Sofia Fuoco, la divina

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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Sofia Fuoco, la divina

Angelo Emiliani

   Per Sofia Fuoco i faentini persero letteralmente la testa. La celebre ballerina venne in città due volte, nel 1853 e tre anni dopo, suscitando una sorta di pazzia collettiva tanto erano grandi l’ammirazione e l'entusiasmo. Dietro quel nome d'arte si celava la milanese Maria Brambilla. Era nata nel 1830 e i suoi progressi nella danza ebbero del prodigioso. Allieva del napoletano Carlo Blasis, considerato fra i massimi teorici del balletto, a nove anni già aveva un posto in palcoscenico e a 13 esordì come prima ballerina nientemeno che alla Scala. Pur non gradendo la rappresentazione - il Don Fabio di Serafini - l'autorevole critico della «Gazzetta privilegiata di Milano» le riservò un giudizio lusinghiero, giustificando gli spettatori rimasti in sala «per vedere quel demonietto trasfigurato in paggio, quella cara Fuoco che rende dilettevole la scena co' suoi vezzi e la sua vispa giocondità». Pochi mesi dopo, sempre nel 1843, Sofia Fuoco entrò a far parte del complesso che riuniva gli allievi di maggior talento di Blasis, le Pleiadi.



Sofia Fuoco.
    L'anno seguente danzò con le artiste più rinomate del tempo e nel luglio 1846, a soli 16 anni, riscosse un successo enorme di pubblico e di critica all'Opera di Parigi. Nel 1847 si esibì al Covent Garden di Londra e nel 1848 a Madrid dove, oltre a farsi ammirare per le straordinarie doti artistiche, si fece amare per la generosa donazione alla Casa dei trovatelli (farà la stessa cosa a Faenza, destinando l'intero suo compenso della serata del 3 luglio 1856 agli «orfani del Choléra».
Poi una marcia trionfale attraverso i maggiori e più celebrati teatri d'Europa, suscitando ovunque «acclamazioni fin quasi al fanatismo».
Le trattative per averla a Faenza in occasione del grandi festeggiamenti di San Pietro del 1853 furono avviati per tempo fra il gonfaloniere Giuseppe Tampieri e l'Agenzia teatrale del bolognese Ercole Tinti. Gli accordi prevedevano che, oltre a due opere liriche, il cartellone comprendesse appunto il Divertissement danzante della Fuoco. La celebre artista sarebbe arrivata in città verso la fine di giugno assieme al primo ballerino Dario Fissi e a otto coppie di «grandi ballerini di mezzo carattere». Poi le cose si complicarono, da Faenza si ebbe l'impressione che l'amministratore dell'impresario intendesse fare il furbo e si rese necessario ridiscutere i termini dell'accordo. Fu lo stesso Tinti a garantire magnificando i successi della sua primadonna. «Ogni serata della Fuoco - scrisse il 22 maggio a Tampieri - fu una vera solennità. In primo luogo 2.500 franchi di incasso, corone, fiori, biografia, bouquet, regali e dopo il teatro la Banda con una magnifica serenata». II costo degli spettacoli era però salatissimo: duemila scudi romani «metallici», ovvero in oro o argento.
II compenso previsto per Sofia Fuoco era di 768 scudi per otto rappresentazioni, oltre a meta del ricavato di una beneficiata (una serata in suo onore) e il rimborso delle spese di viaggio e di alloggio. Per farsi un'idea di cosa volesse dire, basti sapere che il compenso del primo ballerino, il Fissi, era previsto in 85 scudi e rotti e quello del coreografo, coadiuvato dal figlio, in 112. 


Avviso della prima rappresentazione
del ballo Gisella con la danzatrice
Sofia Fuoco, 23 giugno 1853.

  
    Ma nessuno in città ebbe da ridire sulla spesa: la Fuoco portò in scena Gisella e fu un trionfo senza precedenti. Ci fu chi commentò: «Le gambe, il corpo, le movenze della bellissima ballerina portarono una vera rivoluzione nel sangue e nel cuore dei giovani e dei meno giovani».

E altri: «Sofia Fuoco, la danzatrice dalla grazia affascinante, scosse il pubblico da quel letargo in cui era caduto e tanto lo entusiasmò che non si possono descrivere le dimostrazioni continue e crescenti. Pareva che tutti impazzissero ad ogni mossa. L'entusiasmo toccò il delirio».
Tre anni dopo, come s'e detto, la Fuoco tornò. A prendere i necessari accordi per conto del Comune fu il conte Scipione Pasolini Zanelli. Anche in quest' occasione qualcosa non andò per il verso giusto, tanto che l'impresario Antonio Pieraccini pretese di trattare con l'amministratore della sagra di San Pietro, Giuseppe Vespignani. Questa volta i compensi - perlomeno quelli inizialmente pattuiti - erano meno sproporzionati: 480 scudi per Sofia Fuoco e 300 per Dario Fissi ancora nel ruolo di primo ballerino. Non conosciamo però il numero delle rappresentazioni. Le opere in programma erano gli autentici cavalli di battaglia del’ etoile: La figlia del bandito di Perrot, Caterina e Le nozze di Ninetta con Nane.
Puntualmente si ripeterono le scene di esaltazione collettiva. «I faentini - ha scritto Piero Zama in "Addio vecchia Faenza" - parevano diventati matti, tutte le faentine erano diventate gelose». Persino uomini noti per i severi studi letterari e linguistici investirono il loro sapere in rime e sonetti sognanti dedicati alla bellezza e alla grazia dell'insuperabile artista.

Alla Fuoco era stata riservata un'elegante stanza nell'antico palazzo in angolo fra via Torricelli e via Manfredi. Qui ella si ritirava dopo gli spettacoli, dati ovviamente in Teatro (che ancora non aveva preso il nome del tenore Arcangelo Masini).



  
    Lasciamo ancora che sia Piero Zama a raccontare come andarono le cose la notte del 6 luglio 1856. «Dopo una recita che aveva segnato un particolare trionfo, Sofia Fuoco fu accompagnata dal popolo fino alla sua dimora, fra applausi scroscianti, al chiarore di fiaccole. E la carrozza era tirata e sospinta da innumerevoli adoratori. Dal piccolo balcone, chiamata, applaudita, Sofia si affacciò più volte, ringraziando e reverendo.

Ma giù gli ammiratori non si stancavano mai di rivolgere dichiarazioni, di gridare gli evviva, di cantare, di suonare le parole e le musiche che soltanto l'amore pazzo è capace di fabbricare, soprattutto nelle ore notturne. Impazientita di non poter dormire, Sofia Fuoco discese ancora una volta dal letto: cercò per un momento, trovò quello che, non ancora usato, cercava ed aperta la finestra lo tiro sugli ammiratori: i quali, lungi dal prendere spavento o dall'aversene a male, si gettarono con furia sui cocci, fieri di possedere almeno uno di quegli intimi amuleti. Ci fu chi lo tenne in serbo fino all'ora della morte».

    Sui muri della città, in tutte le strade, scritte osannanti consegnavano ai posteri il trasporto senza freni di giovanotti ed uomini maturi. Ci fu chi scrisse «Sofia più che mortal, fuoco divino!», ma quelli erano tempi in cui mischiare i santi coi fanti non era consentito. Quel «divino» ben presto scomparve sotto le pennellate della censura.




Il balcone dal quale Sofia Fuoco
gettò il pitale sugli ammiratori.

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