I mulini ad acqua delle nostre colline
di Gilberto Casadio
articolo tratto da:
"la Ludla", Anno XXI • Maggio 2017 • n. 4 (177°)
Lo scopo di
questo articolo, che descrive sommariamente la struttura di un mulino
ad acqua e le operazioni di molitura, è quello di illustrare alcuni
termini tecnici dell’arte molitoria. I vocaboli si riferiscono all’area
della collina faentina ed in particolare alla parlata della valle del
Marzeno.
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Il mulino
I mulini della
collina faentina erano nella quasi totalità del tipo a ritrécine, cioè
con la ruota a pale orizzontale, che trasmetteva direttamente il moto
alla macina senza bisogno di ingranaggi altrimenti indispensabili con
ruota a pale verticale. Le mole erano costituite in genere da due
grosse pietre di granito del diametro di circa un metro e mezzo. La
mola inferiore (detta fondo della macina o mola dormiente) era
ovviamente fissa e con la faccia superiore leggermente convessa. Al
centro si trovava un foro nel quale passava l’albero rotante di legno
fissato al disco superiore: il coperchio della macina o mola
propriamente detta. La mola presentava nella faccia inferiore una
leggera concavità, corrispondente alla convessità del fondo della
macina. Le superfici delle mole che si sfioravano durante la
macinazione erano zigrinate e fornite di piccoli solchi ricurvi che si
dipartivano a raggiera dal centro per favorire la fuoruscita laterale
del macinato.
Circa ogni sei
mesi occorreva ‘battere la macina’ cioè ridare rugosità alle facce
interne delle mole, divenute lisce per l’attrito. Per potere fare
questo, la mola superiore veniva afferrata con due ganasce (al ciev dla
mesna), sollevata e spostata per mezzo di una gru. Per la
‘battitura’ si adoperavano martelli di varie forme: picon, bocerda,
martlena. Al perno della mola superiore era fissato – come detto – un
lungo albero di legno che si prolungava nella cavità sotto il pavimento
del mulino. Nella parte terminale dell’albero era infisso un grosso
cavicchio di metallo metallo (gonfle) che poggiava con un perno
(puntera) sull’incàvo della bronzina: un blocco in lega
metallicadurissima alloggiato in una ‘cassetta’ posta al centro di
una trave orizzontale. Sopra al perno si trovava il ritrécine
(rodesne), la ruota con inserite le pale (peli) in legno a forma di
cucchiaio che, sotto la spinta dell’acqua, entravano in rotazione
facendo girare la mola. L’acqua giungeva al mulino per mezzo di un
canale (botazz) derivato da uno dei fiumi o torrenti della zona. Per
mettere in movimento le macine, il mugnaio, azionando una leva, apriva
la saracinesca (sarasena) del bottazzo per consentire all’acqua di
scendere lungo il condotto sotterraneo e mettere in moto il ritrécine.
Assolta la sua funzione, l’acqua riprendeva il suo corso lungo un
canale che la riportava al fiume. |
Schema del mulino ad acqua con pale orizzontali. Dall’alto: la
tramoggia con il coppo, le due mole, l’albero con in fondo le pale
investite dall’acqua che precipita dal bottazzo. Attraverso la manovella
che si vede sulla sinistra, la grossa trave su cui poggia l’albero era
regolabile in altezza per calibrare la distanza fra le due mole in
funzione del grado di raffinatezza del macinato che si voleva ottenere.
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La
mola superiore sollevata con “al ciev dla mesna” per procedere al
rifacimento della zigrinatura delle superfici che si sfiorano durante
la macinazione.
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“Battitura” della macina con l’apposito martello.
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La molitura
La molitura avveniva versando le granaglie nella tramoggia (traméza),
un grande imbuto di legno a forma di tronco di piramide
rovesciata. Alla bocca inferiore della tramoggia era appeso il
coppo (chépp): un’assicella
in grado di regolare ed indirizzare il flusso del cereale nel foro
praticatonella mola superiore. La macina era protetta dal cassone (casson),
un’armatura di legno per impedire alla farina di fuoriuscire con
violenza per effetto della rotazione della pietra. Una piccola apertura
rettangolare, in genere protetta da una tendina di stoffa, consentiva
alla farina di cadere nel recipiente sottostante (matrezz). Per separare la farina dalla crusca, il macinato veniva setacciato con il frullone o buratto (buratt).
Il buratto consisteva in un cassone di legno, simile ad una madia, al
cui interno c’era il buratello, un cilindro cavo leggermente inclinato
formato da un’asta di legno centrale fissata su perni con stecche a
raggiera che reggevano dei cerchi. Su questi era fissata una tela che
costituiva l’involucro esterno del cilindro e diventava sempre meno
fitta man mano che ci si avvicinava all’estremità inferiore. Da
un’apertura in alto veniva versato il macinato da setacciare e si
faceva ruotare il buratello con una manovella o una puleggia: la farina
cadeva setacciata in fondo al buratto, più o meno raffinata a seconda
della densità della trama della tela. Si andava così da quella più fine
(il fiore) utilizzata per i dolci, a quella meno raffinata per il pane;
all’esterno del buratto usciva la crusca (rémul).

Sopra, il ritrecine (rodesne) con infisse le pale a forma di cucchiaio che,
sotto la spinta dell’acqua, ruota mettendo in movimento la mola superiore.
A lato, interno del mulino di san Martino in un disegno di Romolo Liverani.
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bocérda, s.f. ‘Bocciarda’. Martello con la testa munita di punte piramidali usato per zigrinare le pietre.
• Dal francese boucharde, a sua volta da bocard per influsso di bouche ‘bocca, cioè testa del martello’. Alla base c’è il tedesco pochen ‘bussare, battere, frantumare’.
botazz, s.m.
‘Bottaccio’. È l’invaso in cui si raccolgono le acque destinate ad
alimentare il mulino. Può essere semplicemente costituito da un canale
derivato dal fiume.
• Dal latino tardo butte ‘botte’ con il suffisso accrescitivo -aceu.
buratt, s.m. ‘Buratto, frullone’. Cassone di legno per setacciare la farina.
• Probabilmente da un termine latino *bura ‘stoffa’, perché è attraverso la trama di una tela che la farina viene separata dalla crusca.
casson, s.m. ‘Cassa’. Armatura in legno della macina.
• Dal latino capsa ‘cassa’ con il suffisso accrescitivo -one.
chépp, s.m. ‘Coppo,
cassetta’. Assicella concava che, sospesa con cordicelle al fondo della
tramoggia, regola ed indirizza il flusso del cereale alla macina
.• Dal latino medievale cuppu ‘tegolo, coppo’, per la forma.
chéppla, s.f.
‘Còppola, bòzzolo’. Il termine indica un’antica misura per cereali ed
il relativo recipiente a forma cilindrica con manico. La chéppla
corrispondeva alla quantità di farina dovuta al mugnaio quale compenso
della macinatura di ogni sacco di grano. Nella collina faentina la
chéppla aveva in genere una capacità di circa 1,8 litri, cioè 5 libbre
faentine (1 libbra = 0,36 chilogrammi). Secondo gli Statuti faentini
del 1523, cinque libbre era il pesodella farina che spettava al mugnaio
per ogni corba macinata (1 corba = 150 libbre = 54 chilogrammi).
• Latino tardo cuppa ‘coppa’ con il suffisso -ula. Letteralmente ‘coppetta’.
garnadëll, s.m. ‘Scopino di saggina’
• Diminutivo di ‘granata’ (dial. garnéda). Così detto per via dei semi, a forma di granelli, rimasti attaccati alla pannocchia essiccata di saggina con cui è fatto.
gónfle, s.m.
Cavicchio di metallo infisso nell’estremità inferiore dell’albero o
palo rotante del mulino. Nella capocchia emisferica presenta un foro
nel quale viene alloggiata la puntera.
• Latino gomphu ‘grosso cavicchio a forma di cono’. Ricalcato sul greco gómphos
che, dal primitivo significato di ‘dente’, passa a quello di ‘chiodo,
perno’. Non è improbabile che il termine sia arrivato direttamente in
Romagna attraverso i Bizantini. Gonfle presuppone l’aggiunta del suffisso -ulu: *gomphulu.
matrézz, s.m. Cassa nella quale si raccoglie il macinato
.• Greco máktra ‘madia’ con il suffisso -iciu.
palarèna, s.f. Piccola pala di legno di forma rettangolare con impugnatura ad ansa, utilizzata per farina e granaglie.• Diminutivo di pala.
pela, s.f. ‘Pala’. Le pale sono fissate all’estremità inferiore dell’albero (rodesne) e lo fanno girare sotto la spinta dell’acqua. Sono a forma di cucchiaio in legno di quercia e sono state intagliate con la sapèta.
• Latino pala ‘pala’.
puntera, s.f. ‘Perno’.
• Derivato da punta.
remle, s.m. ‘Crusca’.• Dal latino *remolu derivato da*remolere, composto di molere ‘macinare’. Il vocabolo è diffuso in tutti i dialetti dell’Italia nord-orientale.
rodésne, s.m. ‘Ritrécine’. Parte inferiore dell’albero nel quale sono inseritele pale rotanti.
• Dal latino *rotacinu derivato da rota
‘ruota’. Il termine non attestato direttamente in latino è ricostruito
sulla base delle numerose derivazioni nelle lingue e nei dialetti
romanzi. Cfr. lo spagnolo rodezno ed il portoghese rodizio ‘ruota a pale’.
sapèta, s.f.
‘Ascia’. Attrezzo a forma di zappa, con lama tagliente rivolta verso il
corto manico, usato dai falegnami e dai carpentieri per intagliare il
legno.
• Diminutivo del dialetto sapa ‘zappa’ per via della forma.
sarasèna, s.f. ‘Cateratta, saracinesca’. Apparecchiatura per aprire e chiudere il flusso delle acque di un canale.
• Da (porta) saracina, perché il suo impiego si ritiene sia stato introdotto dai Saraceni.
sdazz, s.m.
‘Setaccio’. Attrezzo di forma circolare costituito da una fitta rete di
fili metallici usato per separare piccole quantità di farina dalla
crusca.
• Latino medievale saetaciu, da saeta ‘setola, crine’ perché in origine i setacci erano fatti con crini di cavallo.
stér, s.m. ‘Staio’.
Antica misura di capacità per aridi (cereali, legumi ecc.) diversa da
zona a zona. In area faentina lo staio equivaleva a circa 35 litri.
• Dal latino sextariu ‘sesta parte’ di una misura.
traméza, s.f.
‘Tramoggia’. Imbuto a forma di tronco di piramide rovesciata, sospeso
sopra la macina, nel quale si versano le granaglie da macinare.
• Latino trimodia ‘che contiene tre moggi’. Nell’antica Roma il moggio era una misura di capacità per aridi di circa 8,75 litri.
vibradór, s.m. ‘Nòttolo’. Bastoncino di legno legato alla cassetta (e’ chépp) con un’estremità, mentre con l’altra striscia sulla macina facilitando la caduta del grano nel foro.
• Da vibrare, perché la macina girandolo scuote continuamente.
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