Il gioco del calcio tra gli indios guaranì nelle memorie di alcuni gesuiti spagnoli esuli a Faenza |
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Il gioco del calcio tra gli indios guaranì
nelle memorie di alcuni gesuiti spagnoli esuli a Faenza di Giuseppe Dalmonte Pubblicato sul mensile "In Piazza", aprile 2014, testo in parte rivisto e integrato Singolare coincidenza, scoprire, che il gioco più bello del mondo non è nato in Europa, come comunemente si crede, ma nell’America precolombiana, come sostengono invece da qualche tempo alcuni storici autorevoli che hanno approfondito le vicende travagliate della Compagnia di Gesù. Gli indios ‹‹solevano giocare al pallone, che, anche se di gomma piena, era così veloce e leggero che, una volta ricevuto il colpo, continuava a rimbalzare per un bel pezzo, senza fermarsi, spinto dal proprio peso. Non lanciavano la palla con le mani, come noi, ma con la parte superiore del piede nudo, passandola e ricevendola con grande agilità e precisione››. Questa testimonianza è riportata da un missionario gesuita spagnolo che descrive con grande precisione la pratica del gioco del pallone tra gli indios del Paraguay alcuni secoli fa.
Il racconto del padre Peramas si snoda fra la dolorosa espulsione dei gesuiti da Cordoba l’11 luglio 1767 e l’arrivo a Faenza il 27 settembre 1768, dopo un penoso peregrinare nelle città emiliane di Parma, Reggio, Modena e Bologna. Un racconto molto personale condito da espressioni di fine ironia, come nel passaggio da Sestri Levante: ‹‹Deus Italorum, non est Trinus, sed Quatrinus››, oppure ‹‹anche il suolo faentino si dimena e si dibatte per iscuotersi di dosso gli esuli Gesuiti›› riferito agli eventi sismici di quei primi mesi in terra romagnola. Verso la metà di settembre del 1768 cominciarono ad arrivare in Romagna questi esuli, a gruppi di cinquanta o sessanta alla volta. Secondo alcune cronache cittadine, arrivavano tanti di quei ‹‹perseguitati… che ne furono piene tutte le locande, e molti furono alloggiati dai vari signori nelle loro case, … si calcola che in quel tempo in Faenza fossero incirca 400 gesuiti…così male in arnese e macilenti, che destavano compassione››, numeri non dissimili sono indicati dai governatori delle città di Forlì (433-460) e di Rimini (318-350). Nelle principali città della Legazione di Romagna i gesuiti si distribuirono inizialmente secondo la provincia di appartenenza:
Nei primi giorni una parte dei nuovi venuti venne ospitata nel seminario vescovile mentre altri, compreso il Peramas, alloggiarono nel convento dei Servi. Dal mese di ottobre il conte Francesco Cantoni, fratello dell’arcivescovo di Ravenna mons. Antonio Gaetano, mise a disposizione dei gesuiti la propria villa di campagna “all’Isola” vicina al fiume Lamone, e un altro palazzo dentro la città. Il primo edificio fu destinato in gran parte agli studenti e il padre Peramas fu nominato professore di retorica dando avvio alle lezioni fin dai primi di novembre davanti a una scolaresca di oltre 60 giovani. Durante i primi anni il sacerdote si recava a dire messa a S. Maria in Broilo, detta anche della Baroncina, vicino a Porta da Ponte, dopo la soppressione dell’ordine nel 1773, il gesuita ottenne invece l’incarico di cappellano presso un convento di monache non ben specificato. In seguito al trauma della soppressione papale, i religiosi si unirono in piccole comunità, come quella composta da Peramas, Iturri, Villafane, Urrejola, Borrego, Cardiel, Juàrez, Aznar e alcuni altri. Essi vivevano uniti o in case vicine, dedicandosi a una vita di preghiera, di sacrifici e di studio volto a conservare la memoria dei compagni e della loro intensa esperienza missionaria. Durante il soggiorno faentino, prolungatosi per ben venticinque anni, il Peramas curerà e pubblicherà opere di vario genere e impegno.
Nella seconda parte il missionario ci offre la biografia di altri tredici ‹‹evangelici operai del Paraguay, tutti membri della Compagnia di Gesù››, dei quali si descrivono le gesta e lo zelo, il coraggio e la pazienza nell’affrontare pericoli e sostenere fatiche per portare il messaggio cristiano in terre così impervie e lontane (De vita et moribus tredecim virorum paraguaycorum). Nella prima parte invece l’autore sviluppa in numerosi capitoli un confronto articolato fra le istituzioni politiche e sociali delineate dal celebre filosofo greco nel dialogo politico La Repubblica e la realtà umana e sociale degli indios, i loro costumi e l’organizzazione amministrativa della popolazione guaranì del Paraguay.
La testimonianza di Peramas sull’antica pratica del gioco del pallone presso le popolazioni paraguayane non è isolata, essa è rafforzata da altre dichiarazioni, come quelle del confratello padre Josè Cardiel, che aveva esplorato e descritto la terra del Paraguay, prima del suo esilio in Romagna che si protrasse fino alla morte avvenuta a Faenza nel 1781; come pure dalle attestazioni del padre Antonio Ruiz de Montoya che il gioco del calcio era già praticato dagli indios ancora prima dell’arrivo dei missionari. Infine a coronamento di questa breve raccolta di testimonianze, mi sembra utile citare la descrizione più articolata del gesuita naturalista spagnolo Ramon Maria de Termeyer (1738-1814, vissuto anch’egli a Faenza per alcuni anni) relativa all’albero della gomma elastica o Mangaici. Il missionario, in uno dei suoi opuscoli naturalistici di Storia naturale americana, afferma che i guaranì estraggono dalla corteccia dell’albero un umore lattiginoso che poi raccolgono in recipienti; quando l’umore si condensa, perde fluidità e diventa una resina o gomma molle e rossigna, che si plasma assumendo forme diverse (bottiglie, stivali, siringhe, palle grandi e piccole di un’elasticità sorprendente). ‹‹I Guaranì… ne formano palle d’ogni grandezza, onde giuocare, che era uno dei loro divertimenti al dopo pranzo dei giorni festivi, finite che erano le funzioni ecclesiastiche. In Europa sarà una novità il sapere in quale modo gl’indiani Guaranì, ed i Ciquitos giuocavano alla palla. Niuno si serviva delle mani onde sbalzarla con gran magistero ai compagni di partita. I primi la sbalzavano col collo del piede, ed i secondi con gli omeri, a distanza non indifferente, e ne corrispondevano quelli del partito opposto con eguale destrezza, e non altramenti; per qualunque accidente opposto succedesse, n’era sempre un fallo››. Articolo correlato nel sito: Il prete che vide giocare gli inventori del calcio di Giuliano Bettoli - Miro Gamberini |
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