Dope anni di acceso dibattito la
regione Emilia-Romagna ha pubblicato (gennaio 2013) la versione definitiva dei
Disciplinare di produzione della indicazione geografica protetta "Piadina
Romagnola", che si presta ad alcune considerazioni e critiche. Innanzitutto sono state disattese
le aspettative di coloro che osteggiano le piadine artigianali o industriali:
certo, il prodotto consumato poco dopo la preparazione e più gradevole, ma pare
esagerato il giudizio di alcuni secondo cui l’identità della piadina sarebbe
stata «stravolta dalle varianti omologate precotte e confezionate, mentre la
tradizionale offre invece ancora emozioni sia al palato che al cuore».
Le
iniziative di tutela e promozione spettano forse ad alimenti più ''nobili"
quali vini, oli e formaggi, ma il nodo della questione sta in quell'aggettivo
tradizionale che non ha riscontro nella documentazione storica, considerando
inoltre che cj troviamo di fronte a molteplici varianti per quanto concerne gli
ingredienti ed anche il formato e lo spessore. Nel documentatissimo volume di
Graziano Pozzetto edito nel 2005 ("La piadina romagnola
tradizionale") si trova anche un doveroso accenno alla piada sulla
graticola «che era in uso nella fascia piana ravennate e lughese, ove la
consuetudine della teglia di Montetiffi era poco praticata o semisconosciuta
fino a relativamente pochi decenni fa. Pertanto erano più presenti le altre
consorelle, come questa, anziché la piada classica». Altra variante era la
piada di farina di mais o di mistura, detta normalmente piadot. L'articolo 6
del suddetto Disciplinare (Elementi che comprovano il legame con I'ambiente) è
farcito di non poca retorica. Si afferma infatti che «la Piadina Romagnola o Piada
Romagnola ha origini antichissime e racconta la storia della gente di Romagna.
Si tratta di un cibo semplice che nel corso dei secoli ha identificato e
unificato la terra di Romagna sotto un unico emblema passando da simbolo della
vita rustica e campagnola, "pane dei poveri", a prodotto di largo
consumo. II termine "piada" è stato ufficializzato per merito di
Giovanni Pascoli il quale italianizzò la parola romagnola "piè" in
questo termine. In un suo famoso poemetto il poeta tesse l'elogio della
piadina, alimento antico "quasi quanto l’uomo", e la definisce
"il pane nazionale dei Romagnoli" creando un binomio indissolubile
tra Piadina e Romagna (...). Nel Secondo Dopoguerra la Piadina Romagnola si
diffonderà sia nelle campagne che nelle città, e non sarà più considerata un
surrogate del pane, ma una golosa alternativa. A partire dagli anni Settanta,
alle piadine casalinghe si accompagneranno quelle di produzione artigianale».
Occorre far presente in primo
luogo che il vocabolo piada è attestato nel XIV secolo e le varianti piadina e
piadone nel XVI; e d'altra parte noto che in origine le piade erano prodotti
azzimi conosciuti in quasi tutte le parti del pianeta e nella relativa
preparazione potevano essere utilizzate altre farine oltre a quella di
frumento. Per l’Alto Medioevo si rimanda alle considerazioni riportate a pagina
43 del volume '"La fame e l’abbondanza" del prof. Massimo Montanari,
edito nel 1993: «Non meno significative erano le contrapposizioni tra pane
fresco e pane raffermo (...) e tra i diversi modi di cottura: al forno, chi
poteva; gli altri sul testo o fra la cenere. Si trattava allora di focacce più
che di pane vero e proprio: "il pane che si cuoce rigirandolo sotto la
cenere - scrive Rabano Mauro - è una focaccia". Ma si continua a chiamarlo
"pane" come si chiamano "pane" gli incredibili manufatti
dei tempi di carestia; perche quel nome evoca immagini alte. E’ un nome sacro o
forse magico».
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Alcune fasi della cottura della piadina
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Ha scritto Piero Meldini che
«l’estrema penuria di fonti storiche-documentarie lascia intendere che, fino
poco più di un secolo fa, la piada, pur esistendo, aveva un peso assai modesto
nell'alimentazione dei Romagnoli e assolutamente trascurabile nel loro
immaginario (...). La presenza del forno anche nelle case più umili, in città
come in campagna, è una conferma della centralità del pane, circondato, non per
caso, da un’aura di sacralità sempre negata alla piada». Meldini aggiunge che
una cronaca riminese relativa a carestia verificatasi nel 1622 ci informa che
«più persone facevano delle piadine di sarmenti et fave macinati insieme per
mangiarle in così gran bisogno»: la notizia non è utile alla conoscenza della
composizione di una eventuale piada tradizionale e a dire il vero non
rappresenta neppure la prima attestazione del vocabolo "piadina”, come
vedremo. Ancora di Meldini è la giusta considerazione che le due piade di cui
ala Descriptio Romandiole del 1371 per
Modigliana fossero «larghe focacce lievitate e forse condite con grasso di
maiale, cotte nel forno»; questo vale anche per le focacce che troviamo come
regalie in contratti colonici, enfiteusi o livelli del Medioevo per l'intera Romagna:
la focaccia trova riscontro anche nel piadone dovuto al proprietario del
podere, in occasione della Pasqua, come ancora si considera nel 1612 per l'area
faentina.
Nel 2006 Beppe Sangiorgi,
riprendendo un appunto del compianto Leonida Costa, scriveva che nella seconda
metà del Cinquecento nella Valle del Senio c'era già la piadina; in effetti la
locuzione testo da piada con li suoi ferri (attrezzi per la cottura e forse
treppiedi) potrebbe riferirsi ai testi di argilla refrattaria che già si
producevano nella vicina Valle del Santerno, ma non è chiaro cosa sia realmente
questa piada, come in altre occasioni; sarà poi da evidenziare che in centinaia
di altri inventari di masserizie domestiche relative all'area romagnola, dalle
colline faentine e imolesi fino al Po di Primaro, mai si e riscontrata
attrezzatura per cuocere piade o piadine, ma solamente testi per cuocere le
torte, che sottintendono le arole o teglie metalliche.
Nella prima meta del XIX secolo i
vocabolari del faentini Morini e Morri riportano piadèna nel senso generico di
"focaccia o schiacciatina", mentre il dizionario dell'imolese Tozzoli
ha solo "schiacciatina"; ancora Morri spiega il dialettale tëst come
"sorta di stoviglia assai piana ad uso di cuocere o rosolare vivande"
per cui non è escluso voglia indicate la teglia metallica a bordo rialzato.Nella zona delle Ville Unite
ravennati la tègia (teglia) corrisponde però a testo di terracotta o lastra di
arenaria della varieta "alberese". Comunque sia, è vero che gli
archeologi vanno recuperando anche per il medioevo le terrecotte refrattarie
che essi chiamano "testi da pane", oppure le teglie di pietra ollare,
ma trattasi di materiali presenti in varie zone d'Italia. Una recensione
relativa al citato volume di Pozzetto sostiene che «sarà difficile aggiungere
altro per decenni», ma l'indagine del passato riserva continuamente sorprese. E’ così che nel regolamento per i
fornai di Faenza relativo all’anno 1585
a questi è vietato fare piadine o bracciadelli senza il
permesso delle autorità preposte alla panificazione pubblica (Notarile di
Faenza, volume 2147 pag. 186): in questo caso direi comunque che per
"piadina" si intende la solita focaccia,ovviamente cotta nel forno da
pane.
Non si è mai fatto ricorso, per
la materia in oggetto, agli scritti del noto erudito Tomaso Garzoni di
Bagnacavallo, il quale, nel Discorso XI de "La sinagoga degli ignoranti"
(edizione del 1589), narra che tal Battistella di Piangipane di Ravenna si
rammaricava del fatto che la moglie «ogni volta che faceva pane, mai faceva la
fugaccia unta come si costuma in Romagna»: anche qui trattasi di focaccia
lievitata e cotta nel forno.Ci informa l’imolese Serafino
Gaddoni, in una nota pubblicazione postuma del 1927, che il parroco di
Gallisterna (Riolo Terme) nel 1754 aveva distribuito ai propri fedeli, nel
giorno del Natale, le pinze cioè "piadelle con pepe, sale e
zafferano" (ingrediente base era la farina di frumento). Alla fine di
questa carrellata ognuno formi la propria opinione, ma sembra più verosimile
che la tradizione, se cosi vogliamo chiamarla, non abbia origini troppo antiche
e che sia piuttosto una "invenzione" generata da un sentimento
neoromantico di fine Ottocento e primo Novecento, oppure dall'accentuarsi del
regionalismo tipico dell'Italia post-unitaria.
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