L'UNPA e i rifugi bellici a Faenza
di Eleonoro Dalmonte
(dal libro: Faenza nella guerra e nella ricostruzione, Stampa Offset Ragazzini & C., Faenza ottobre 1990)
Per
la prima volta, durante la seconda guerra mondiale, la popolazione
urbana veniva a trovarsi sotto lo sconvolgimento e l'orrore della
guerra, portata dagli aerei nemici con i loro bombardamenti e con le
loro incursioni e, successivamente, dalle artiglierie contrapposte
durante il passaggio del fronte. In queste condizioni di estremo
pericolo, il Governo aveva emanate istruzioni idonee per cercare di
cautelare la gente dall'offesa aerea e dalle granate, ma erano molto
sommarie, precarie e inutili perché facevano unicamente affidamento su
disposizioni ventilate con molta fantasia e con poca praticità. Erano
esclusivamente improntate a criteri di propaganda spicciola, erano
esemplate con pellicole che tentavano di far vedere concretamente come
si sarebbe dovuto procedere nei casi di incursioni e di incendi, erano
prefigurate con vignette dozzinali che presumevano di indicare quali
azioni dovevano essere messe in atto e quali misure dovevano essere
intraprese per prevenire i danni e per recare soccorso nelle calamità
inevitabili. I films erano stati girati in condizioni estremamente
riduttive e in forme del tutto incompetenti e inefficaci. Anche in
queste disposizioni difensive si manifestava la vacuità e la
superficialità della propaganda fascista. Severe norme sancivano
l'obbligo di non accendere luci all'aperto e di schermare qualsiasi
fonte luminosa e comminavano pene drastiche a carico dei contravventori.
Apposite istruzioni erano state approntate e divulgate dal Ministero
della Stampa e Propaganda per far fronte all'offesa aerea, al divampare
degli incendi, alla caduta delle bombe e al pronto soccorso. Esse
facevano affidamento sugli accorgimenti individuali e particolarmente
sui sacchetti di sabbia, che avrebbero dovuto spegnere ogni focolaio di
incendio. A Faenza, mucchi di sabbia erano stati posti in vari luoghi
della città e collocati secondo intendimenti di facile reperibilità e
con criteri legati all'importanza strategica delle zone da
salvaguardare. La protezione antiaerea faceva capo all'U.N.P.A. —
Unione Nazionale Protezione Antiaerea —, un ente paramilitare che
doveva essere sempre in stato di allarme e pronto ad ogni evenienza in
caso di incursioni aeree. Per poter affrontare in modo adeguato le
necessità del momento e le chiamate dei cittadini, Faenza fu divisa in
dieci settori, a ciascuno dei quali era preposto un capo-settore. Per
tenere gli uomini sempre efficienti e pronti all'intervento, ogni
settore disponeva attività varie di allenamento al pronto soccorso, di
servizi, di vigilanza che venivano attuati in conformità ad un
programma dettagliato e ricorrente, ma perfettamente avulso dalla
drammaticità dell'evento per le modalità semplicistiche, velleitarie e
inconcludenti. Nei casi di grave pericolo i capi-settore potevano
assumere dei
volontari che si affiancavano ai componenti dell'U.N.P.A. e che
venivano assegnati ai quartieri dove la loro presenza era ritenuta più
necessaria e laddove l'offesa aerea avesse compiuto i danni più
rilevanti. Per quanto concerne l'allarme aereo, che doveva essere
tempestivamente segnalato ai cittadini, i posti di avvistamento furono
collocati sui campanili più alti della città, quello della Chiesa dei
Servi e quello della Chiesa di Santa Maria Vecchia, ma particolarmente
le alture più prossime alla città furono attrezzate a questo scopo.
L'allestimento dei posti di osservazione era insufficiente per cui
«Pippo», il ricognitore inglese che ha sempre tenuto in apprensione i
faentini, tutte le notti, puntuale, compiva indisturbato rilevamenti e
lanciava razzi e bengala. Nelle zone periferiche erano state preparate
postazioni con dotazione di cannoni e di mitraglie per la difesa
contraerea.
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Militi dell'Unpa in una esercitazione di pronto soccorso.
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La sirena per l'allarme antiaereo posta sul Palazzo Comunale (Coll. Casadio - Valli).
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Faenza,
via Torricelli n° 26, sotto il numero civico il disco tricolore indica
che in quel palazzo durante il periodo bellico esisteva un rifugio
antiaereo.
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Nella «Bassa Italia» (è chiamata così a Faenza la zona adiacente al
ponte del Borgo e che si estende fino a Porta Montanara, attraverso via
Lapi), furono installati i piccoli cannoni tedeschi Flak. In tal modo
la collocazione della contraerea era praticamente inefficace e situata
con i criteri del consueto pressapochismo. Le modalità per l'inizio,
per la durata e per la cessazione del segnale di allarme, erano state
stabilite, per tutto il territorio nazionale, da precise disposizioni
ministeriali. II suono che dava l'allarme doveva essere ripetuto sei
volte consecutive, per la durata di 15 secondi ogni volta, con
l'intervallo, tra un sibilo e l'altro, pure di 15 secondi. I dieci settori, nei quali era stata suddivisa la città, disponevano
ciascuno di una sirena e al coro di esse doveva aggiungersi la sirena
dell'ebanisteria Casalini. Inoltre le campane delle chiese di
Sant'Agostino, di San Domenico, di San Francesco, di San Savino e, nel
Borgo, della Commenda, dovevano parimenti unirsi all'urlo delle sirene
con i loro rintocchi per annunciare l'allarme. II segnale di cessato
allarme veniva dato dal suono delle sirene, che durava intermittente
per 2 minuti primi, mentre le campane delle chiese citate dovevano
suonare a distesa per lo stesso periodo di tempo. Nell'eventualità di bombardamenti che avessero causato morti e feriti,
erano stati costituiti centri di soccorso presso l'Ospedale Civile, la
Casa di Cura «Stacchini», l'ambulatorio comunale di via Pascoli, quello
di via Campidori, quello di corso Zannoni (ora corso Europa) e quello
di via Severoli. Contemporaneamente le squadre predisposte di operai
dovevano sgombrare le macerie, demolire i muri pericolanti, puntellare
quelli danneggiati, ma soprattutto coadiuvare le squadre di pronto
soccorso per raccogliere i feriti e per comporre le salme dei morti. II
centro di raccolta faceva capo al Cantiere dei Cementisti di via
Tolosano. Fuori dalle quattro porte della città, i contadini
precedentemente reclutati, dovevano essere pronti ad intervenire nei
luoghi loro indicati da un addetto, ausiliario del capo-settore.
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24
novembre 1944. Bombardieri B-25 (Mitchells) della 12° Forza Aerea
Americana in volo sulle colline a sud di Faenza per colpire le
postazioni tedesche attorno alla città (National Air and Space Museum).
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Un Liberator del 464° Bombardieri
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II 69° Corpo del Vigili del Fuoco, di stanza in via Maccolini, doveva
intervenire in caso di incendi e doveva coordinare l'azione delle
squadre U.N.P.A. dislocate presso l'Ospedale Civile, la Casa di cura
«Stacchini» e il cortile della Chiesa di Sant'Antonino, in Borgo.
Un'ordinanza del Podestà aveva stabilito che, in caso di bombardamento,
tutti i possessori di automezzi, dovevano metterli a disposizione della
comunità per il trasporto di feriti e il disbrigo delle varie
incombenze e dovevano portarli nel Viale dello Stradone (pomposamente
chiamato allora «Viale delle Legioni») e nel piazzale antistante la
Chiesa di San Francesco. Per salvaguardare l'incolumità dei cittadini e
per offrire loro un
asilo di protezione contro la furia degli aerei e delle bombe, erano
stati allestiti i «rifugi». Se ne contavano circa un centinaio già nel
primo semestre del 1943. I segnali che indicavano la presenza di un
rifugio erano una freccia
bianca su fondo nero, con la scritta «Rifugio» vicino alla porta o
all'imbocco di un riparo ritenuto idoneo. In seguito furono adottati
anche dischi tricolori. Le porte di accesso ai rifugi dovevano restare
socchiuse per almeno 10 minuti primi dal momento dell'allarme.
L'ubicazione, la forma, la capienza erano state preventivamente
studiate come pure la profondità, i due ingressi a nord e a ovest, la
forma circolare e a curve, per consentire la suddivisione in scomparti
distinti e defilati. Particolare attenzione doveva essere rivolta alle
prese d'aria, alla riserva di acqua, alle scorte di generi alimentari,
alla disponibilità di appositi attrezzi (badili, picconi, vanghe,
contenitori vari), di bende, di medicinali e di quant'altro poteva
essere di utilità durante la permanenza nei rifugi, che poteva
protrarsi a lungo.
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Manuale di istruzione e comportamento in caso di attacco aereo.
| Croce del Monticino a Brisighella, osservatorio per l'avvistamento aereo dell'Unpa.
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In pratica nessun rifugio rispondeva a questi requisiti. Vennero pure
utilizzati scantinati, sotterranei, cantine, cripte di chiese,
basamenti di campanili e perfino le fogne, che offrivano una certa
sicurezza per la loro profondità e per la grossezza dei muri. Voglio
ricordare che la struttura fognaria della città, molto vasta ed
efficiente, esemplata sulle migliori reti secondo il modello romano, si
dimostrò molto valida anche se poco igienica e vietata espressamente
dall'autorità civile. Molti rifugi furono scavati nei campi, negli orti
e nei giardini,
perché molti preferivano stare all'aperto per il timore di essere
eventualmente sepolti dalle macerie per il crollo dei muri. E’
opportuno anche ricordare che la stragrande maggioranza dei cittadini
era sfollata da Faenza. Basta citare questi dati: la popolazione
residente ammontava, il 1°
gennaio 1944, a circa 45.000 abitanti, calava, il 1° maggio 1944, a
circa 30.000 abitanti e, dopo i grandi bombardamenti, si riduceva man
mano a circa 4.000 abitanti. E’ da tenere presente, inoltre, che molti
uomini, dalla classe 1914 a
quella del 1926, avevano abbandonato la città e preso la via dei monti
per nascondersi o per entrare a far parte delle formazioni partigiane.
L'obbligo al lavoro coatto nella T.O.D.T., i rastrellamenti e l'invio
in Germania, i bombardamenti, la scarsità di cibo, la prevedibile
vittoria degli alleati, le pene gravissime e il pericolo di
rappresaglie li consigliarono ad allontanarsi dalla città. I cittadini
rimasti a Faenza avevano, in particolare, due problemi di
essenziale rilevanza da risolvere tutti i giorni e che si aggravarono
con il passare del tempo: la necessità di trovare il cibo e l'esigenza
di avere un riparo dalla furia della guerra.
I generi alimentari che si potevano acquistare con le tessere annonarie
non erano mai sufficienti e molto spesso non erano posti in vendita e
quando l'intensità dei bombardamenti non consentì più l'apertura dei
negozi, la popolazione dovette affidarsi alle mense pubbliche e
all'assistenza dei Comitati appositamente costituiti, nella massima
parte, dal Clero e dalle Associazioni Cattoliche. Ora voglio precisare
l'ubicazione e la conduzione dei vari rifugi. II loro allestimento
all'inizio fu piuttosto caotico e tenne conto
soltanto della solidità delle strutture prescelte in ottemperanza ad un
decreto ministeriale. Quando verso l'inizio del mese di ottobre del
1944, il rientro dalle
campagne degli sfollati per ordine militare e per la convinzione di
essere più al sicuro tra le mura cittadine, accrebbe la richiesta di
posti nei rifugi, il C.L.N. — Comitato Liberazione Nazionale — e la
direzione clandestina della D.C. presero in esame la situazione
generale dei rifugi. Si stabilì di preporre ad ognuno di essi un
responsabile, di calcolare
la capienza di ciascuno, di accogliere tutti coloro che erano in città,
di mettere in atto gli accorgimenti necessari per una permanenza
duratura e di predisporre tutte le cose volute dall'ordinanza
ministeriale e particolarmente le scorte di viveri. Incaricati
dell'organizzazione furono don Gino Montanari e don Domenico
Lusa, che compivano periodici sopralluoghi per coordinarne l'efficienza
e l'assistenza. I componenti del C.L.N. ritennero opportune ricoverarsi
nel rifugio dei
Salesiani per essere presenti in città al momento della Liberazione.
Gli ecclesiastici ottennero con maggior facilita dal Comando tedesco il
permesso di circolare in città per recare assistenza ai bisognosi.
Durante il mese di novembre 1944, continuò e aumentò il ritorno degli
sfollati, le richieste di trovar posto nei rifugi furono sempre più
pressanti, per cui si dovettero ricercare ancora cantine e sotterranei.
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A
sinistra manifesto con disposizioni del comportamento da tenere in caso
di incursione aerea, a destra avviso di prova della sirena di allarme.
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I pasti molte volte vengono preparati freddi in loco, ma le mense
cittadine, quella di San Maglorio in particolare, mandano provviste ai
rifugi nei quali la gente rimane ormai tutta la giornata per il terrore
delle bombe e delle granate, per la paura di rastrellamenti e di
violenze da parte dei tedeschi soprattutto verso le donne.
Alla fine di novembre il Comitato Vescovile raddoppio le sue cure per
il reperimento di viveri in previsione di giorni più grami e per
aiutare gli sfollati dalle località investite dalla guerra che si
riversarono in città. Bocche dei Canali, Castel Raniero, Celle,
Pergola, Pideura erano divenuti un inferno e i comandi militari avevano
ordinato ai contadini di sgombrare la zona. I rifugi entro i quali la popolazione faentina si sottrasse
all'imperversare della guerra e alle angherie dei soldati ammontarono
ad oltre 200, ma i più accoglienti e più attrezzati furono una ventina.
Ne faccio l'elenco in ordine alfabetico:
— Asilo Baldi e Maternità. Responsabile: le Suore.
— Bacini Montani. Responsabile: Don Antonio Savioli.
— Casa di Azione Cattolica di via Severoli. Responsabile: un Frate di San Francesco.
— Casa di Mons. Rossini in via Cavour. Responsabile: un Laico.
— Chiesa e Campanile di Sant'Antonino. Responsabile: il Parroco.
— Chiesa e Campanile di Sant'Agostino. Responsabile: il Parroco.
— Chiesa e Campanile di San Domenico. Responsabile: il Priore.
— Chiesa e Campanile di San Francesco. Responsabile: il Padre Guardiano.
— Chiesa e Campanile dei Servi. Responsabile: il Parroco.
— Ospedale Civile. Responsabile: Don Gino Montanari.
— Congregazione di Carità. Responsabile: un Laico.
— Palazzo Cavina. Responsabile: Aw. Domenico Silvestrini.
— Palazzo Ghetti. Responsabile: Don Domenico Mondini.
— Palazzo Magnaguti. Responsabile: Don Antonio Savioli.
— Istituto Tecnico. Responsabile: Preside Zannoni.
— Liceo Classico. Responsabile: Parroco di S. Maria Nuova.
— Scuole di via Castellani. Responsabile: un Laico.
— Scuole di via Marini. Responsabile: Don Valentino. |
Tessera Unpa.
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Ho volutamente omesso i due più capienti ed i più affollati, quello dei
Salesiani, responsabile: il Direttore e quello del Seminario,
responsabile: il Rettore. II rifugio dei Salesiani fu il più ricercato, contava in permanenza
oltre 300 persone e il caso aveva accomunato i membri del C.L.N.,
alcuni fascisti e perfino militi che avevano disertato dalle brigate
nere. Tutti i sotterranei erano stati sistemati per la numerosa famiglia
salesiana al suo rientro dallo sfollamento nel Casolano, per i
sinistrati e per tutti coloro che cercavano asilo. La loro ampiezza
consentì di dare asilo ad oltre 400 persone. Una fetta di pane e una scodella di riso non mancarono mai, perché i
cittadini sfollati fuori Faenza non ritiravano le loro razioni e
l'annona indulgeva nell'accordare generi tesserati ai responsabili dei
rifugi.
Fin dal 1943 i Salesiani cercarono di aiutare i faentini che si
rivolgevano loro per i bisogni material! e spirituali che li
assillavano. L'altro rifugio ritenuto sicuro fu quello del Seminario.
Era molto
ampio e confortevole, rifornito con lungimiranza per i giorni
dell'emergenza di abbondanti scorte di derrate alimentari. C'era anche
una mucca che forniva il latte per i bambini e per i malati. Costante,
paziente, infaticabile, da parte del clero, la ricerca e la
raccolta di tutto ciò che poteva servire nelle giornate tremende che si
paventavano. Nei giorni più critici ospitò oltre 300 persone. Dopo il
passaggio del fronte, il Seminario divenne il luogo di raccolta
degli automezzi della Croce Rossa inglese, che smistava i feriti, gli
ammalati e gli sfollati a Forlì e nelle retrovie.
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