Il gioco del calcio tra gli indios guaranì nelle memorie di alcuni gesuiti spagnoli esuli a Faenza

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Il gioco del calcio tra gli indios guaranì
nelle memorie di alcuni gesuiti spagnoli esuli a Faenza

di Giuseppe Dalmonte

Pubblicato sul mensile "In Piazza", aprile 2014, testo in parte rivisto e integrato


Singolare coincidenza, scoprire, che il gioco più bello del mondo non è nato in Europa, come comunemente si crede, ma nell’America precolombiana, come sostengono invece da qualche tempo alcuni storici autorevoli che hanno approfondito le vicende travagliate della Compagnia di Gesù. Gli indios ‹‹solevano giocare al pallone, che, anche se di gomma piena, era così veloce e leggero che, una volta ricevuto il colpo, continuava a rimbalzare per un bel pezzo, senza fermarsi, spinto dal proprio peso. Non lanciavano la palla con le mani, come noi, ma con la parte superiore del piede nudo, passandola e ricevendola con grande agilità e precisione››. Questa testimonianza è riportata da un missionario gesuita spagnolo che descrive con grande precisione la pratica del gioco del pallone tra gli indios del Paraguay alcuni secoli fa.

Pianta del villaggio fortificato della “Beata Vergine di Candelaria” tratto dall’opera di Peramas del 1793.
Infatti, i giovani indios guaranì delle Riduzioni o Missioni gesuite del Paraguay nel Settecento si divertivano con una palla di gomma leggera ed elastica tirandosela con i piedi e non con le mani, come solevano fare altrove. Va ricordato che in quel periodo vivevano nei villaggi organizzati dai gesuiti secondo un modello comunitario, detti Reducciones, circa centocinquanta mila indios cristiani. Il testimone attento e preciso di questa popolare attività sportiva è un gesuita catalano, padre José Manuel Peramas, nato a Matarò nel 1732, che si è formato nel noviziato di Tarragona sulle lingue classiche diventando un eccellente latinista, ha studiato filosofia a Saragozza prima di partire per le missioni in Sudamerica. A 23 anni è destinato alle Missioni dei Gauranì, ma dopo l’arrivo a Buenos Aires, prima comincia a studiare teologia a Cordoba poi viene ordinato sacerdote, infine parte per la missione. Il gesuita trascorre alcuni anni della sua vita pastorale in una delle trenta Riduzioni sparse per il Paraguay, vivendo con passione e dedizione la condizione di una popolazione minacciata dalla schiavitù e dall’oppressione coloniale, nella zona a sud della città di Asuncion, com’è stata illustrata efficacemente nel celebre e drammatico film Mission. Dopo questa vitale esperienza ritorna a insegnare letteratura e teologia morale al Collegio universitario di Cordoba fino a quando non viene arrestato ed espulso dal governo. Infatti, nel 1767, in seguito ai decreti di espulsione del monarca spagnolo Carlo III contro i gesuiti, è costretto ad abbandonare per sempre il Sud America insieme a tanti confratelli missionari, e dopo un lungo e penoso viaggio durato vari mesi, raccontato ne Il diario dell’esilio, approda prima a Cadice, poi in Corsica, infine a Genova.

Il racconto del padre Peramas si snoda fra la dolorosa espulsione dei gesuiti da Cordoba l’11 luglio 1767 e l’arrivo a Faenza il 27 settembre 1768, dopo un penoso peregrinare nelle città emiliane di Parma, Reggio, Modena e Bologna. Un racconto molto personale condito da espressioni di fine ironia, come nel passaggio da Sestri Levante: ‹‹Deus Italorum, non est Trinus, sed Quatrinus››, oppure ‹‹anche il suolo faentino si dimena e si dibatte per iscuotersi di dosso gli esuli Gesuiti›› riferito agli eventi sismici di quei primi mesi in terra romagnola.


Verso la metà di settembre del 1768 cominciarono ad arrivare in Romagna questi esuli, a gruppi di cinquanta o sessanta alla volta. Secondo alcune cronache cittadine, arrivavano tanti di quei ‹‹perseguitati… che ne furono piene tutte le locande, e molti furono alloggiati dai vari signori nelle loro case, … si calcola che in quel tempo in Faenza fossero incirca 400 gesuiti…così male in arnese e macilenti, che destavano compassione››, numeri non dissimili sono indicati dai governatori delle città di Forlì (433-460) e di Rimini (318-350). Nelle principali città della Legazione di Romagna i gesuiti si distribuirono inizialmente secondo la provincia di appartenenza:


Città della Legazione di Romagna

Provincie Gesuitiche

Popolazione Censimento 26/3/1769

 Ravenna

Quito e parte del Paraguay

12951

 Rimini

Andalusia

10108

 Cesena


6950

 Forlì

Toledo

10857

 Faenza

Paraguay e parte di Quito

13059

 Imola

Cile

7611


Nei primi giorni una parte dei nuovi venuti venne ospitata nel seminario vescovile mentre altri, compreso il Peramas, alloggiarono nel convento dei Servi. Dal mese di ottobre il conte Francesco Cantoni, fratello dell’arcivescovo di Ravenna mons. Antonio Gaetano, mise a disposizione dei gesuiti la propria villa di campagna “all’Isola” vicina al fiume Lamone, e un altro palazzo dentro la città. Il primo edificio fu destinato in gran parte agli studenti e il padre Peramas fu nominato professore di retorica dando avvio alle lezioni fin dai primi di novembre davanti a una scolaresca di oltre 60 giovani. Durante i primi anni il sacerdote si recava a dire messa a S. Maria in Broilo, detta anche  della Baroncina, vicino a Porta da Ponte, dopo la soppressione dell’ordine nel 1773, il gesuita ottenne invece l’incarico di cappellano presso un convento di monache non ben specificato. In seguito al trauma della soppressione papale, i religiosi si unirono in piccole comunità, come quella composta da Peramas, Iturri, Villafane, Urrejola, Borrego, Cardiel, Juàrez, Aznar e alcuni altri. Essi vivevano uniti o in case vicine, dedicandosi a una vita di preghiera, di sacrifici e di studio volto a conservare la memoria dei compagni e della loro intensa esperienza missionaria. Durante il soggiorno faentino, prolungatosi per ben venticinque anni, il Peramas curerà e pubblicherà opere di vario genere e impegno.


Villa Cantoni all'Isola.
Durante il Carnevale del 1774 l’abate Giuseppe Peramas compose e stampò due epigrammi latini in occasione di una giostra durante la quale vari cavalieri faentini si sfidarono sulla piazza, ‹‹tre dei quali sosteneranno la Nazione Tedesca, tre la Spagnuola, vinsero questi cioè li Spagnuoli››. Nel 1787 presso la stamperia di Ludovico Genestri il gesuita pubblicherà un carme epico per celebrare l’entrata a Faenza del nuovo vescovo Domenico Mancinforte, membro dello stesso ordine, che poi avrà a che fare con gli sconvolgimenti napoleonici. Invece presso il più celebre stampatore faentino Archi il nostro abate curerà la pubblicazione di tre opere in latino più articolate e complesse: un poema in tre libri sulla scoperta del Nuovo Mondo (De invento Novo Orbe) nel 1777, nel 1791 le biografie di sei sacerdoti gesuiti impegnati in Paraguay, introdotte da un prologo che offre una descrizione sommaria della provincia paraguayana e delle varie attività svolte dai missionari (De vita et moribus sex Sacerdotum Paraguaycorum). Infine nel 1793 uscirà dalla stessa tipografia, a pochi mesi dalla morte del gesuita avvenuta il 23 maggio, l’opera sua più studiata e più citata, ma anche quella più complessa per il confronto diretto tra l’esperienza missionaria vissuta con la popolazione indigena e il pensiero politico di Platone. Infatti, questo libro si compone di due parti.

Nella seconda parte il missionario ci offre la biografia di altri tredici ‹‹evangelici operai del Paraguay, tutti membri della Compagnia di Gesù››, dei quali si descrivono le gesta e lo zelo, il coraggio e la pazienza nell’affrontare pericoli e sostenere fatiche per portare il messaggio cristiano in terre così impervie e lontane (De vita et moribus tredecim virorum paraguaycorum). Nella prima parte invece l’autore sviluppa in numerosi capitoli un confronto articolato fra le istituzioni politiche e sociali delineate dal celebre filosofo greco nel dialogo politico La Repubblica e la realtà umana e sociale degli indios, i loro costumi e l’organizzazione amministrativa della popolazione guaranì del Paraguay.




A sinistra frontespizio del volumetto di Raimondo Maria de Termeyer. A destra, frontespizio del volumetto di José Manuel Peramas.

La testimonianza di Peramas sull’antica pratica del gioco del pallone presso le popolazioni paraguayane non è isolata, essa è rafforzata da altre dichiarazioni, come quelle del confratello padre Josè Cardiel, che aveva esplorato e descritto la terra del Paraguay, prima del suo esilio in Romagna che si protrasse fino alla morte avvenuta a Faenza nel 1781; come pure dalle attestazioni del padre Antonio Ruiz de Montoya che il gioco del calcio era già praticato dagli indios ancora prima dell’arrivo dei missionari. Infine a coronamento di questa breve raccolta di testimonianze, mi sembra utile citare la descrizione più articolata del gesuita naturalista spagnolo Ramon Maria de Termeyer (1738-1814, vissuto anch’egli a Faenza per alcuni anni) relativa all’albero della gomma elastica o Mangaici. Il missionario, in uno dei suoi opuscoli naturalistici di Storia naturale americana, afferma che i guaranì estraggono dalla corteccia dell’albero un umore lattiginoso che poi raccolgono in recipienti; quando l’umore si condensa, perde fluidità e diventa una resina o gomma molle e rossigna, che si plasma assumendo forme diverse (bottiglie, stivali, siringhe, palle grandi e piccole di un’elasticità sorprendente). ‹‹I Guaranì… ne formano palle d’ogni grandezza, onde giuocare, che era uno dei loro divertimenti al dopo pranzo dei giorni festivi, finite che erano le funzioni ecclesiastiche. In Europa sarà una novità il sapere in quale modo gl’indiani Guaranì, ed i Ciquitos giuocavano alla palla. Niuno si serviva delle mani onde sbalzarla con gran magistero ai compagni di partita. I primi la sbalzavano col collo del piede, ed i secondi con gli omeri, a distanza non indifferente, e ne corrispondevano quelli del partito opposto con eguale destrezza, e non altramenti; per qualunque accidente opposto succedesse, n’era sempre un fallo››.



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