Il velocimano costruito a Faenza da Giuseppe Sangiorgi

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 Storia Moderna



Il velocimano costruito a Faenza da Giuseppe Sangiorgi

(pubblicato sul mensile “In Piazza” di Confcooperative, dicembre 2006)

di Giuseppe Dalmonte
Tra i numerosi appellativi affibbiati alla Romagna nel secolo trascorso, quello più appropriato e attuale è senz’altro “terra dei motori e della bicicletta” per motivi a tutti noti. Se rivolgiamo invece lo sguardo al periodo pionieristico della bicicletta (cioè agli ultimi due decenni del XIX secolo) dobbiamo menzionare almeno i nomi del poeta Olindo Guerrini (alias Lorenzo Stecchetti, 1845-1916) e dello scrittore faentino Alfredo Oriani (1852-1909), l’entusiasta cantore del rivoluzionario veicolo. Celebrato in La Bicicletta nelle sue molteplici forme di velocipede, triciclo, tandem e bicicletta, alla quale lo scrittore ha dedicato pagine vibranti sulle sue appassionate galoppate appenniniche e qualche cenno storico sulle principali fasi evolutive della macchina da ‹‹giocattolo a strumento capace di superare il cavallo e di lottare con il treno››. L’Ottocento della rivoluzione dei mezzi di trasporto ha conosciuto due fasi distinte in questo particolare settore: il velocipedismo prima e il ciclismo poi, decollato però solo nella fase finale del secolo e all’inizio del XX con l’affermazione universale della bicicletta. La fase arcaica è caratterizzata dai celeriferi o velociferi francesi, macchine semplici di legno, composte di una ruota anteriore collegata a quella posteriore con un’asta, sormontata da una modesta sagoma di serpente, di leone o di cavalluccio su cui sedeva e si aggrappava il cavaliere che a forza di spinte alternate coi piedi sul terreno azionava la rozza macchina.
  A Parigi nel 1800 si disputarono perfino gare con scommesse e pochi anni dopo, si dice che alcune nuove macchine furono messe a disposizione dell’amministrazione pubblica. Un’evoluzione significativa del velocipede fu senz’altro nel 1818 la draisienne, uno spartano apparecchio in legno con sella e rozzo manubrio collegato alla ruota anteriore mobile per concedere libertà di direzione. L’invenzione del barone tedesco Drais de Sauerbron fu promossa nelle principali capitali europee ma ottenne notorietà più per le numerose vignette satiriche della stampa che per l’effettiva diffusione del mezzo. Nella febbre velocipedistica dell’età romantica non poteva mancare l’apporto della genialità inglese con il pedestrian hobby-horse, velocipede interamente metallico, che attrasse l’attenzione anche di alcune amazzoni londinesi nel 1819.


Velocimano.

The Velocipide, colour lithograph by Currier and James M. Ives, 1869.
 © Museum of the New York/Corbis.


Alfredo Oriani con la sua bicicletta.


Il manifesto con cui Giuseppe Sangiorgi annuncia l'invenzione del Velocimano.
Nello stesso anno anche in Italia si pubblicizzano le invenzioni contemporanee del cavallo meccanico a tre ruote o velocimano, di due valenti artigiani, il milanese Gaetano Brianza e pochi mesi dopo il faentino Giuseppe Sangiorgi, detto Marèt. Il primo promuoverà la sottoscrizione dei primi cento veicoli, al costo di 300 lire ciascuno, con una poesia in dialetto milanese che decanta i pregi del Gran Cavall Meccanegh:
…….. ‹‹El se ciama in bon talian/ El Cavall Velocimann, / Perché coi mann tocchee en ordegn/ Ch’el corr anc ben ch’el sia de legn; / Podii sta comed sulla sella/ Mei del cavall del sur Ghinella, / Podii andà drizz, podii sterzà/ Montà sull’alt, e reculà, / Se tant al mont che alla pianura/ Podii viaggià senza pagura/ E fa per ben cent mia de strada/ Senza fal bev, ne dagh la biada./…››. Per pubblicizzare la nuova macchina l’inventore faentino sceglie invece la piazza ravennate, sede di legazione, alla quale si rivolge il costruttore con un manifesto che recita:
velocimano ‹‹Una delle più belle, ed utili esperienze meccaniche vi offre Giuseppe Sangiorgi Maretti Faentino, inventore della Macchina detta il Velocimano ossia Cavallo Meccanico, unito a Domenico Casalini valente carrozzaro, che può essere cavalcato da qualunque soggetto, senza alcun pericolo, e con l’ajuto di una sola mano con velocità cammina sul piano, come pure ad una discreta salita››. Con questo arcaico annuncio pubblicitario rivolto ai cittadini ravennati nel maggio 1819, l’ideatore faentino intendeva promuovere efficacemente con un’esibizione nella sala comunale il nuovo veicolo a tre ruote, mosso da leve e ingranaggi celati in un busto di cavallo equipaggiato di briglie per orientare il movimento del mezzo di trasporto. L’abile e intraprendente falegname faentino aveva allestito questo prototipo con la foggia familiare del cavallo, ma si riprometteva di costruire altre macchine con draghi, cavalli marini, cervi, ippogrifi, leoni o qualunque altra foggia gradita agli acquirenti. Il prezzo fissato per il velocimano costruito a Faenza era di scudi romani 30 e si assicurava la manutenzione per un anno in caso di difetti meccanici.

Giuseppe Sangiorgi era nato a Faenza nel 1757, viveva in città nel corso di Porta Ponte, attuale Corso Saffi, con due figli maschi, Carlo e Pasquale, anch’essi falegnami provetti che prolungarono l’arte della famiglia fin dopo l’unità d’Italia. Secondo la testimonianza dell’architetto E. Golfieri, il soprannome di Marèt era stato attribuito al nonno Francesco, ‹‹uno dei falegnami e carpentieri più provetti di Faenza›› nella seconda metà del Settecento. Giuseppe, ‹‹prima sotto la guida di Giuseppe Boschi detto il Carloncino, poi seguendo i modelli di G. Pistocchi col quale era in buoni rapporti, divenne pratico anche di architettura. Ideò e costruì varie macchine per cerimonie e feste pubbliche oltre a catafalchi per celebrazioni funebri, ma anche modelli in legno per edifici e costruzioni di uso pubblico da lui progettate››, oltre a produrre mobili per l’arredamento.
Forse le gare automobilistiche delle fantasiose “macchine a pedali” V.a.p., ideate e costruite insieme dagli alunni e dagli insegnanti di vari istituti romagnoli e stranieri, che si disputano da vari anni nella città manfreda, sembrano realizzare ingenuamente ma in forme più efficaci, grazie al contributo determinante dei pedali, della catena e della moltiplica, quei lontani sogni romantici della velocità pura.



La bicicletta di Leonardo da Vinci
Fonte:  “Il cicloturismo e la sua storia” (2005)

Nel Codice Atlantico (foglio 133v) di Leonardo da Vinci si trova il disegno di una bicicletta eseguito con matita a carboncino e databile intorno al 1493 che stupisce per la genialità della propria concezione, e può considerarsi il progenitore della bicicletta moderna. Esso è concepito in legno ed è provvisto di un sostegno fisso per appoggiare le mani, di una forcella anteriore e posteriore, di un telaio orizzontale che collega due ruote di uguale dimensione dotate di mozzi e di raggi, di un asse (movimento) centrale, di una guarnitura (corona, pedivelle e pedali) posta al centro del telaio, la quale a sua volta è provvista di una catena di trasmissione che la collega a un pignone sul mozzo della ruota posteriore motrice, di una sella con sospensioni ecc… In altre parole, questo schizzo racchiude le invenzioni meccaniche più importanti che si affermeranno laboriosamente solo tre-quattrocento anni più tardi.
Le vicende legate al disegno di Leonardo e al suo ritrovamento hanno del romanzesco, e forse proprio per questo hanno dato spunto alla narrativa. Formato alla fine del XVI secolo dallo scultore Pompeo Leoni, che riunì in un solo album circa 1300 carte vinciane, il Codice Atlantico fu affidato dal 1966 al 1969 ai monaci del Laboratorio di Restauro di Grottaferrata per un ripristino. Nel corso dei lavori i restauratori staccarono due fogli piegati a metà e incollati fra loro dal Leoni per coprire alcuni disegni osceni che vi comparivano. Il primo ad accorgersi che accanto alle oscenità era visibile lo schizzo di un veicolo molto simile a una bicicletta, fu nel 1972 il professor Augusto Marinoni, il quale aveva ricevuto l’incarico di trascrivere il codice dalla Commissione Vinciana di Roma. Marinoni annunciò la scoperta due anni più tardi nel volume “The Unknown Leonardo“, attribuendo lo schizzo non già alla mano del Maestro, bensì a quella di un allievo della sua bottega, forse tale Gian Giacomo Caprotti, detto Salaì, che avrebbe copiato “in modo puerile” un disegno poi perduto di Leonardo.
La notizia del ritrovamento procurò molte critiche a Marinoni che da alcuni studiosi fu addirittura ritenuto l’autore di un falso clamoroso. In particolare, Hans-Erhard Lessing, al tempo curatore del “Landesmuseum für Technik und Arbeit” di Mannheim, si scagliò contro di lui respingendo con decisione l’autenticità dello schizzo. Tutte le prove addotte dallo studioso tedesco si rivelarono però infondate. A sostegno di Marinoni, al tempo considerato il massimo esperto a livello mondiale di Leonardo da Vinci, si schierarono tra gli altri il professor Jean-Pierre Baud dell’Università di Strasburgo e James McGurn dell’Università di York.
Al momento attuale, si tende per lo più a negare a Leonardo la paternità della bicicletta. Per spiegare l’intera vicenda, molti divulgatori ricorrono ancora oggi all’ipotesi della burla escogitata da un ciarlatano. Tenuto conto del fatto che, fino a questo momento, nessuno ha potuto dimostrare che il foglio 133v del Codice Atlantico è stato effettivamente manomesso in epoca recente, l’ipotesi della burla convince, in tutta evidenza, men che poco. Al grande Toscano spetta dunque il merito, fino a prova contraria, di avere concepito per primo una macchina destinata a rivoluzionare le abitudini di vita dell’uomo moderno. Checché se ne dica, tanta e tale ideale paternità della bicicletta può solo accrescere il fascino di una straordinaria invenzione.




La catena ideata da Leonardo da Vinci
Codice di Madrid I – Foglio 10r.


Bicicletta fornita di pedali e catena, disegnata
 da Leonardo Da Vinci nel 1400.
(Codice Atlantico – foglio 133v.)


Celerifero 1721.

Celerifero 1721.

Ecco come e perche' in cento anni si
 e' passati da celerifero a bicicletta

Fonte: Gazzetta dello Sport - Articolo pubblicato nell'edizione del 20 marzo 1998.

 Prima di diventare bicicletta, la bicicletta era il celerifero (dal latino, significa trasporto veloce). Anno 1790: il conte francese Mede de Sivrac progettò due ruote di legno a sei raggi, una trave unita alle ruote da due forche di legno, con cui si procedeva a spinta, senza poter curvare. Da celerifero a velocifero ci sono voluti 14 anni: anno 1804, a Parigi, nel Thèatre de Vaudeville, si rappresentò Les velociferes, operetta ispirata all'invenzione del conte. Il singolare marchingegno (che aveva origini più remote: Leonardo da Vinci, anche) fu perfezionato da un altro nobile, collezionista di nomi, Karl Friederich Christian Ludwig Drais von Sauerbroun, barone, che lo mise a punto nel 1816 e lo presentò a Parigi il 5 aprile 1818. Venne battezzato draisienne (in francese) e draisina (in italiano). In Inghilterra non lo presero sul serio, divenne hobby - horse e fu trasformato in un giocattolo per bambini. In Italia lo presero troppo sul serio, divenne velocipede, fu bloccato da un'ordinanza il 3 settembre 1818 e permesso dai ghisa soltanto sui bastioni e nelle piazze lontane dall'abitato. Troppo pericoloso - sostenevano - per i pedoni. Non, evidentemente, per i velocipedisti. Lo stesso anno, 1818, era il cavall meccanegh, cavallo meccanico, del milanese Brianza, spinto a forza di braccia. Un anno dopo, 1819, era il velocimano, costruzione meccanica di Sangiorgi e Casalini [di Faenza], anch'esso spinto a forza di braccia. Poi fu un inseguimento tra inventori, una volata fra costruttori, uno spunto per artisti. Fino ad arrivare al 1884, quando nacque il bicicletto (al maschile): il torinese Costantino Vianzone lo fabbricò con telaio e forcelle in legno, ruote in corda. Finalmente nel 1888 è la bicicletta (al femminile): dal francese byciclette (e non dall'inglese bicycle, che è neutro, e si legge "baisicol"), composto da bi (dal latino bis, due) e cycle (dal greco kyklos, che si legge "cuclos" e significa ruota).


Pastonesi Marco





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