La prostituzione nei secoli a Faenza

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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La prostituzione nei secoli a Faenza

Miro Gamberini - Vittorio Maggi


La prostituzione o meretricio è da sempre stata definita, secondo  il luogo comune, il mestiere più antico del mondo. In periodi diversi della storia le esercenti furono chiamate inizialmente “meretrici” poi con un po’ d’ipocrisia “donne di vita”, successivamente la definizione si inasprì e divennero “donne di malaffare” e infine con una forma appena accettabile furono chiamate “prostitute”.Nel 1998 in Grecia fu scoperto il bordello più antico del mondo, che risaliva al II secolo a.c. dove fu rinvenuta una grande quantità di oggetti erotici fra i quali diverse statue di organi maschili di varie dimensioni.Ma se la Grecia può vantarsi di aver avuto il primo postribolo del mondo, scopro che Faenza sembra essere stata la prima città italiana a dotarsi, nel 1497, di uno statuto contenente le regole sulla prostituzione.


 Particolare di via Marescalchi nel Medioevo, disegno tratto dal
 libro di 
Veniero Casadio Strozzi, "Osterie Locande e Casini".

Lo afferma il medico di Vicenza, Domenico Thiene, nel suo libro “Sulla storia de’ mali venerei” del 1823, “Intorno al libero esercizio dell’arte meretricia”.
“Ordinemo, volemo e comandemo che tutte le meretrici giunte in città per esercitare la loro arte debbano presentarsi entro tre ore all’autorità preposta… se sono sane e non sia meretrice alcuna che osi servire nel tempo della sua infirmità, sub pena di essere mandata al rogo”. Al momento della registrazione aveva l’obbligo di pagare due bolognini se sola, quattro se accompagnata da un ruffiano. Già nel 1410 gli Statuta Faventinorum stabilirono che le meretrici non potessero abitare a meno di 12 pertiche da luoghi di culto. La zona della città che viene indicata è nei pressi della chiesa di S. Simone (oggi  in piazza delle “erbe”) all’epoca così nota che fu ribattezzata “luogo di donne”. “Domus ad usum hospitii et postriboli”. In tre atti notarili del 1511, 1512 e 1517 si apprende che altre meretrici da lunghi anni abitavano in via Marescalchi vicino a S. Simone : “D. Catherina olim Joannis de mutina meretrix et habitatrix in civitate faventiae in cap. S. Simonis, bustina olim Bernardi… de Tarvisio meretrix habitatrix in civitate faventiae in cap. S.Crucis (angolo via Torricelli-corso Matteotti) e Joanna olim Nicolai alias la zoppa  patavina meretrix de cap.S. Simonis de faventiae”.

Alla signoria dei Manfredi successe il dominio della chiesa, ma le cose non mutarono ugualmente. Negli Ordinamenta del 1527 si parla di meretrici cui è concesso di abitare esclusivamente nei postriboli e che per circolare per strada dovevano dotarsi di un velo e di un cestello.Finalmente nel 1557 il Consiglio Generale incarica il Governatore di reperire in città un luogo segregato per spostare dal centro le meretrici affinché non si confondano con le donne oneste.Fu scelto il luogo chiamato “la Volta” (attuale via Minardi ) dove già erano altre meretrici e dove le donne avrebbero avuto l’obbligo di risiedere secondo il Municipio.Bisogna sapere che fin dal 1542, in Porta Montanara (oggi zona Palazzo Tassinari), quindi non molto lontano dalla “Volta”, alcune case di proprietà dell’Hospitale maggiore erano state assegnate alle donne che avevano abbandonato il meretricio e si erano convertite dal “peccato di Dio”.



Il loro trasferimento non fu affatto semplice: infatti in occasione delle adunanze consiliari del 3 ottobre 1558 e del 25 aprile 1559 ancora non era avvenuto, mentre veniva riconfermata la volontà di rimuovere le pubbliche meretrici dalle vie Torricelli e Marescalchi e di raggrupparle in Porta Montanara. Un rogito del 25.09.1561 recita “D. Maria olim Dominaci della fiorentina et uxor Bartholomei de Perugina meretrix de cap.S. Laurenti de faventiae habitatrix in via nuncupata la Volta…” e un altro del 17.11.1567 “D.Dominica meretrix alias nuncupata la stefilina olim Gasparis de paganellis de cap.S.Laurenti de Faventiae in strata fui dicitur la Volta”. Nonostante i numerosi decreti il Comune non riuscì a portarle fuori dal centro; infatti nel 1579 viene ancora menzionata una meretrice in via Marescalchi denominata all’epoca “della Pesa”, “D. Seraphina qd.Alexandri de Bressanis de Forlivio ad praesent in lupanario civitatis faventiae habitatrix”. Anche allora la professione di meretrice aveva lo scopo di togliersi da una situazione di povertà e disagio e anche allora come oggi c’erano buone persone che si prestavano per aiutarle; Lodovica di Nicolò Cenni gentildonna faentina con testamento del 7.7.1582 (notaio Giulio Cesare Salvioni) destinava parte dei suoi beni per togliere dalla strada “povere donzelle e collocarle in onesto matrimonio”.



Prostituta condotta al rogo.
Fustigazione di una prostituta.


Il Governo Pontificio, pur non ammettendo il nascere di nuovi postriboli,  lanciò una massiccia campagna contro la prostituzione, ma osterie e locande continuarono ad offrire lavoro per le meretrici. Il  24° Sinodo del 15.10.1615 ribadì che gli osti e i locandieri che ospitavano delle meretrici sarebbero stati multati con 10 monete d’oro la prima volta; pene maggiori venivano prescritte alle donne sorprese nell’esercizio durante il Natale, la Pasqua e la Quaresima. Il 27° Sinodo (4.7.1647) e il 28° (7.10.1649) nell’intento di arginare il fenomeno confermarono le medesime pene ma stabilirono che a donne e ruffiani fosse vietato l’accesso ai luoghi di culto e vietato l’alloggio in albergo per più di un giorno.Tipico della situazione di precarietà e povertà in cui vivevano queste donne appare il caso di una meretrice del Seicento che affermava con disinvoltura che “sfamava la bocca di sopra con la bocca di sotto”.



Tiziano. "Concerto campestre". Parigi, Museo del Louvre.
Edouard Manet: "La colazione sull'erba". Parigi, Museo d'Orsay.

Nel 1685 agli atti dell’Archivio Vescovile viene citata in una storia di adulterio una meretrice famosa “La manona” e nel 1694 alcuni cittadini vengono processati perché sorpresi a letto con amanti o meretrici, ma anche sacerdoti cadono nelle stesse tentazioni e vengono puniti. Con il 39° Sinodo del Vescovo Cantoni (26.06.1748) alle solite pene vengono aggiunte la fustigazione (ossia frustate) e l’esilio per le donne sorprese con un chierico o un uomo sposato. Al 1846 è legato un rapporto dell’Ente Ecclesiastico faentino sul meretricio e sulle donne vedove incinte. Dagli atti si ha la netta impressione che l’immoralità fosse assai diffusa sia nella vita familiare sia nei locali pubblici. Specialmente le numerosissime osterie che si frequentavano o per la ristrettezza delle proprie abitazioni o per la mancanza di passatempi divennero la valvola di sfogo di uomini e donne. Si ha l’impressione di una vita sessuale dissoluta. Nel 1850 continuando la lotta contro la prostituzione, lo Stato Pontificio promulgò altri decreti: se le meretrici venissero scoperte dopo essere state già ammonite e continuassero ancora verrebbero sottoposte a processo e condannate alla prigione, se fossero state trovate ammalate verrebbero collocate all’ospedale per le cure necessarie. Nelle prigioni femminili le visite mediche erano periodiche e purtroppo spesso si facevano nello stesso locale dove si trovavano ragazzine più giovani arrestate con altre imputazioni. Nel 1852 una segnalazione avverte che le femmine che escono dal Brefotrofio degli Esposti spesso finiscono dedite al vizio, non a caso almeno quattro di queste ogni anno vengono incarcerate. Prendendo esempio dalla vicina Francia, paese maestro di raffinatezze, liberalità e perdizioni erotiche, era stato l’austero Piemonte di Cavour a introdurre per primo il “meretricio di stato”, così sul modello di quanto già esisteva dai tempi di Napoleone, in esecuzione dell’art. 119 della legge del 13.11.1859 sulla Pubblica Sicurezza e l’art. 63 per l’esecuzione di essa, con Reale Decreto in data 8.1.1860, veniva approvato il regolamento sulla prostituzione.



 Pablo Picasso. "Les Demoiselles d'Avignon". MoMa di New York.
 Cinque prostitute in un bordello di Calle Avignon, a Barcellona.
Il regolamento che consta di ben 80 articoli si occupava di ogni aspetto; fissava i prezzi degli incontri a seconda della qualità dei bordelli che furono divisi in tre categorie, fissava i compiti dei medici incaricati delle periodiche visite sanitarie, dettava i doveri cui dovevano sottostare le meretrici per poter esercitare la professione e quali caratteristiche, autorizzazioni e obblighi occorrevano per aprire un postribolo in regola. Il Tribunale o l’Ufficio Sanitario si facevano garanti per eventuali controversie che fossero insorte fra meretrici e tenenti-postribolo.
Era assolutamente proibito ammettere donne con meno di 16 anni mentre il provento del meretricio spettava nei postriboli di 1a categoria per ¾  al tenente postribolo e per ¼ alla meretrice, nella seconda categoria spettavano 2/3 alla prostituta e 1/3 al tenente-postribolo. Il riparto dell’introito veniva effettuato ogni 15 giorni. Nel 1871 il Ministro Urbano Rattazzi con un decreto ministeriale aveva stabilito che un “colloquio semplice” doveva durare 20 minuti.
In Italia nel 1875 una statistica registrava 9.098 meretrici di cui il 13% erano sposate e il 75% aveva meno di 30 anni. Oltre ¼ di queste ragazze era stato alla dipendenza di uomini benestanti che le avevano violentate e abbandonate. Ovviamente l’84% era analfabeta.Nel 1881, sempre a livello nazionale, vengono censiti 873 postriboli, 377 di 2a categoria e 496 di 1a. A Faenza con il censimento della popolazione del 1881 vengono censite 21 prostitute, 4 in più del 1871 e accertati 31 casi di sifilide di cui 8 maschili e 36 uretriti.
Nel 1881 sempre a livello nazionale vengono censiti 873 postriboli, 377 di 2a categoria e 496 di 1a. Si riapriva fortemente così il dibattito sul fenomeno del meretricio e il 26.08.1883 fu nominata una commissione per lo studio delle questioni relative alla prostituzione e agli eventuali provvedimenti per l’igiene pubblica. La commissione terminò i lavori due anni dopo e dalla loro relazione sortirono due decreti dal Governo Crispi il 29.03.1888 contenenti il “Regolamento sulla profilassi e sulla cura delle malattie sifilitiche” e il “Regolamento sulla prostituzione”.


Rispetto al precedente regolamento, veniva istituito un controllo non più incentrato sulle singole meretrici ma sulla sorveglianza igienica dei locali pena la chiusura del bordello. Venivano aboliti gli Uffici Sanitari sostituiti con Dispensari Pubblici. In tali organismi la consultazione era gratuita e si offrivano “le maggiori facilitazioni per la cura delle malattie sifilitiche e veneree”. Al posto dei sifilicomi la normativa prevedeva apposite sezioni dermosifilopatiche in quegli ospedali civili dove mancavano. Le prostitute venivano definite “pensionanti” e il limite di età per esercitare veniva elevato a 21 anni. Il regolamento sulla prostituzione prevedeva che chi voleva aprire un postribolo era tenuto, almeno 8 giorni prima, a dichiarare all’autorità di pubblica sicurezza l’indicazione della casa e il numero delle stanze, nonché l’elenco e le generalità delle meretrici e delle altre persone addette al servizio del postribolo. Doveva inoltre anche essere fornita una dichiarazione del proprietario dell’immobile nella quale lo stesso consentiva “l’uso della casa a scopo di prostituzione”. Nascevano di fatto le cosiddette Case di tolleranza. Nel 1891 il Ministro dell’Interno Giovanni Nicotera riscosse ampi consensi popolari quando decise di dimezzare il prezzo di un “semplice trattenimento” in una casa di terza classe. Il prezzo era 2 lire, troppo alto, un operaio guadagnava 3 lire al giorno e così molti ricorrevano alla prostituzione libera senza alcun controllo sulle malattie veneree, così il prezzo scese a 1 lira, 50 centesimi per i militari e 70 centesimi per i sottoufficiali. Naturalmente fu alzato il prezzo per i bordelli di lusso.




Illustrazione di Hermann Vogel per "L'Assiette au Beurre".
Henri de Toulouse Lautrec. "Au Salon de la Rue des Moulins".

A proposito della prostituzione libera, sempre nel 1891, il Comandante del Presidio locale di Faenza della Prefettura lamentò “un numero straordinario di soldati ammalati di mal venereo” e nel dubbio che essi si fossero procurati l’infezione nei pubblici postriboli chiedeva una visita straordinaria alle meretrici. Con lo spostamento verso ovest della nuova Stazione ferroviaria attorno alla quale il P.R.G. dell’ing. Giuseppe Tramontani prevedeva un massiccio concentramento di nuove abitazioni, via Terranova, che accoglieva sei case di tolleranza, venne a trovarsi troppo vicina alla nuova zona di espansione della città e si cominciò a studiare dove trasferirle. Scoppiato il primo conflitto mondiale, il rapporto fra prostituzione e malattie veneree tornò di attualità per la diffusione della sifilide tra le truppe. Così il decreto legge del 22.8.1915 attribuiva ai Prefetti la facoltà di procedere d’autorità all’accertamento e cura delle malattie infettive, intensificando le visite e isolando le prostitute, autorizzate o clandestine, che risultavano ammalate. I medici dell’esercito provvedevano a tenere sotto stretto controllo sanitario i vari postriboli militari funzionanti.All’inizio del Novecento, l’Ufficio di Polizia ed Igiene di Faenza comunica che la diffusione delle malattie veneree è preoccupante e sta sfuggendo ad ogni controllo, in via Terranova le meretrici “stanno continuamente sulla porta loro a ciarlare e a chiamare i passanti mettendo talvolta in mostra le bellezze non sempre troppo fresche” per cui si propone “…che le prostitute le quali ora sono una per ogni casa in circa 20 case di tolleranza siano invitate a riunirsi e che le case non siano più di 3 o 4 e cioè una da lire 2, una da lire 1 e due da lire 0,50 per marchetta a seconda del livello professionale”. Così nel 1916 vennero presi duri provvedimenti per rendere più semplice e veloce la visita sanitaria, ma soprattutto allo scopo di allontanare dal lavoro le prostitute infette. Per questo il Prefetto chiedeva che la visita fosse obbligatoria per le professioniste schedate e anche a quelle clandestine, visto il diffondersi delle malattie celtiche alle truppe dislocate a Faenza e in tutta la Provincia.

Ovviamente non tutta l’opinione pubblica vedeva di buon occhio le case di tolleranza, così nel 1919 ripartì con maggiore intensità una crociata per la loro chiusura condotta da Filippo Turati. Nel 1933 sono incaricati come medici visitatori delle case i dottori Giovanni Zucchini e Angelo Lama; quest’ultimo verrà sostituito il 10.4.1935 dal Dott. Luigi Laghi. Il dott.Zucchini il 10.5.1940 faceva presente che le prostitute clandestine in città superano quelle ospiti nelle case di tolleranza (20 contro 7) ed è fra queste che si riscontrano più frequentemente le malattie veneree.   Nel frattempo nel 1935 si era sparsa in città la notizia che la Prefettura stesse cercando di delocalizzare le case chiuse esistenti e di spostarle da via Terranova in diversi punti della città. Si scatenò un putiferio e il Comune fu subissato di lamentele e interminabile corrispondenza di famiglie e soprattutto di parroci. Fu proposto di spostare le sei case esistenti in via Terranova, una in via Maioliche, una nei pressi di via Laghi, una nel vicolo Montini e le altre in via Mura Torelli, via Della Valle e in Borgo. Contro la casa in via Della Valle si sollevò un comitato composto da tutto il sobborgo Marini di Porta Ravegnana, guidato dal parroco di S. Marco don Agostino Francesconi, mentre contro quella di via Mura Torelli il Direttore dei Salesiani.
A seguito di queste continue lamentele il Comune alla fine del 1935 si disimpegnò limitandosi a fare alcune raccomandazioni all’Autorità di P.S. ma di fatto aveva tacitamente rinunciato al trasferimento immediato così le case non si spostarono fino all’ultimo conflitto mondiale. Passata la guerra, tra il 1945-46 la prima casa di tolleranza che si aprì fu in via Laderchi, nell’attuale Casa delle Associazioni, pare per iniziativa di un ex fascista quando ancora in città erano presenti le truppe alleate; a seguire se ne aprì una in via Liverani n.7 e un’altra in via Maioliche n.20, le più conosciute. Ogni casa aveva il salottino d’attesa dove sostavano le pensionanti, vestite in modo succinto aspettando di essere scelte. L’igiene intima era curata, ogni stanza aveva il bidè e il lisoformio a portata di mano.



Maggio 1930, via Terranova ora via Nuova.
(Archivio Fotografico Biblioteca Manfrediana)
Luglio 1930, via Mura Carceri ora via Liverani.
(Archivio Fotografico Biblioteca Manfrediana)

Le ragazze nello stesso casino non rimanevano mai più di 15 giorni; il loro arrivo era spesso preceduto dalla loro fama, ognuna usava un nome d’arte che spesso evidenziava il luogo d’origine. Per molti la visita al “casino” non era legata necessariamente ad un rapporto sessuale ma, soprattutto dai giovani, veniva vissuto in maniera goliardica, andavano a guardare e basta. Per la maggior parte degli uomini all’età di 18 anni costituiva il primo contatto con le donne, il primo approccio con il corpo femminile. Non è ipocrisia sostenere “che le donne madri di famiglia e le mogli, intimamente giudicavano le case di piacere un pubblico servizio utile a placare gli eccessivi bollori, ad allontanare le amanti dai mariti a collaudare la maturità fisica  dei figli diciottenni”. Gli introiti non erano solo per il gestore del casino ma una percentuale spettava anche allo Stato. Nel 1949 l’ONU cominciò a punire gli Stati che traevano guadagno dalla prostituzione, così anche l’Italia, entrata nel frattempo nelle Nazioni Unite nel 1955, rischiava di finire sotto accusa. A partire dal 1946 una parlamentare socialista Angelina Merlin cominciò fortemente a sostenere che il sistema delle case si era dimostrato fallito e che il problema meritava attenzione; il numero delle clandestine era molto superiore a quello delle tesserate. I dati raccolti erano impressionanti: nel 1946 fermate 56.819, ricoverate 27.011, rimpatriate 11.257, diffidate 5.940, denunciate 4.674.



La senatrice Lina Merlin.
             Il 29 gennaio 1958 l'Unità annuncia l'approvazione della legge proposta dalla senatrice Lina Merlin.


La Merlin non tollerava che le donne, mogli di povera gente, si prostituissero per qualche lusso o per fame, ai benestanti locali, come non sopportava che gli uomini di famiglie anche religiose frequentassero le prostitute e infettassero le mogli. D’altronde la morale dell’epoca vedeva nelle case chiuse il luogo dove i giovani potevano fare esperienza. La battaglia contro il fallimento del sistema e contro la morale iniziata negli anni Venti, ovviamente ostacolata dal fascismo e condotta dopo la guerra dalla senatrice, andando anche contro il suo partito, trovò compimento il 29.7.1958 quando il Parlamento votò a grande maggioranza la chiusura delle case.
La chiusura non trovò chiaramente tutti d’accordo; la chiesa si disinteressò del problema ritenendo che quel che succedeva dentro alle case non riguardava il clero. Non si accettava ed era peccato avere il desiderio di un piacere sessuale, ma contemporaneamente esentava gli uomini dal confessare al prete la frequentazione delle case chiuse perché questa non rientrava nei peccati da confessare. Contro la chiusura si schierò anche una parte del mondo della cultura, Indro Montanelli che scrisse anche un libro “Addio Wanda” e Dino Buzzati furono i più feroci. Così il 20.09.1958 si chiuse l’ultima “Casa chiusa” di Faenza, quella di via Maioliche n.20, inaugurata 23 anni prima e gestita ancora, dall’apertura, dalla signora Frilli Carmela. Purtroppo per concludere questa cronistoria sulla prostituzione nel corso dei secoli credo si debba avere la dignità di riconoscere che nel 1958 la chiusura delle case di tolleranza fu un fallimento, infatti non si abolì la prostituzione in Italia, ma di fatto si liberalizzò. Paradossalmente, la legge non chiuse le case, ma le aprì per fare uscire fuori quelle che erano legalmente registrate. Era l’inizio della “libera professione”. La legge sanciva la libertà di vendere il proprio corpo.

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