie, tessitrici e povera gente in genere. In un parziale elenco sanitario relativo agli infermi di colera nei primi due mesi di epidemia, risultano deceduti 27 individui, di cui 3 nel lazzaretto e 24 al proprio domicilio, che nella stragrande maggioranza dei casi (22) vivono nella parrocchia di S. Antonino del Borgo; le categorie sociali e professionali rappresentate sono: 6 braccianti, 5 tessitrici, 3 lavandaie, 1 cordarino, 1 muratore, 1 possidente, 1 merciaia, 1 servente, 6 bambini e ragazzi, mentre la maggioranza degli adulti si colloca tra i 40-60 anni.

Con l’arrivo dei mesi caldi, si riapre il lazzaretto mentre il colera imperversa anche nelle campagne, si sollecita perciò la costruzione di due arcate provvisorie nel cimitero comunale e si chiede la rimozione dell’orinatoio posto nella Molinella, per i medici condotti ormai chiamati ogni giorno si mettono a disposizione alcuni calessi forniti dal vetturale Zannetti. Tra luglio e agosto ci sono ormai una ventina di casi quotidiani, con 317 contagiati e 166 decessi a metà luglio, il mese successivo saliranno a 515 su 932 malati, solo dal mese di settembre si assiste a una diminuzione del contagio, che gradualmente scompare nel mese di ottobre: solo 8 casi nelle prime tre settimane ottobrine.Il bollettino sanitario della Deputazione Comunale, redatto al termine dell’epidemia durata ben otto mesi, registra 1146 individui contagiati, di cui 642 femmine e 504 maschi, i decessi ammontano a 761 (439 donne e 322 maschi) con una netta prevalenza di quelli avvenuti al proprio domicilio (525), rispetto a quelli nel lazzaretto (235), considerato dai ceti popolari luogo di segregazione dove si somministrano veleni per abbreviare la vita ai miseri, pregiudizio tanto più radicato tra la gente di campagna, infatti, saranno solo 17 i contadini faentini morti nel lazzaretto di S. Ippolito. Va infine affermato che il colera si manifesterà come una malattia tipicamente urbana perché colpirà ben 889 individui della città e dei sobborghi e, solo 257 abitanti delle campagne faentine. Per quanto riguarda invece la condizione sociale dei colpiti dal morbo asiatico mancano dati puntuali e completi sul territorio faentino, ma dalle tabelle statistiche della città di Forlì, Cesena, Imola e Bologna prevalgono fra i deceduti le seguenti categorie sociali: filatrici, casalinghe, braccianti, accattoni, serventi, cucitrici e sarti, si può quindi affermare per analogia che anche nella nostra città predominano gli appartenenti alle classi popolari più povere, e soccombono spesso gli individui malnutriti, spossati dalle fatiche e viventi in locali angusti e malsani.


Tab. C - Popolazione di Faenza suddivisa per parrocchie di città in base al censimento del 1853

Parrocchie

Popolazione

Case

Famiglie

 1. Commenda

1103

118

212

 2. S. Antonino

2330

270

647

 3. S. Lorenzo

1872

190

473

 4. S. Abramo

1198

83

313

 5. S. Agostino

1186

104

303

 6. S. Antonio abate

1219

110

319

 7.  S. Ilario

892

77

227

 8. S.  Ippolito

1515

125

412

 9. S. Maria ad Nives

998

82

232

10. S. Margherita

910

69

239

11. S. Salvatore

1285

122

337

12. Servi

1386

94

319

13. S. Stefano

1296

108

318

14. S.  Terenzio

384

35

82

15. S. Vitale

1095

88

258

16. S. Savino

526

60

104

17: S. Marco

1914

182

493

 

 

 

 

Tot.

21.109

1.917

4268

Tra le carte dell’archivio comunale compare un Regolamento da osservarsi in caso di sviluppo di colera in Faenza, che reca la data del 27 novembre 1855 ed è sottoscritto da Angelo Tartagni, segretario della Deputazione Sanitaria Comunale. Il manoscritto sembra raccogliere e riordinare le disposizioni e le procedure adottate nei mesi precedenti durante l’infuriare dell’epidemia, è composto di vari paragrafi riguardanti i seguenti aspetti e funzioni: le disposizioni generali per i primi interventi, gli assistenti e i disinfettatori, il lazzaretto e l’ospedale per i colerosi, il direttore consulente, i medici curanti e i chirurghi, il flebotomo, il servizio dei padri mendicanti e delle suore di carità, i portatori, il portinaio e il cuoco, l’economo, e i becchini. Spigolando fra i vari articoli e paragrafi di questo documento si apprende che inizialmente i malati colerosi poveri sono soccorsi nelle proprie case dietro presentazione di un certificato medico e dell’attestazione del parroco sullo stato di miserabilità del soggetto, in questo caso le medicine sono somministrate a spese del Comune, inoltre il parroco è autorizzato a pagare il mantenimento del malato e dei suoi famigliari purché egli non esca di casa. In caso di decesso i famigliari sono tenuti per sei giorni in osservazione, perciò avranno diritto alla sovvenzione giornaliera, nello stesso tempo saranno sottoposti insieme agli oggetti utilizzati dal deceduto al trattamento scrupoloso della disinfezione: la biancheria sarà immersa in una soluzione di cloruro di calce e le foglie contenute nei paglioni dei letti saranno invece bruciate in luoghi appositi. Al termine dell’osservazione prescritta, l’abitazione e i famigliari saranno di nuovo disinfettati e solo allora potranno uscire ma da quel momento cesserà il sussidio.




Immagine tratta dal Calendario dei Carabinieri in cui viene riccordata l'azione dell'Arma nell'alleviare la sofferenza della gente, soprattutto nelle campagne, ove i cadaveri venivano abbandonati.



In seguito al diffondersi del contagio e al moltiplicarsi dei casi si ritiene necessario aprire
il lazzaretto, dove il medico deve anzitutto convincere il paziente coleroso a ricoverarsi e darne pronta denuncia alla Direzione Sanitaria; trasportato l’ammalato al lazzaretto, si recheranno prontamente all’abitazione i disinfettatori per eseguire le operazioni prescritte e i famigliari non potranno uscire prima dei regolari sei giorni, in caso di condizioni di povertà avranno diritto alle sovvenzioni giornaliere. Gli addetti alle disinfezioni avranno il recapito presso l’ufficio dell’economo, che provvederà a segnalare le case da disinfettare scrupolosamente, questi uomini saranno provvisti di una biroccia e di una mastella per svolgere le prescritte fumigazioni disinfettanti secondo il metodo del chimico Guytton Morveau, tenendo chiuse le finestre e le porte affinché i vapori possano vagare per le stanze almeno un quarto d’ora. In seguito immergeranno in una soluzione di cloruro di calce gli indumenti, le coperte e gli altri oggetti per almeno mezz’ora, per lavare il pavimento dove é giaciuto il cadavere la soluzione di cloruro sarà più elevata. I paglioni dei letti invece saranno trasportati sopra una biroccia coperta da una tela imbevuta di una soluzione di cloruro di calce fino al pubblico cimitero dove saranno bruciate le foglie, mentre la tela sarà restituita ai famigliari dopo essere stata immersa nella stessa soluzione disinfettante. Qualora gli addetti incontrassero ostacoli nello svolgimento delle loro importanti funzioni, dovranno rivolgersi alla forza pubblica: alla Caserma dei Gendarmi della città, alla stazione della Brigata nel Borgo Durbecco. Se i disinfettatori e i loro assistenti non rispetteranno i loro doveri, saranno denunciati al Governatore e le Deputazioni dei Rioni sono incaricate della sorveglianza del corretto svolgimento di queste funzioni necessarie per il contenimento del colera.
Un’altra misera figura, spesso disprezzata per il ribrezzo che suscitava l’attività che svolgeva, è quella dei becchini, gli addetti al trasporto dei cadaveri dei colerosi del lazzaretto sia dei morti al proprio domicilio. Essi hanno l’obbligo di pernottare in un luogo adiacente l’ospedale o presso il lazzaretto, rispondendo prontamente alla chiamata delle suore presso il lazzaretto, o dell’economo per il trasporto dal domicilio, usando tassativamente per ogni cadavere il cataletto dell’ospedale accompagnato dai dati anagrafici del defunto da presentare ai Frati custodi del Campo Santo, non dimenticando mai di farsi disinfettare prima di partire e di ritornare all’ospedale. I colerosi morti a casa saranno prima dell’inumazione trasportati alla camera mortuaria dell’ospedale soltanto durante le ore serali o ai primi albori percorrendo le strade meno frequentate e utilizzando il cataletto ordinario o quello a ruote su cui possono essere trasportati anche due cadaveri, in mancanza della cassa funebre si ricorrerà a quelle dell’ospizio.


I cadaveri dei colerosi del Borgo Durbecco o dei sobborghi saranno invece trasportati direttamente alla camera mortuaria del cimitero seguendo la strada di circonvallazione. Nel trasporto dalla camera mortuaria al cimitero i becchini dovranno seguire scrupolosamente lo spalto delle mura e uscire da Porta Montanara, mentre nel trasporto notturno dalla camera mortuaria al cimitero dovranno seguire il carrettone, un cassone ambulante dipinto di nero e tirato da un cavallo, sotto la vigilanza dei Padri Osservanti e nelle ore fissate e nei modi prescritti eseguire la tumulazione.Non dovranno inoltre appropriarsi di nessun oggetto del defunto né potranno percepire dai parenti dei defunti nessun compenso, tranne il caso in cui siano richiesti di lavare e vestire il cadavere potranno percepire un compenso non eccessivo da parte dei famigliari, ogni mancanza grave degli addetti sarà punita con la carcerazione. Ogni becchino riceve 15 scudi mensili per le varie mansioni ma si ribadisce che deve tenere buone maniere con gli infermi e i loro famigliari cercando di soccorrere gli sventurati e concorrendo con la propria azione al corretto e buon regime prestabilito, pena l’immediata espulsione dal servizio. La descrizione degli obblighi e delle funzioni dei becchini riportata nel citato documento contrasta però fortemente con la denuncia presentata in forma anonima, per non incorrere in vendette private, al Cardinal Legato di Ravenna da alcuni cittadini contro il disgustoso comportamento dei monatti faentini, e riportata nel saggio di Dino Pieri.

‹‹ I cadaveri vengono trasportati dopo morti di giorni e più, putridi, e pienamente decomposti, di giorno tante volte, o nell’ora prima della notte. Al carrettone che contiene i cadaveri si fa trapassare quasi tutta la città tenendo le strade primarie, ed in modo il più bestiale ed infame. Coloro che sono addetti al trasporto, quando passano per le strade fischiano, urlano, e schiamazzano, e fanno lunghe fermate nelle strade, ove passano, talché spaventano i poveri abitanti, e li cittadini vengono talmente commossi, che poco dopo restano compresi da soverchia apprensione, e quindi attaccati dalla furente malattia di colera. Nelle strade ove è passato il carrettone de’ morti colerosi si è trovato lo scolo delli cadaveri putridi filtrato dalle fissure del carrettone, ove pongono i cadaveri stessi pel trasporto alla sepoltura ››.

Nel Regolamento interno dell’Ospedale dei colerosi si precisano le norme riguardanti le diverse funzioni del personale medico e di servizio addetto all’ospizio. Al vertice sta il medico direttore consulente, cui spetterà ogni responsabilità nella gestione dell’istituto. E’ nominato dalla Deputazione di Sanità e dall’autorità municipale ed ecclesiastica della città, ed è tenuto a visitare una volta al giorno i ricoverati nel lazzaretto. Dal direttore dipende direttamente l’economo, che cura la contabilità generale delle varie spese di gestione dell’ospizio e dei sussidi erogati ai colerosi poveri, che dovrà documentare anche al Magistrato ogni quindici giorni, allo stesso spetta la vigilanza rigorosa sulle disinfezioni delle case dei contagiati tramite gli addetti, il rifornimento oculato delle provviste per il lazzaretto segnalate ogni giorno dalle suore, infine il rapporto diretto e costante con la segreteria della Deputazione Sanitaria.





Foto sopra. Apparecchio per la disinfestazione delle lettere in tempo di peste. Primo recapito venivano bollate con la scritta NETTA DI FUORI - SPORCA DI DENTRO, oppure NETTA DI FUORI - NETTA DENTRO, quando venivano praticati "tagli e fori nella busta per favorire la penetrazione dei profumi".


Foto a lato. Disegno di un carro funebre dei Fratelli Querzola di Faenza, anno 1837.


Il numero dei medici e chirurghi addetti all’ospizio varia in base al numero dei ricoverati, è previsto un posto circa uno ogni dieci malati. Il medico curante non risiede presso il ricovero ma è tenuto a visitare i pazienti ogni mattina alle ore 7 e ogni sera alla stessa ora, oltre a prestarsi per ogni chiamata o nuovo ricovero e in ogni caso di aggravamento, pertanto è necessario che indichi tassativamente il proprio recapito e sia facilmente reperibile, inoltre ogni giorno dovrà conferire con il Direttore sullo stato dei malati e sull’esito delle cure, segnalando per iscritto eventuali inadempienze o prescrizioni farmaceutiche non attuate diligentemente dal personale di servizio. Sarà inoltre tenuto ogni giorno a fare rapporto alla Deputazione Sanitaria sul numero dei ricoverati, dei deceduti durante il giorno o la notte. Per tutte queste mansioni il medico percepirà uno stipendio mensile di scudi 45.

Presso il lazzaretto avrà la residenza anche un flebotomo, che su prescrizione del medico curante eseguirà tutte le operazioni di bassa chirurgia e di pronto soccorso, esercitando la vigilanza perché i malati siano ben serviti, riceverà per queste mansioni oltre al mantenimento totale uno stipendio di 15 scudi mensili.

Nella Tab. D sono indicati i nomi dei medici coinvolti nell’emergenza del colera, ma nello stesso tempo scopriamo la generosità e lo spirito di abnegazione di alcuni di loro, come il dottor Ercole Valenti che fu vittima del morbo stesso, come il caritatevole direttore del lazzaretto dottor Antonio Bucci pronto al soccorso gratuito dei più poveri, o infine il generoso dottor Carlo Martini che si sobbarcò a visite notturne e diurne di pazienti di un altro collega meno disponibile. Tra i medici che non si distinsero per altruismo, in questa pietosa circostanza, va annoverato senz’altro “il vanitoso professor Jacopo Sacchi”, primario dell’Ospedale Civile, che fu richiamato anche dal Gonfaloniere faentino per aver trascurato l’assistenza dei cittadini ricoverati a favore dei militari della guarnigione austriaca presente in città. Nel 1861 diventerà il primo deputato faentino a sedere nel Parlamento Italiano riunito a Torino e pochi anni dopo darà alle stampe nella tipografia faentina di P. Conti una memoria Sulla esistenza dei contagi popolari e sulla natura del cholera-morbus asiatico.

Tab. D -  Nota dei medici distintisi durante l’invasione del colera in Faenza (1855)


Cognome e nome


Classe

Qualifica

Note


Balelli Marco

Medico nel lazzaretto

Si distinse per zelo e attività singolare nella cura dei malati della città e di fuori

Brentani Francesco

Medico condotto

Non si sottrasse ad alcuna fatica per essere ad ogni ora pronto al soccorso degli ammalati

Bucci Antonio

Avventuriere che ebbe la direzione del lazzaretto

Lo condusse con senno e attività singolare, si prestò gratuitamente alle chiamate dei poveri

Martini Carlo

Medico condotto nei sobborghi

Scelse spontaneamente di abitare nel Borgo d’Urbecco, per essere pronto di giorno e di notte al soccorso dei colerosi, vi stette per 6 mesi continui prestando cura a tutti i malati del Borgo e dei sobborghi

Bosi Antonio

Medico condotto nel Borgo Durbecco

 

Brunetti Girolamo

Medico condotto

 

Conti Camillo

Chirurgo nel lazzaretto

 

Mamini Domenico

Avventuriere

Ha servito nel lazzaretto

Valenti Ercole

Medico condotto nel contado

Fu attaccato dal cholera

Baldi Pietro

Avventuriere

 

Bucci Filippo

Avventuriere

Spontaneamente si offrì di servire nel lazzaretto durante l’assenza di molti giorni del dott. Conti Camillo

Brunetti Nicola

 

Fu operosissimo in Faenza

Cicognani Pietro

Avventuriere

 

Galamini Giuseppe

Avventuriere

 

Sarchielli Giuseppe

Medico condotto in città

 

Sacchi Paolo

Avventuriere

 

Venturi Fedele

Medico condotto in Granarolo

 

Il personale di servizio è composto di varie figure modeste ma indispensabili al buon funzionamento del ricovero. La Deputazione affida al portinaio del lazzaretto anche la mansione di cuoco, in considerazione della ridotta attività della prima mansione, con uno stipendio di scudi 12 mensili oltre ai pasti, ma con l’obbligo di risiedere insieme agli inservienti presso l’istituto. Non potendo questi uscire, si destina alle mansioni di fattorino l’assunzione di un intermediario per i rapporti con l’esterno come l’acquisto di medicinali o per svolgere commissioni da parte dei medici o del Direttore, purché si sottoponga alle prescritte disinfezioni e non abbia contatto diretto con i ricoverati. Sono inoltre previsti due o più portatori secondo le necessità con la stessa retribuzione degli infermieri, con l’obbligo di trasportare i malati dal proprio domicilio al ricovero su ordine del flebotomo o delle suore, quando il bisogno lo esige, come gli altri inservienti, prestano la loro opera ai ricoverati. Svolgono invece i servizi infermieristici i Padri Mendicanti con l’aiuto di alcuni secolari che alle dipendenze del medico curante e del flebotomo prestano soccorso ai malati: i secolari o laici ricevono uno stipendio mensile di scudi 12 e un solo pasto al giorno composto di once 8 di carne, once 4 di minestra e 2 libbre di pane, mentre gli ecclesiastici ricevono “intero vitto”. A dirigere infine i servizi di questo particolare ospedale si destinano le Suore della Carità, per essersi offerte spontaneamente e per avere grande esperienza nella conduzione degli ospedali, come hanno dimostrato nella gestione dell’Ospedale Cittadino. A esse è affidato il governo della biancheria, del vasellame, delle stoviglie e della cucina, e ogni mattina devono far recapitare all’economo la richiesta delle provviste, come pure sono tenute a consegnare ai becchini la nota con i dati anagrafici dei defunti per i Frati osservanti custodi del camposanto comunale.

Per illustrare il clima della nostra città sconvolta dalla terribile epidemia merita infine fare un cenno alla nota Canzunetta pr e’colera d’Fenza de’1855, un’ampia rappresentazione in dialetto faentino composta “da un certo Sebastiano Borghi” nello stesso anno funesto, che esprime in forme ironiche prima lo sgomento per un male terribile che conduce a morte rapida le persone colpite, poi tutta la diffidenza popolare nei confronti delle cure inefficaci dei medici e dei medicastri locali nonché la pericolosità delle stesse misure preventive adottate.

‹‹Stasì zet››, tot am arspond, / ‹‹Povra Fenza, povar mond! ››./ Ma a n’savì, pur tropp l’è vera, / dentr a Fenza u j è e’colera./ A z’n’andem tot quent ‘t un fiat/ a fè terra pr al pignat./

Dopo lo sgomento e la confusione iniziale provocata dalla terribile notizia del colera, il racconto ironico del poeta prende il via da una visita al lazzaretto di S. Ippolito, dove sono stati ricoverati tanti poveri malati affetti da semplici disturbi intestinali che la sospetta comitiva dei medici e medicastri cerca di guarire dal morbo asiatico, ma spesso invece spedisce all’altro mondo, essendo più interessati al loro salario mensile che alla salute dei pazienti. Preso dalla stizza, il poeta si reca allora in un altro quartiere, presso la chiesa di S. Rocco, dove trova un crocchio di persone tenute a freno dalle guardie, che commentano l’improvvisa morte di un sospetto di colera, si scaglia allora con sarcasmo contro le molteplici misure preventive adottate e consigliate dai medici: proibite la vendita di cozze e gamberetti, consiglio di indossare abiti puliti, e di mangiare cibi sani e nutrienti. Peccato che molti dimentichino la diffusa povertà che è presente anche a Faenza.

/ Oh, s’i vdes un po d’miseria/ ch’l’è par Fenza propri seria:/ sti puvret in sti busot/ cum j è mess, e cum j è ardot,/ a durmìr a mont e massa/ imparterra o ‘su na cassa,/ senza pen, senza magnuga,/ come mel ins la pacciuga/ fra la pozza e l’umditè,/ ch’i fa propi gumitè!/ .

Conclude infine la sua lunga invettiva contro i medici incapaci di curare la malattia ma solo in grado di generare paure, con l’invito bonario a stare allegri, e senza guai e non pensare alle false notizie ma curare la pulizia, star lontano dai vizi, non mangiare “porcherie” e a bere solo, con moderazione, vino buono!

 

Purtroppo di questa grave epidemia, che coinvolse Faenza e tutta la Romagna pochi anni prima della formazione dello Stato Italiano, non troviamo cenno alcuno né nel noto volume Faenza nella storia e nell’arte di A. Messeri-Calzi né nel più recente e agile volumetto La mia Faenza (1989) di R. Savini, tanto da far scrivere troppo frettolosamente a qualcuno, anche nel catalogo della mostra Le Frecce Spezzate (2011), che a Faenza il morbo non ricomparirà neppure in seguito [al biennio 1835-37], quasi a voler negare la maggiore epidemia del XIX secolo. Già nel 1990 il dottor Veniero Casadio Strozzi aveva in gran parte colmata la lacuna storiografica con il saggio Il secolo del colera. Così pure il diligente don Giulio Foschini nel riordinare l’Archivio Vescovile e nell’illustrare anno per anno il lungo episcopato ottocentesco di mons. Giovanni Benedetto dei conti Folicaldi (1987) tramite i documenti rinvenuti in quella circostanza aveva fatto cenno al 1855: l’anno del colera, citando a supporto numerosi documenti sul morbo asiatico che aveva infierito in città e nei vari paesi della diocesi faentina.

 Bibliografia

Cicognani Giorgio, Una poesia in dialetto faentino sul colera del 1855, in ‹‹ Museo del lavoro contadino di Brisighella ››  Quaderni n. 4,1993, pp. 63-77

Ferlini Antonio, Pestilenze nei secoli a Faenza, Tipografia Faentina Editrice, Faenza, 1990, pp.123-132; Il secolo del colera di Veniero Casadio Strozzi, pp. 216-230

Forti Messina Anna Lucia, L’Italia nell’800 di fronte al colera, in Storia d’Italia, Annali n. 7, Einaudi 1984, pp. 431- 494

Foschini Giulio, Mons. Giovanni Benedetto dei conti Folicaldi ed i suoi tempi vescovo di Faenza (1832-1867), Tipografia Faentina, Faenza, 1987

Pieri Dino, Lo zingaro maledetto / Colera e società nella Romagna dell’ottocento, Giudicini e Rosa Editori, Bologna, 1985


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