La battaglia di Burfagliaco

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
Home
Storia Medioevale



La battaglia di Burfagliaco - 11 maggio 1236
Miro Gamberini

   L’11 maggio 1236, nei pressi della “Pianta di Burfagliaco”, luogo oggi non più identificabile ma certamente collocato nella campagna fra Godo e Russi (1), si combattè una sanguinosa battaglia tra l’esercito faentino, comandato dal milanese Rubaconte da Mandello, e quello ravennate composto da una confederazione di milizie guidate da Malvicino da Bagnacavallo e Paolo Traversari, mentre le milizie ausiliarie, alleate dei ravennati, di  Bertinoro, Forlimpopoli, Meldola, Rimini e Castelnuovo erano agli ordini di Buonconte di Montefeltro e Ugo di Carpegna. (Messeri – Calzi, pag. 57).

Come si giunse alla battaglia
   Tra le cause che portarono i due eserciti a darsi battaglia, la principale va attribuita alla confusione politica e belligerante che agli inizi del 1200 vede i diversi comuni romagnoli scontrarsi fra di loro, mentre le alleanze tra le diverse signorie durano il tempo della firma del trattato.
Nel 1234 le truppe faentine, alleate dei cesenati, sono impegnate nella difesa di Urbino contro i conti Taddeo e Buonconte di Montefeltro alleati dei riminesi, i quali fatti alcuni prigionieri e rinchiusi nel castello di Forlimpopoli vengono liberati da faentini e cesenati. La risposta fu immediata: radunato un piccolo esercito composto da milizie ravennati, riminesi, bertinoresi e forlivesi sotto le insegne del conte di Romagna Carnelvare de’ Giorgi, iniziarono a saccheggiare e distruggere  le campagne di Cesena. Conscia del pericolo che l’alleato stava subendo, Faenza inviò un manipolo di soldati e cavalleggeri alla conquista dei castelli ravennati di Cortina e Raffanara. Gregorio Zuccolo nella sua “Cronaca Particolare” a pag. 108 commenta così la descrizione di questo episodio: “Ma Ravegnani, ch’erano già occupati con Cesenati, non potendo per se stessi difendersi da questa guerra, c’havean loro mossa Faentini, per levarsi con la diversione questo peso da dosso, indussero Forlivesi corrotti con seicento lire, che assaltarono il borgo di Faenza  e vi attaccassero il foco, acciò tirassero Faentini a difendere le cose loro: eseguirono Forlivesi tutto ciò che domandato havean Ravegnani, e diedero al borgo di Durbech l’assalto, dove combatterono con le donne solo, e co’ sacerdoti, che vi eran rimasti, e ne ammazzarono alcuni”.


Da un codice miniato del XIII sec. Assalto alle mura di una città.
     La conclusione di questo episodio bellico ce lo racconta Antonio Vesi (“Storia di Romagna” a pag. 418) : "Tuttavia la vittoria doveva essere del più forte, e quindi molto sangue si sparse, e molti soggiacquero a cattività: il borgo poi fu quasi interamente dato alle fiamme. Nacque da ciò fra que' due confinanti popoli una rabbia, un furore, un  desiderio reciproco di distruzione..." Ma nonostante alcuni messaggi inviati alle truppe di ritornare a Faenza per difendere la città, si preferì continuare l’assedio del castello di Raffanara (identificabile con ogni probabilità con la zona dove oggi sorge il Palazzo San Giacomo di Russi), il quale era stato cinto da un doppio giro di mura e munito di un profondo fossato nel 1222 dal Pretore di  Ravenna Gallino di Agliate (nel 1219 è Podestà di Faenza) ma con l’aiuto di sessanta balestrieri e duecento cavalleggeri inviati dai bolognesi  venne conquistato il 6 di settembre del 1234, dopo dodici giorni di assedio (Savioli, “Annali Bolognesi”, vol.III, pag. 105). I faentini  distrussero il castello “…con la torre di Santo Stefano et i muri, trionfando di quelli ch’erano chiusi dentro, portando seco in segno di trionfo la campana a Faenza , che dal castello suddetto fu domandata Rafanella”, ed il castello non venne più riedificato ( Carrari, pag. 260).

   La campana venne installata nel 1260 nella torre del Pubblico o del Podestà  e vi rimase fino al 1776, quando la Congregazione del Buon Governo e il Consiglio Generale di Faenza “determinò di far gettar giù la Torre Vecchia” perché pericolante  (Medri, pag. 37). Venne quindi collocata nel 1777 nel penultimo piano della torre dell’Orologio, ma “infrantasi per caduta, fu rifusa nel 1793 dai Baldini di Roncofreddo” è quanto ci ha lasciato scritto Antonio Montanari nella sua “Guida storica di Faenza” a pag.77. I cinquantaquattro prigionieri, tra cui messer Anastasio e Geremia da Polenta e messer Ugolino de Corbi di Forlì, vennero inviati in catene a Faenza, ma le cronache non ci narrano la sorte loro riservata. Passano alcuni mesi di relativa tranquillità, poi di nuovo le armi fanno sentire il loro rumore; questa volta il pretesto viene dalla cacciata del vescovo di Cervia, Giovanni Orsarola, da parte dei ravennati. Ma avendo stabilito in precedenza un’alleanza con i faentini e i cesenati, l’Orsarola riuscì a riconquistare Cervia alla  condizione di fornire ai suoi protettori “quantità che piacesse a loro di sale” (Zuccolo pag. 110). Sorpresi, i ravennati riuscirono a raggruppare un esercito e cingere d’assedio Cervia.


Scontro tra cavalieri da un codice miniato del XIII sec.
     Per la prima volta si preferì trattare invece di combattere. Nella tenda del Podestà di Ravenna, secondo quanto racconta il Tonduzzi a pag. 268  della sua “Historia di Faenza” si raggiunse tra “il Podestà di Faenza  nominato Gofredo, quello d’ Imola, il Conte Malvecino, il Conte Guido e il Conte Bernardino con Pietro Traversara….” un onorevole accordo liberando Cervia dall’assedio nonostante il parere contrario dei riminesi. Contemporaneamente Bologna, di cui era podestà il Faentino Guido Raule, (Savioli, pag. 108. “Se Guido era Faentino, come scrisse alcuno de’ nostri, giova crederlo della famiglia Zambrasi…..” ) viene assalita da una coalizione armata di modenesi, cremonesi e parmigiani. Immediatamente il Podestà Raule invia ambasciatori bolognesi a Faenza con richiesta di aiuto; radunati duecento cavalieri e mille fanti, raggiungono la città felsinea nel novembre del 1234. Nel maggio del 1235 troviamo le truppe faentine impegnate “…a scavar un canale tra il rio Cosina e la chiesa di Bonzanino, affine di aprire un varco alle acque stagnanti che quivi ingombravano la campagna….” (Messeri – Calzi pag. 56). Nuovamente Bologna è invasa da una coalizione di città Emiliano-Lombarde tra cui Modena, Parma, Cremona, Piacenza e Pavia, le quali hanno rotto gli argini del fiume “Scoltenna” (oggi Panaro), in località Bazzano, allagando il contado di Sant’Agata Bolognese; di qui la richiesta per un nuovo intervento armato. Il 18 maggio la cavalleria faentina, agli ordini del nuovo Podestà di Faenza Rubaconte da Mandello, lascia i lavori di bonifica e avanza verso Bologna, lasciando la città difesa soltanto da cento cavalieri. Ciò non poteva sfuggire a forlivesi e ravennati, i quali iniziarono a razziare la campagna faentina, riuscendo a conquistare il castello di Solarolo, ma il 2 giugno un intervento di truppe mercenarie di Bologna, Dozza, Borgo Tossignano, e Modigliana pagate da Faenza, riconquistò il maniero,“…e havendolo saccheggiato, l’abbrucciarono, mandando li presij a’ fil di spada..”  (Ghirarducci, pag. 158).

   Ritornati dopo quindici giorni a Faenza dopo aver sconfitto la cavalleria modenese al fiume Secchia, memori delle devastazioni e distruzioni subite e non ancora vendicate per l’incendio del 2 settembre 1234 subito dal Borgo Durbecco da parte dei forlivesi,  nel giugno del 1235 i faentini costituiscono una confederazione tra Bologna, Dozza, Borgo Tossignano e Modigliana con l’intenzione di saccheggiare e depredare la campagna forlivese con brevi scorrerie di soldati, senza mai impegnarsi in uno scontro in campo aperto, anche perché appena il nemico avvistava le insegne “bianco-azzurre” preferiva abbandonare il campo. Abbiamo così gli scontri in località Roncatello (oggi Roncadello) e di San Pietro in Trentula (oggi San Pietro in Trento) ove i cavalieri di Porta Imolese e Porta Montanara passato il fiume Montone a ponente di Roncadello assaltano “gl’inimici perseguitandoli sino alla villa di Barisana (oggi Barisano) e, pigliandone prigioni, trovarono ancora per la strada i carri de’ Forlivesi pieni di molte armi e varie ricchezze” e li depredano (Carrari, pag. 270). Proseguendo nella loro scorribanda la cavalleria faentina si scontra  nei pressi del fiume Ronco con le forze ravennati ove “morirono più di quaranta e rimasero prigionieri più di cinquecento. Abbrucciarono e distrussero la villa  di Roncadello [e] di San Giovanni sopra il Fiume (località di incerta definizione), di Munamizola,  di Brandisona, di Boario e di Poggio (Località della pianura Forlivese tra il Montone e il Ronco in buona parte oggi scomparse), di Barisano, gettando a terra il campanile et altri lochi intorno; et in odio de’ Ravegnani fu abbruciata la villa di San Pietro in Trentola (Carrari, pag. 270). Avuta notizia che a Forlì erano convenuti il Conte di Romagna Corrado d’Hollenstein, il suo vicario Giovanni di Worms e il Conte Buono di Montefeltro con i rappresentanti delle città di Ravenna, Rimini, Forlimpopoli e Bertinoro, i faentini con la Confederazione da loro istituita posero la città sotto assedio. Ma nuovamente Bologna è invasa dai modenesi per cui le sue truppe decisero di abbandonare l’accerchiamento.


Miniatura del 1250 raffigurante cavalieri in battaglia.
     Rimasti soli dopo un breve ripensamento i faentini: “Lasciato il campo, se ne tornarono a Faenza, donde dopo avere fatto adorno il palagio del comune degli scudi e stendardi tolti agl’inimici, e lasciate a guardia della città le genti di Modigliana e le soldatesche forensi, sincaminarono alla volta di Bologna” (Vesi, pag. 421), forti di duecento cavalleggeri e seicento fanti il 16 giugno corsero in aiuto all’alleato. Nella pianura modenese la cavalleria faentina distrugge e saccheggia le città di Soliera, Ciano, Pieve di Trebbo e Marano raggiungendo anche Nonantola e Panzano. Lo scontro finale avviene in due località diverse a Fossalto e a Ponte di Navicello, ma con il “sopraggiungere della mezzanotte” la battaglia terminò senza un vincitore. Finite le incursioni nel modenese, ricominciano le scorribande nel forlivese, viene saccheggiata Forlimpopoli, nonostante fosse difesa da truppe di Ravenna le quali preferirono non accettare battaglia. Nel ritorno depredarono la pianura di Ravenna fino ai ponticelli di San Vitale distanti solo “tre miglia dal centro della città” (il Rossini ipotizza la loro collocazione nelle vicinanze dell’omonima Basilica, Tolosano-Rossini, pag.163), con i ravennati immobili a vedere dalle mura della città tanta devastazione, e non accettando il combattimento tutto finisce con un atto di derisione e di sfida volta unicamente a umiliare e a ridicolizzare il nemico assediato. 

   Nel settembre 1235 vengono incendiati i castelli di Meldola e delle Caminate. Il 12 di ottobre viene depredata tutta la campagna di Ravenna, i paesini di Fiume Novo, Pradello, San Pietro in Vincoli e di Longana vengono incendiati.
Le truppe faentine guidate dal Podestà Rubaconte da Mandello arrivano fino alla zona conosciuta col nome “le fornaci”  (Fornace Zarattini ?) arrivando nuovamente sotto le mura della città, ma stranamente il Podestà faentino fermò l’assalto finale. Il 1236 inizia con una nuova scorreria in gennaio nel contado di Forlì, le scole di San Pietro e San Agostino vengono incendiate. Il 23 marzo un piccolo esercito  di arcieri e balestrieri con baliste e macchine da assedio guidate da Rubaconte con ausiliari soldati Bolognesi, di Dozza e Modigliana assaltano il castello di Laureta (luogo a tutt’oggi identificabile col castrum Laurete che s’ergeva sopra Fiumana di Predappio. Carrari, pag. 273). Il Conte Ubaldo (secondo Messeri-Calzi pag. 57 Conte Alberto) vistosi perso accettò la resa senza dar battaglia. Faenza, di “spontanea dedizione ascrisse il Conte” (Righi pag. 225) nel libro paga del Comune, donandogli la cittadinanza onoraria.  Arriva aprile, e dopo aver sostato a San Lorenzo in Niceto (oggi Noceto) le truppe faentine distruggono i vigneti del Remondeto (nome di un fondo Remondetus o Remondedus ) e di Vecchiazzano. Sulla via del ritorno vengono avvistati dalle truppe di Forlì, Ravenna, Forlimpopoli e Bertinoro guidate dal Conte Giovanni di Worms, vicario del Conte di Romagna, di ritorno da una scorribanda contro Cesena compiuta il 15 marzo nella quale “soffersero una tremenda sconfitta”, ma non sortì nessuna battaglia. Si viveva nel terrore delle continue incursioni dei faentini, ora tutti erano decisi a dar battaglia; mancava solo l’occasione, e questa venne nel mese di maggio con la battaglia della Pianta di  Burfagliaco.


La Battaglia
   Lasciata Faenza custodita da truppe di Modigliana e di Dozza, la cavalleria faentina raggiunge il 7 maggio la Pianta di Burfagliaco, nei pressi di Godo, ove fissa l’accampamento;  il giorno seguente raggiunge San Michele Arcangelo di Ravenna (luogo oggi forse identificabile con San Michele, frazione di Ravenna. Carrari pag. 274), il 9 sono ai Ponticelli di San Vitale, ove distruggono alcune case facendo molti prigionieri. Nella serata arrivano a Lanzimaco (oggi San Michele in Lancimaco) ove si accampano. Il 10 “si disposero a rimpatriare mandando innanzi le salmerie ricolme di ricchissimo bottino” (Righi, pag. 226). L’11 maggio i faentini raggiungono nuovamente la Pianta di Burfagliaco e smontano l’accampamento principale. Frattanto a Godo era acquartierato un ben organizzato esercito composto dalle milizie di Ravenna, Forlì, Forlimpopoli, Bertinoro, Meldola, Castelnuovo e Rimini, con le truppe del Conte di Romagna.


Cavaliere in perfetta tenuta di guerra, in una miniatura italiana XII sec.,
tratta dagli "Annali genovesi". Parigi Bibliotheque Nazionale.   
     Intercettati dalla Confederazione alcuni carri faentini rimasti isolati dal grosso delle salmerie vengono assaltati e depredati dalla cavalleria forlivese, la quale poi viene inviata a cercare lo scontro con il grosso delle forze faentine. Uditi il rumore delle armi e il movimento delle truppe, la cavalleria faentina si affrettò a raggrupparsi in formazione per dar battaglia al nemico, dispiegando le insegne del Podestà faentino Rubaconte da Mandello, ove tre leoni “illeopardati” e artigliati dal colore dorato spiccano su fondo rosso.
 Nel posto denominato la Pianta di Burfagliaco i due eserciti si scontrarono, e dopo una breve battaglia la cavalleria forlivese viene sconfitta. Il tempo necessario per raggrupparsi e curare i feriti, quando all’orizzonte appare l’esercito ravennate appoggiato da cinquecento fanti riminesi muniti di “manarolas” (lunga picca con un’ascia fissata in cima)  (2) e macchine da guerra quali petriere e baliste che al grido “Dove è il loro protettore San Pietro? Dove è il loro Claviger?” (Tolosano – Rossini, pag. 171) avanzavano pronti a combattere.  La battaglia fu tremenda, con oltre trecento morti; la cavalleria faentina riuscì a mettere in fuga le truppe dei ravennati e riminesi, nonostante la difficoltà di affrontare le “manarolas” che permettevano di contrastare al meglio la cavalleria corazzata faentina. Il resto delle milizie Confederate pronte alla battaglia, visto le sorti che il combattimento stava assumendo, preferirono desistere e rifiutare lo scontro. Tra il bottino caduto in mano ai faentini furono trovati numerosi anelli di ferro chiamati basiapiedes (bacciapiedi) che a quei tempi venivano usati come catene per immobilizzare le gambe dei cavalli e il collo dei soldati, in segno di derisione e disprezzo dei prigionieri, provocando nelle schiere faentine una irrefrenabile ira. Sul campo cominciò allora una strage, con l’uccidere i feriti e quanti erano caduti prigionieri, ma l’intervento di alcuni religiosi pose fine a tanta crudeltà, supplicando una pace fra le parti.

   Venne liberato il prato innanzi il fronte dei due eserciti creandovi uno spazio neutro, ove convennero per trattare la resa davanti al Podestà di Faenza i Podestà di Forlì, Ravenna, Rimini il conte Malvicino da Bagnacavallo, Buonconte di Montefeltro, Paolo Traversari e l’Arcivescovo di Ravenna Teoderico. “Rubaconte chiesto a parlamento comparve armato sul suo destriero, e indicò bieco in volto , che tutta l’oste [l’esercito] nimica si costituisse cattiva de’ Faentini, o si  prevarrebbe di que’ diritti più rigidi, che derivavagli dalla vittoria” (Savioli, pag. 124).  Dure le condizioni imposte agli sconfitti: l’esercito sgominato non poteva partire se non si fosse sottomesso e la città di Ravenna doveva dichiararsi vassalla dei faentini, tanto da far urlare a Rubaconte secondo il Cantinelli nel “Chronicon” (Tonducci pag. 273) “Si vultis tamquam captos B. Petri Vexilliferi nostri, et Communis Fav. Vos vocari, vobis redeundi licenzia exhibebo” (Se volete essere chiamati come prigionieri del Beato Pietro nostro confaloniero io vi darò il permesso di tornare).

   Dopo molto dialogare il Podestà di Forlì Guglielmo Amato promise fedeltà a Faenza, accettando per il futuro che fosse la città del Lamone a eleggere il  Podestà forlivese, e quindi furono liberi di ritornare. Con Ravenna  la trattativa rimase bloccata nonostante le suppliche dell’Arcivescovo Teoderico e di Paolo Traversari, ma visto il sopraggiungere della sera Rubaconte venne a più miti consigli, consentendo una tregua per poter ritornare a Faenza, accompagnato da un ingente bottino di guerra. Trenta vessilli e sei petriere fanno da corona al trionfante ritorno di Rubaconte da Mandello, con al seguito di tremilasettecento prigionieri e come riporta il Cantinelli (Tonducci pag. 273) “…che a pena furono sufficienti le case de’ particolari della Città per distribuire tanta moltitudine in custodia”, in quanto nel 1240 Faenza contava su circa diecimila abitanti come riporta Piero Zama a pag. 37 nel libro “I Manfredi”. Vengono omologati gli accordi di pace con Forlì: “Giurarono nel mese di maggio [8 maggio] Forlivesi alla presenza di tutto il popolo di sottomettersi a tutti i comandamenti de’ Faentini, ma quali fussero dipoi le condizioni, e i precetti, che dessero loro Faentini, non si è potuto causare dalla scrittura corrotta, e guasta”  della  pergamena in cui e rogato il trattato di pace (Zuccolo, pag. 122). Passano pochi giorni e il 9 giugno, in accordo con i cesenati, la cavalleria faentina invade il territorio di Bertinoro, distruggendo la campagna circostante, vengono conquistate Forlimpopoli  e Meldola, mentre per occupare la rocca di Castelnuovo si deve combattere una furiosa battaglia assieme agli uomini di Modigliana per espugnarla“.. lo presero appresso la rocca, e per via scoscesa et asprissima salendo posero il foco nelle case del detto borgo…” (Carrari, pag. 276) costringendo i difensori ad accettare anch’essi i Podestà  imposti da Faenza dietro consegna di venti ostaggi. Al ritorno, la cavalleria faentina passando da Forlì viene accolta da una folla festante ove “…..gli abitanti avevano poste per le vie enormi botti di vino, invitando colle tazze colme a bere i soldati che tuttavia passavano”. (Carlo Morbio pag. 170).  A luglio, una squadra di soldati composta da cavalieri di porta Montanara e fanti di porta Imolese assaltano e conquistano Monte Maggiore (ora Monte Mauro), presidio custodito da soldati tedeschi ivi posti dall’ Imperatore Federico II a guardia del territorio imolese. Dopo queste fulminee vittorie Rubaconte da Mandello aveva stabilito un effimero predominio sulla Romagna, tanto potente era la sua cavalleria, da inviare nel mese di settembre “…cinquecento cavalli a Mantoa et a Brescia in aiuto de’ Lombardi lor colleghi..” della Lega Lombarda a difesa di Milano minacciata di essere invasa da Federico II (Carrari, pag. 277.
Lo Zuccolo a pag. 121 parla invece di “cinquanta cavalli”).


Battaglia di Benevento del 1266 tra Carlo d'Angiò e Manfredi.
Oxford Boblein Library.
     Contemporaneamente, nei primi giorni di ottobre i faentini coi cesenati continuano nelle loro scorrerie delle campagne di Bertinoro e Ravenna sostenendo la parte Guelfa nelle contese in Romagna. L’inverno avanza ma le cavalcate dei faentini nei territori di Forlì e Ravenna non si fermano: vengono saccheggiate Carpanella (oggi Carpinello), Grisago (oggi Grisignano), San Zaccaria, San Cassiano e il paese di Traversara. Non trovando ostacoli sul loro percorso arrivarono verso la metà di ottobre al ponte di San Gervaso (si trovava lungo la strada che da Ravenna per Castiglione conduce a Cervia), fortificato da due torri e da un fossato costruito dai ravennati sul fiume Savio posto in prossimità del mare, e scoprendolo indifeso lo demoliscono.  Nel mese di gennaio del 1237, senza avvisare i faentini, un accordo viene firmato dai cesenati con “le genti” di Ravenna, Forlì, Rimini, Forlimpopoli, Bertinoro, Meldola, Castelnuovo, Civitella, e con Buonconte da Montefeltro, Guido di Carpegna e il Conte di Romagna Giovanni Worms, e con gli Urbinati, ponendo fine a una serie di guerre che aveva insanguinato la Romagna per tre anni essendo iniziata nel 1234. Ma una nuova guerra sta per sconvolgere tutta l’Italia e anche Faenza: Federico II è in procinto di marciare alla conquista della Penisola. Nei primi mesi del 1237 Rubaconte da Mandello lascia la Podesteria di Faenza per quella di Firenze. Il 27 novembre 1237 l’esercito di Federico II presso il fiume Oglio a Cortenuova sconfigge le città padane, riunite nella seconda Lega Lombarda; questa vittoria diede speranza ai ghibellini di poter riconquistare le città guelfe.

   Il 1238 vede il sorgere delle rivalità tra i Manfredi guelfi e gli Accarisi ghibellini, per assicurarsi il potere a Faenza, questo conflitto degenera in sanguinosi scontri cittadini, e nel breve periodo di due anni Faenza vede alternarsi le due famiglie nel governo della città. E’ del medesimo anno il fatto di cronaca che vede l’uccisione di Garatone de’ Zambrasi per mano del guelfo Amatore Bulzaca che negli anni  successivi darà il pretesto a Tebaldello de’ Zambrasi (vedi “2001 Romagna” n°141 anno 2013, pag. 70 - 79) di congiurare con la Bologna guelfa e consegnarle Faenza. Nel luglio del 1238 gli Accarisi con l’aiuto dei Traversari di Ravenna governano a Faenza, ma dopo pochi mesi con il sostegno dei Bolognesi i Manfredi ne riacquistano il potere fino al 1239, quando una forte coalizione composta dalle città di Forlì, Castrocaro e Bagnacavallo “che in tutti formavano un’ esercito di 20 mila combattenti” (Tonduzzi, pag. 278)  pose la città sotto assedio, nel mese di settembre. Ma il tempestivo intervento dell’esercito Bolognese sconfisse gli assedianti, procurando loro forti perdite e cinquecento prigionieri tra cui il conte di Romagna Aghinolfo da Modigliana, il conte Malvicino di Bagnacavallo, il conte Tigrino Guerra di Forlì e il podestà di Castocaro. Dopo questa vittoria Bologna impose a Faenza il Podestà Bolognese Fabro Lambertazzi. Con la dipartita di Rubaconte da Mandello, da Faenza per Firenze, la città aveva perso un valido condottiero militare e si era vista nei confronti del  fedele e forte alleato bolognese decadere al rango di città soggetta, e bisognosa essa stessa di protezione militare. Il 20 di dicembre la Lega Lombarda riunisce a Bologna i Podestà e i Pretori di Milano, Brescia, Piacenza, Alessandria, Venezia; con il Legato Pontificio Gregorio di Montelongo vi è il marchese Azzo d’Este, mentre Faenza è rappresentata da Fabro Lambertazzi. Si decise di deporre il ghibellino Salinguerra Torelli dal governo di Ferrara, dandosi appuntamento ai primi di febbraio “ai prati del Borgo di San Luca di Ferrara” . La città difesa da cinquecento “teutonici” e alcune schiere di modenesi e parmigiani, si arrese dopo una valorosa resistenza di quattro mesi, il 2 giugno 1240. Giurando il nuovo Podestà Stefano Badoaro fedeltà alla Chiesa, Ferrara entrava direttamente nell’orbita degli Stati vassalli della Chiesa (Savioli, pag. 156-157). Ma una grave minaccia sta incombendo su Faenza: il 26 agosto 1240 l’esercito di Federico II la cinge d’assedio, e dopo otto mesi il 14 aprile 1241 le truppe imperiali ne vincono la gloriosa resistenza e la conquistano.
 Su Faenza ora sventola il vessillo imperiale di Federico II.

Biografia di Rubaconte da Mandello
   La data di nascita non è certa, molto probabilmente nacque a Milano attorno al 1170. La sua attività politica inizia nel 1196 quando ricopre la carica di console del Comune di Milano per poi passare nel 1200 alla mansione di consigliere comunale. Anni in cui lo troviamo assieme ai Cremonesi in lotta contro Crema per il possesso di Castel Leone (oggi Castelleone (Cremona))  ove Milano venne sconfitta, perdendo nella battaglia il simbolo del comune ossia “il Carroccio”. Lasciate queste cariche importanti ma non soddisfacenti si dedica alla carriera di Podestà. Il suo primo incarico l’ottiene nel 1202 diventando Podestà di Novara, promovendo la demolizione degli edifici abusivi che erano stati edificati contro le mura di cinta romane all’interno della città, ma costruendo nel contempo un borgo poco distante dal fiume Sesia, fortificandolo con una torre di avvistamento a guardia e controllo dei traffici della pianura per la Valsesia. Nel 1205 - 06 è Podestà a Verona ove deve dirimere le lotte interne tra i conti di San Bonifacio e i Montecchi, senza però ottenere risultati soddisfacenti. Lasciata la Podesteria  di Verona, dopo due anni viene richiamato e riconfermato nella carica nel 1208. Torna nuovamente alla guida del Governo di Novara nel 1220. Passano alcuni anni in cui non si hanno notizie delle sue attività fino al 1229, ove troviamo Rubaconte da Mandello al centro di una  congiura nobiliare organizzata dalle famiglie Colleonio, Rivola e Suardi, le quali cacciano il Podestà Pagano della Torre, nominato dal legato pontificio cardinale Goffredo da Castiglione (il futuro Papa Celestino IV), e designano Rubaconte da Mandello Podestà di Bergamo. Di fede ghibellina, come prima disposizione fece scarcerare gli eretici e li protesse. Contribuì allo sviluppo delle miniere delle valli bergamasche ricche di argento, rame e ferro promulgando i “Capitularia de metallis” volti a vietare  l’esportazione del metallo in altri comuni rivali di Bergamo che ne erano privi, emanando che “tutti i metalli del territorio debbano essere portati nella città di Bergamo”, con pene e multe per chi non rispettava tali disposizioni.


   Stemmi araldici del Podestà
   Rubaconte da Mandello
     Nel 1231 risulta Podestà di Arezzo, chiamato in quell’incarico dal “cugino” Alberto da Mandello podestà di Firenze, per consolidare l’alleanza tra le due città, alleate nella continua guerra contro Siena. Ritornato a Bergamo entrò subito in contrasto nel 1233 con  il vescovo Giovanni, il quale insorse contro i “Capitularia de metallis”. Il contenzioso, dopo alterne vicende, si concluse il 14 giugno 1235, quando il Vescovo di Brescia, delegato dal Papa Gregorio IX, chiamato a decidere giudicò che i paesi delle miniere di Gromo e Ardesio, avevano tutti i diritti di lavorare in loco i minerali (3). Prima della fine del suo mandato avvenuta nel 1235 porta a termine un canale di irrigazione denominato “Seriola Nova” il quale inizia nei pressi di Bergamo, attraversa il territorio di Vettianica e termina nelle campagne dei comuni di Levate e Verdello.  Dal 1235 al 1237 è Podestà di Faenza, distinguendosi come abile comandante della “cavalleria faentina”  tanto da essere richiesto da Bologna e dalla Lega Lombarda nelle “scorribande” contro Modena e Federico II.  Nel 1237 Rubaconte da Mandello diventa Podestà di Firenze, iniziando nel medesimo anno la costruzione di un ponte  nel luogo ove oggi sorge il Ponte alle  Grazie: “egli fondò con sua mano la prima pietra, e gettò la prima cesta di calcina” (Villani Cronica volume VI capitolo 26).

   Era costruito interamente in pietra, a nove arcate, nel punto più ampio del fiume su disegno che Giorgio Vasari riconduce all’architetto Lapo ossia Jacopo Tedesco. Venne subito denominato “Ponte di Rubaconte” e come Ponte Vecchio era contornato da un certo numero di costruzioni in legno, perlopiù tabernacoli poi trasformati nel 1471 in cappelle, romitoi e botteghe. Fatto saltare dai tedeschi nell’agosto del 1944, è ora sostituito dal Ponte alle Grazie inaugurato nel 1957. Rubaconte è citato da  Dante nel Purgatorio, (canto XII vv.100 - 105) :


Scontro tra Angioini e Aragonesi in una miniatura del Codice Chigi.
Roma Biblioteca Apostolica Vaticana.

     “Come a man destra per salir al monte / dove siede la chiesa che soggioga / la ben guidata sopra Rubaconte /  si rompe del montar l’ardita foga / per le scalee che si fero ad etade / ch’era sicuro e’l quaderno e la doga”, perifrasi per indicare come per salire all’epoca alla chiesa  di San Miniato al monte, che domina dall’alto la ben governata Firenze, in vicinanza del ponte sull’Arno appellato Rubiconte, si rende meno difficile l’ascesa per mezzo delle scale che si fecero in un’età in cui non si commettevano frodi né si falsificavano i libri dei conti pubblici né le misure. Anche il poeta e novelliere Franco Sacchetti ( Ragusa di Dalmazia,1332 – San Miniato 1400), podestà di Faenza dal maggio del 1396 al 15 aprile 1397, nella sua celebre raccolta “Trecentonovelle” dedica a Rubaconte la novella numero CXCVI (196), esaltandone la sua dote di uomo giusto e paragonando le sue sentenze, prese nella novella a quelle di Salamone, ma sempre in una visione di allegria e condita con un profondo senso morale. A Rubaconte da Mandello si deve inoltre la lastricatura di molte strade cittadine, “per lo quale acconcio e lavorio la cittade di Firenze divenne più netta, e più bella, e più sana” (Villani Vol. VII, cap. XXVI).  Sotto la sua podesteria si coniò la prima moneta fiorentina, il fiorino d’argento con impresse le figure del giglio e del Battista, a rigogliosa riprova dell’autonomia ottenuta dal Comune. Tra i compiti del podestà vi era quello di intervenire tra i conflitti che sorgevano tra guelfi e ghibellini non solo cittadini, ma anche all’esterno del comune. Nel 1237 fu chiamato ad arbitrare, per il suo prestigio un conflitto sorto tra i nobili e il popolo di Pistoia.

   Nel luglio del 1237 è richiesto il suo intervento nelle trattative di pace tra San Geminiano e Volterra in conflitto dal 1236, sostenendo in maniera tendenziosa la “città delle cento torri”, ma respingendo con fermezza un tentativo di corruzione intentato dai volterrani verso il nipote Arnaldo; la tempestiva denuncia aumentò il suo prestigio di diplomatico. Nella battaglia di Cortenuova del 27 novembre 1237 i due suoi figli Uberto e Ruffino vengono catturati dall’imperatore Federico II, poi rilasciati alcuni anni dopo in seguito al  pagamento di un riscatto. Firenze nell’estate 1238 assunse una posizione filo imperiale che mantenne per i successivi dodici anni abbandonando l’alleanza con Milano, e generando in Rubiconte un profondo malessere. Entrato in conflitto con il vescovo Ardingo venne accusato di eresia e nel giugno del 1238 fu costretto a lasciare la città a Gerhard di Arnstein, funzionario imperiale. Di lui non si hanno più notizie.

Bibliografia
Bonoli Paolo, Historie della città di Forlì, Forlì 1661.
Caproni Riccardo, La battaglia di Cortenova, Bergamo 1987.
Carrari Vincenzo, Istoria di Romagna, Ravenna 2007.
Chiaramonti Scipione, Caesenae Historia, Cesena 1640.
Cipolla Carlo, Antiche cronache veronesi, Verona 1880.
Dalmonte Carlo, Statue di Ferro,Faenza 1998.
Dalmonte Carlo, Guerre e condottieri nella Romagna medievale, Cesena 2007.
Dal Pozzo Ugo, Storia di Faenza, Imola 1960.
Dari Andrea, Il Palazzo del Podestà di Faenza, Faenza 2006.
Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 68, Roma 2007.
Enciclopedia Dantesca Treccani, Edizione On-Line.
Enciclopedia Treccani, Edizione On-Line.
Enciclopedia Fridericiana Treccani, Edizione On-Line.
Fileno dalla Tuata, Istoria di Bologna, Bologna 2005.
Garone Giuseppe, I Reggitori di Novara, Novara 1865.
Ghirarducci Cherubino, Historia di Bologna, Bologna 1596.
Hessel Alfred, Storie della città di Bologna, Bologna 1975.
Larner John, Signorie di Romagna, Bologna 1972.
Lega Achille, Fortilizi in Val di Lamone, Sala Bolognese 1989.
Mallett Michael, Signori e mercenari, Bologna 1983.
Medri Antonio, Un panorama di Faenza del ‘700, Faenza 1928.
Messeri Antonio –  Calzi Achille, Faenza nella storia e nell’arte, Faenza 1909.
Montanari Antonio, Guida storica di Faenza, Faenza 1882.

Morbio Carlo, Storie dei municipi italiani, Milano 1836

Il Nuovo Piccolo, 4 aprile 1937.
Righi Bartolomeo, Annali della città di Faenza, Faenza 1840.
Rosetti Emilio, Romagna geografia e storia, Bologna 1980.
Rossi  Girolamo, Storie Ravennati, Ravenna 1996.
Sacchetti Franco, Trecentonovelle, Torino 1970.
Savini Rino, La mia Faenza -  storia della città, Faenza 1989.
Savioli Ludovico, Annali Bolognesi, Bassano 1795.
Saviotti Stefano, Le mura di Faenza, Faenza 2001.
Saviotti Stefano – Gamberini Miro, La Pieve di Corleto, la storia, Faenza 2009. (CD – Rom).
Settia Aldo A., Rapine, assedi, battaglie, Bari 2003.
Settia Aldo A., Comuni in guerra. Armi ed eserciti nell’Italia delle città, Bologna, 1993.
Sgubbi Domenico, Diocesi e cultura cattolica nella storia di Faenza, Faenza 1991.
Tabanelli Mario, Dominii dei Manfredi: castelli e rocche, Brescia 1983.
Tolosano-Rossini, Magister Tolosanus, Chronicon Faventinum, Bologna 1936-1939.
Tonduzzi Giulio Cesare, Historie di Faenza, Faenza 1675.
Valgimigli Gian Marcello, Memorie storiche di Faenza, Manoscritto. (Biblioteca Comunale Faenza)
Vasina Augusto, Rapporti tra Bologna e Faenza nei secoli XII e XIII, in Studi Romagnoli n° IX.
Vesi Antonio, Storia di Romagna dal principio  dell’era volgare ai giorni nostri, Vol. II Bologna 1845.
Villani Giovanni, Cronica, Tomo III, Firenze 1847.
Zama Pietro, I Manfredi, Faenza 1954.
Zuccolo Gregorio, Cronica particolare delle cose fatte dalla città di Faenza, dal DCC incirca al MCCXXXVI,
a cura di Saverio Regoli, Faenza 1885.
Zuccolo Gregorio, Croniche di Faenza del signore Gregorio Zuccolo, Manoscritto n.° 24, tomo 2.

Nota

1) Il Tolosano nel volume curato dal Rossini “Chronicon Faventinum” a pag. 163, cap. 203, usque Plantam de Borfagliaco. Nel  sec. XIV era una scola – ossia villa – in territorio ravennate, plebato di Santo Stefani in Tegurio fin dal 1170. In una carta di S. Maria di Porto del 14 maggio 1211 conservata nella Biblioteca Classense viene nominata. Nelle carte ravennate la detta località è riconosciuta fino al 1351, ove è segnalata una via qua itur ad Plantam . Esiste oggi una via Bruffaiaga che da Godo va in direzione di Santa Giustina di Russi.
2) (“Ariminenses cum quingentis peditibus electis manarolas habentibus” nella trascrizione del Manoscritto [manarola = sarrepicche: picca fatta a mo’ di sarissa (ascia) ] se questa traduzione e interpretazione del  manoscritto lasciataci dal Carrari a pag. 274 e rivisitata da Umberto Zaccarini è esatta sarebbe la prima volta che su un campo di battaglia fa la sua apparizione la lanzalonga tredici anni prima di venire usata dai bolognesi nel 1249 nella battaglia di Fossalta sul Panaro).
3) Le notizie sulle miniere di Gromo e Ardesia sono tratte  dal “Piano di Governo del territorio di Gromo (BG)” del 2011.


Home
Storia Medioevale