Un fatto di cronaca del 1589

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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Storia Medioevale


Un fatto di cronaca del 1589

di Miro Gamberini

Nel 1589 il Consiglio degli Anziani di Faenza esilia per motivi politici Giovan Battista Severoli, Scipione Stradelli e Gian Paolo Pitrelli. Il 15 ottobre gli esiliati con l’aiuto di Francesco Barisani di Meldola, tentano con scale e corde munite di arpioni di scavalcare le mura cittadine. Loro scopo è quello di uccidere alcuni componenti delle famiglie Pasi e Naldi ritenute colpevoli del loro allontanamento dalla vita politica della città. Scoperti, dopo uno scontro ad archibugiate, tre di loro vengono catturati, mentre Giovan Battista Severoli riesce a fuggire. Subito interrogati dal Governatore di Faenza Ottavio Pamphili, confessano le loro intenzioni. Un verbale con le interrogazioni viene inviato a Roma alla Camera di Conciliazione Fiscale per stabilire la pena da infliggere ai rei confessi.
Senza aspettare la risposta il Governatore condanna a morte gli imputati, impiccando i rei confessi il 4 dicembre, lasciando poi esposti i loro corpi per vari giorni nella “Piazza Maggiore”. Passano pochi giorni e le case dei congiurati e dei fiancheggiatori vengono demolite come ci informa il Tonduzzi nelle sue Historie (pag. 699) “…fatte gettare a terra tre case, cioè una  di detta signora per nome Violante Marzani già moglie di Antonio Cavina vicino a S. Salvatore, l’altra de i Stradelli nella Contrada  degl’Angeli, e la terza del Capitano Giovanni Battista Severoli nella Parochia di San Cassiano”.

Terminato il suo mandato di Governatore di Faenza, alla fine di dicembre, Ottavio Pamphili lascia l’incarico a Monsignor Aurelio Tortora di Pesaro, per assumere la funzione di Commissario Apostolico (Magistrato di Giustizia) nei processi contro il brigantaggio a Faenza. La decisione del Governatore di impiccare i banditi diede il pretesto a Girolamo Stradelli, fratello di Scipione, di vendicarsi. Come documentato da un verbale del Consiglio Comunale (Acta Consilii, vol. 17, foglio 201) Girolamo Stradelli imputa al Pamphili di aver deciso di far uccidere il fratello impiccandolo, pena che veniva adottata “di frequente con uomini spregiati e vili”, mentre in quel periodo una condanna a morte per persone di “nobile casato” era quella del taglio della testa con una “mannaja” (Annali della città di Faenza, Righi, pag. 162). Girolamo stringe accordi con una banda di banditi, “e se ne rese capo a disegno di vendicarsi del Pamphili, del suo Luogo-tenente e del Cancelliere” (Righi, pag. 162). Radunati settanta uomini l’ 8 di gennaio 1590 penetra in città trovando alloggio in casa di persone fidate. Quando venti soldati montano a guardia del pubblico Palazzo “il che si praticava in sulle ore due d’ogni notte, da poi che erano cresciute le forze, e l’audacia ai banditi”, scatta l’imboscata con uno scambio di archibugiate. I soldati si schierano a difesa del Palazzo e del Governatore. Dopo una breve ostilità la residenza viene conquistata.
Cadono colpiti a morte Marcantonio Pasi e un passante di professione “macellajo”. Gli insorti, una volta penetrati, abbattono le porte, sfasciano i mobili, rompono e distruggono tutto ciò che trovano. Girolamo arriva alla stanza del Commissario Apostolico, ma, trovandola chiusa, atterra “la porta della stanza, donde allora allora era fuggito” il Pamphili. Girolamo Stradelli brucia e distrugge gli incartamenti trovati, poi si ritira lasciando due capestri di corda sulla scrivania a monito della fine che gli avrebbe fatto fare una volta catturato il Pamphili. Attraverso una scala segreta che collegava la stanza del Commissario con le prigioni, situate sotto l’odierna via Pistocchi, il Pamphili si mette in salvo. Quando un bandito ferito accidentalmente dallo scoppio del proprio fucile convince Girolamo Stradelli di non “poter più mettere le mani” sul Commissario, preferisce abbandonare la contesa. Contemporaneamente nelle vie cittadine si combatte, anche perché parecchi cittadini si sono radunati in piazza richiamati dal suono a “martello” della campana della Torre Civica. Alle prime luci dell’alba si contano otto morti.

Il Palazzo del Podestà e la Torre civica in un disegno di Alessandro Maggi.

Immediatamente il Consiglio Comunale decide di inviare a Ravenna Nicolò Barbavari a consulto del Cardinale Legato di Romagna Domenico Pinelli, per aggiornarlo sulla situazione faentina. L’incursione effettuata con tanta audacia dai banditi ha causato a Roma un senso di impotenza militare nella lotta al banditismo in Romagna. Il 15 gennaio 1590 il Papa Sisto V sostituisce il Cardinale Legato di Romagna Domenico Pinelli con il Cardinale Antonio Maria Galli, suo fido segretario, il nuovo Legato è accompagnato dal suo “Auditore criminale” Traiano Gallo di Osimo definito dal cronista Tonduzzi “huomo fiero e crudele”. Il  28 gennaio i due porporati sono a Faenza per avviare le indagini e scoprire chi ha aiutato i banditi a entrare in città. In questo clima di terrore e inquisizione una confidenza fatta al Traiano da una ragazza indirizza le indagini su Pietro Scardassino di professione “majolicaio”.  Convocato “è soggettato alla colla”, (tortura  consistente nel sollevare il condannato tramite una carrucola, con le braccia legate dietro la schiena e con i piedi avvolti da alcuni pesi. Lasciato penzolare per una durata che andava fino a un’ora, veniva poi fatto cadere con violenza a terra) confessa di “aver fatto entrare i banditi dal Baloardo (Borgotto), tirandoli su oltre le mura della città” accompagnandoli in casa di una famiglia di nome Biancini, ove trovarono rifugio. I Biancini, famiglia signorile faentina, era composta di tre persone, la mamma vedova e due figli, un maschio di undici e una femmina di quattordici anni, più un colono che fungeva da aiutante nei campi. Sottoposti a tortura, confessano, solo la mamma nega con ostinazione di aver aiutato Girolamo Strambelli. Vengono tutti condannati a morte, senza essere stati difesi da nessuno. Il 14 febbraio, verso sera, a Scardassino viene prima tagliata una mano, poi impiccato assieme al colono, mentre alla mamma e ai figli è tagliata la testa. I corpi deposti su una stuoia vengono lasciati nella Corte del Palazzo (Piazza della Molinella) a dimostrazione di “giustizia è stata fatta”.


Tortura della "colla” consistente nel sollevare il condannato tramite una carrucola, con le braccia legate dietro la schiena e con i piedi avvolti da alcuni pesi. A lato una esecuzione.

I cronisti dell’epoca ci informano: “Cotal vista mise pietà e orrore ne’ cittadini tanto più che venuta in chiaro l’innocenza de’ giustiziati” il Cardinale Antonio Maria Galli “offrì alla Santa Casa di Loreto una lampada d’argento da ardere perpetuamente in espiazione della propria colpa di quelle anime ingiustamente condannate”. Anche il Consiglio degli Anziani, angosciato per l’accaduto “promise à nome publico di far celebrare ogn’anno in perpetuo il giorno di san Valentino, che è li 14 febraro, nel quale à punto fù esseguita la rigorosa giustizia sudetta all’Altare della Santissima Concettione in S. Francesco tre messe votive…”. Il Consiglio Comunale degli Anziani viene messo sotto indagine. Il comandante delle guardie del Cardinale Ottavio Pamphili è accusato di negligenza per non aver saputo difendere il Palazzo dall’assalto dei banditi e lo rimandano a giudizio. Gli avvocati Leonardo Morigi e Andrea Bertramini Procuratore del Comune riescono a limitare i danni, consistenti nell’esborso di 2000 scudi per il mantenimento di 1000 uomini inviati a Faenza per combattere i banditi.

Impiccati cinquecenteschi in un disegno di Annibale Carracci.


Dopo quattro giorni di udienze la somma viene ridotta a 1000 scudi, a patto però che il Consiglio vigili con maggior attenzione sulla città e sui palazzi governativi. Visti vani i tentativi di combattere i banditi con bandi e con l’uso della forza, il Cardinale Legato determina di concedere a cento banditi un salvacondotto riconoscendo anche un vitalizio mensile di quattro scudi a condizione di non “albergare a Faenza e mutassero costume”.
Questa decisione sortisce l’effetto contrario, i banditi si riuniscono in bande più organizzate, fortificandosi nelle rocche di Montemaggiore (oggi Monte Mauro) e Rontana, da dove compiono quotidiane  incursioni nel territorio faentino. Il Consiglio degli Anziani il 15 febbraio 1591 istituisce un corpo di spedizione di 150 archibugieri per fronteggiare i banditi, ponendoli agli ordini del Capitano Pompeo Dal Pane “pratico, valoroso, e veterano soldato”, con l’incarico di controllare continuamente la campagna faentina “e la tenesse netta dai fuorusciti”, pagando per questi soldati quattro scudi d’oro al mese per ciascuno prelevando detta somma dalle casse comunali.
Contemporaneamente a Roma in udienza al nuovo Papa Gregorio XIV, viene inviato messer Gregorio Zuccolo (il cronista della “Cronaca faentina”) ad esporre la difficile situazione che sta attraversando Faenza nella lotta ai briganti, e cercare come fronteggiare la carestia che sta colpendo vaste zone del territorio comunale. Il Papa invia a Ravenna il Cardinale Francesco Sforza conferendogli ampi poteri a condizione di  riuscire  “nella persecuzione de’ malandrini”. Il suo primo provvedimento è quello di costituire per ogni città delle squadre di venti soldati “che andando intorno continuamente per la campagna la purgassero dai fuorusciti, e dai banditi….”. Quindi stringe un accordo col duca di Ferrara [Alfonso II] dal quale ottiene 600 fanti e 400 cavalieri agli ordini di Enea Montecuccoli, “e questi riuscì finalmente a purgar la campagna da tal peste”. (Messeri-Calzi,  Faenza nella storia e nell’arte, pag. 257)


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