La Signoria dei Manfredi iniziò 700 anni fa a Faenza

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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La Signoria dei Manfredi iniziò 700 anni fa Faenza

Santa Cortesi

A quasi un anno dalla scomparsa di Santa Cortesi, proponiamo un articolo scritto nel 2012 per la rivista 2001 Romagna

Faenza, come del resto la Romagna, apparteneva alla Chiesa dal 1278 e i papi proclamavano su città e territori i loro diritti, come governo centrale non certo gradito ai sudditi. Quando signorotti locali usurpavano il potere, ciò che avviene nel processo di transizione da comune a signoria, e il papa è costretto a riconoscerli, li legalizza come vicari, titolo a tempo, non vitalizio, da rinnovarsi da ogni nuovo pontefice, e che implica il pagamento di un censo pattuito dal vicario con la Camera apostolica. Il frequente mancato pagamento dà alla S. Sede un buon motivo per rimuovere i signori inadempienti e ripristinare il governo diretto. Le signorie che nascono nelle terre sottoposte alla chiesa sono quindi più precarie rispetto a quelle sorte in terre sottoposte all’impero. In un contesto complesso e inquieto di guerre, rivalità, emerge a Faenza (fra leggenda e storia dalla seconda metà dell’VIII secolo o più attendibilmente dopo il mille) la famiglia Manfredi di orientamento guelfo. Del nome si propone un’etimologia germanica magin frid o meinn frid dal significato di potenza e pace.


Veduta d’angolo sul quadrivio S. Michele, del duecentesco palazzo Manfredi.
 Del Duecento è la parte in basso con l’arco ogivale, la parte dei piani superiori
è alterata da ricostruzioni quattrocentesche e posteriori.

Nel gennaio 1313 sale al Palazzo del popolo Francesco I il Vecchio come defensor populi, poi capitano del popolo al quale si appoggia contro i nobili. Vi resterà, pur con discontinuità,  sino al 1343. Figlio di Alberghetto e di Geltrude delle Caminate, era pupillo di frate Alberico Manfredi. La sua ‘carriera’ politica era iniziata da giovane, quasi o appena maggiorenne, con l’infame eccidio della Castellina, uccidendo il 2 maggio 1285 il cugino Manfredo, mentre Ugolino Bocciuola poeta, figlio del cugino frate Alberico, aveva ammazzato Alberghettino, secondo figlio di Manfredo. C’erano anche sette sicari che fecero la loro parte. Sa cogliere, quasi cinquantenne, l’occasione favorevole: è ancora in Italia l’imperatore Arrigo VII, i guelfi sono in allarme, ma la temuta ripresa ghibellina non si è verificata. Francesco allora prende il potere per la parte guelfa, in nome del popolo, senza tuttavia sfidare il governo centrale rappresentato dall’inviato di re Roberto di Napoli, al quale in realtà non spiace che vi sia un capo affidabile di parte guelfa a rappresentare il potere centrale piuttosto che il governo legittimo del comune, formalmente intatto. Nel 1314 prende Imola dove insedia il figlio Ricciardo come capitano del popolo. Nel 1322 usurpa il titolo di Signore e non ha problemi per cinque anni, in assenza di legati pontifici, ma nel 1327, conscio che contrapporsi sarebbe errato, va a Bologna, ove era giunto il cardinal legato Bertrando del Poggetto, nipote del papa Giovanni XXII, a cedergli Faenza. Atto non gradito al suo secondo figlio Alberghettino (1327-1328) che con un colpo di mano prende Faenza divenendone signore nel 1327 cedendola solo nel 1328, sconfitto da forze schiaccianti fra cui anche il padre e il fratello Ricciardo. Trasferito a Bologna, è scoperto come congiurato contro il legato e gli viene tagliata la testa nel 1329.


Certamente non aveva ereditato la prudenza e l’accortezza politica di suo padre. Francesco non è più signore, ma privato cittadino, autorevole e rispettato in città coi figli legittimi Ricciardo e Malatestino (Tino), e conserva tutte le proprietà.
Egli è il primo esponente della famiglia Manfredi di cui è possibile, anche per la sua lunga vita e i fatti di cui fu protagonista, avere un chiaro ritratto di uomo accorto, di abile politico, prudente, capace di cedere di fronte al rischio, ponderato, per cui si fece e lasciò la fama di uomo giusto, come risulta anche dalla novella CCII di Franco Sacchetti, podestà a Faenza molti decenni dopo, nel 1396-97. In questa novella CCII della sua raccolta Trecentonovelle delinea un positivo ritratto di Francesco. Un poveretto derubato del suo campicello da un vicino, irriducibile prepotente, che non voleva sentir ragioni, aveva fatto suonare le campane a morto perché era morta la ragione. Francesco lo chiamò, lo ascoltò, ordinò la restituzione del campo, cui fece aggiungere altrettanta terra dal ladro, più i due fiorini spesi per far suonare le campane. Naturalmente il novelliere, podestà a Faenza quando era signore Astorgio I aveva raccolto in città voci popolari sulla saggezza del  primo signore manfredo. La signoria risorgerà solo al cadere della legazione del cardinale Del Poggetto travolto dalla sconfitta del re Giovanni di Boemia cui si era appoggiato. Gli rimasero fedeli in Romagna solo Faenza e Imola ed egli affidò la custodia di Faenza a Ricciardo che morirà nel 1340, mentre Tino prendeva Bagnacavallo. Dei due figli naturali di Ricciardo, Guglielmo e Giovanni, emergerà Giovanni di Ricciardo. La convulsa successione di legati si arresta con il cardinale spagnolo Egidio d’Albornoz, grande politico e stratega a cui tutti i signori romagnoli dovranno cedere.




A sinistra,
Tondo in pietra con l'impresa di Galeotto Manfredi:
bisturi per il salasso, gallo e palma fiorita.








A destra,
Impresa di Astorgio I, lastra di pietra calcarea proveniente dalla rocca
 di Cepparano da lui ricostruita nel 1378. Il più antico esempio
dell'impresa con dromedario sarcinato con cimiero e testa di
caprone e il motto in alto sassone "Wan ich mach" (Sol che io possa).
Nel 1352 Giovanni e Guglielmo sono scomunicati e nel 1353, dopo aspra contesa con Albornoz che gli ribadisce la scomunica, Giovanni deve cedere la città ottenendo come feudo Bagnacavallo, già posseduto da suo zio Tino. Guglielmo nel 1367 è già morto, Giovanni muore a Pistoia nel 1372, dopo aver invano tramato contro i legati in Romagna, fra cui il cardinale Anglico de Grimoard, fratello di papa Urbano V, sino a perdere le proprietà. Dei due figli maschi avuti da Ginevra di Mongardino, sua moglie, si mette in luce il minore Astorgio I (1377-1405), mentre il maggiore Francesco resta in subordine e non riuscirà a imporsi sul fratello neppure quando i nemici di Astorgio cercheranno di contrapporglielo; si ritirerà a Bologna a cui cede Solarolo e avrà la casa detta ‘del Re’ e una pensione dal comune.
La fortuna apre la via della signoria ad Astorgio proprio per le tristi condizioni e vicende che Faenza allora viveva. I rappresentanti pontifici dovevano ricorrere a mercenari stranieri che, se restavano senza paga, si inferocivano anche con i popoli amici, e Faenza nel 1376 fu in balia dell’inglese John Hacwood, Giovanni Acuto, che l’aveva occupata per il papa, e quei soprusi e  violenze insopportabili fecero fuggire migliaia di cittadini. Il cardinal legato Roberto da Ginevra, futuro antipapa Clemente VII, per impellente bisogno di denaro, vendette la città per 20000 fiorini d’oro nel 1377 a Niccolò d’Este di Ferrara, e l’Acuto se ne andò all’arrivo di un capitano ferrarese.  Astorgio I stava intanto recuperando parte delle proprietà avite acquistando credito e fama e riuscì a entrare in città costringendo il presidio ferrarese a ritirarsi nella rocca costruita nel 1371. Del 1376 circa è l’inizio della costruzione delle mura manfrediane. Dal 1378 si fregiò del titolo di Faventie dominus, nel 1379 ottenne da papa Urbano VI il vicariato e così legittimato si accordò con il signore di Ferrara su tributi in danaro e forme decennali di vassallaggio.
 

Rocca manfrediana (demolita nel 1753 per costruire l'Ospedale per gli Infermi),
 olio su tela di G. Calzi (tardo sec. XIX).

La signoria fu dunque in tal modo  ricostituita. Astorgio I era intraprendente ma anche avventato e politicamente spregiudicato. Possedeva pure doti letterarie, fu in rapporti di vicinanza e anche di corrispondenza poetica con il novelliere  Franco Sacchetti, podestà a Faenza per due mandati nel 1396-97. Rinomato capitano, fondò una sua compagnia di ventura detta della Stella. Turbinose furono le vicende in cui si coinvolse e si destreggiò per non soccombere a chi premeva sulla Romagna. Nel 1390 Bonifacio IX a Roma lo riconfermò vicario e gli regalò la rosa d’oro a sua volta donata da Astorgio alla Cattedrale faentina da cui fu rubata nel 1488. Col prezioso gioiello il papa cercava di legare a sé città e stati contro l’antipapa francese. Dal 1397 si associò nel vicariato il figlio Gian Galeazzo, avuto dalla moglie Leta, figlia di Guido da Polenta. Gian Galeazzo trattò con l’inviato del cardinal Cossa, legato di Bonifacio IX, visto che aveva rioccupato città dello stato pontificio e da Bologna stava per entrare in Romagna, dove Alberico da Barbiano a servizio del papa e nemico di Astorgio saccheggiava il territorio faentino tanto che Astorgio aveva pensato di vender Faenza ai fiorentini, i quali però non si fidavano più di lui.
Quindi secondo la trattativa di Gian Galeazzo col capitano di Cossa, Paolo Orsini, nel 1404, Faenza doveva essere ceduta per 4 anni al legato, i castelli della Val di Lamone per 5.  Ma Astorgio non si rassegnò e come capitano del Cossa mandato a Forlì che non gli si voleva arrendere, tradì dando informazioni militari ai forlivesi. Il cardinale lo fece processare per tradimento e decapitare sulla pubblica piazza faentina nel 1405. Gian Galeazzo (1410-1417) che aveva sposato Gentile Malatesta, sorella del signore di Rimini, Carlo, capitano generale di papa Gregorio XII, riuscì, grazie al cognato, a riottenere il vicariato di Faenza tolta così a Baldassare Cossa, divenuto antipapa Giovanni XXIII. Quindi riassunse nel 1410 la signoria; il papa con bolla del 28 gennaio 1412 lo investì conte della Val di Lamone con titolo ereditario in perpetuo, in pratica una elevazione a principe. Egli fu il legislatore degli Statuta redatti con l’opera preziosa di Bernardo Casali, suo vicario dottore in utroque iure. In realtà già prima della nomina a conte aveva incaricato i collaboratori esperti della stesura di 9 libri degli Statuta Faventie e dopo la nomina dispose per gli Statuta Municipalia Terrae Brisichellae et districtus Vallis Hamonis in 4 libri. Diede valore legale agli statuti nel 1414. Appena tre anni dopo nel 1417 la peste se lo portò via. Fu anche protettore delle Arti, in specie dei carpentieri, calligari (calzolai), della lana gentile, degli orzolari (maiolicari). Dopo la sua morte fu reggente Gentile Malatesta (1417-1427), sua moglie, con figli piccoli da crescere: Carlo nato nel 1406, Guido Antonio nel 1407, Astorgio nel 1412, Gian Galeazzo, nato dopo la morte del padre, Marzia e Ginevra. Gentile chiese la conferma del vicariato per i quattro maschi a papa Martino IV che la concesse, memore della lealtà di Gian Galeazzo verso Gregorio XII. Fu una reggenza positiva, in cui Gentile fu sostenuta dal Casali cancelliere e vicario da lei confermato, e dalla sua famiglia di origine, i Malatesta di Rimini.



Mino da Fiesole, Astorgio II Manfredi, National Gallery of Art, Washington, busto epigrafato, datato e firmato, seconda metà del 1455.

 Il figlio Carlo era morto ventenne, Guido Antonio, Guidaccio (1427- 1448) assunse la guida della signoria dimostrandosi avventato e sconsiderato, capitano valoroso, anche fortunato, col chiaro intento di ampliare i suoi domini. Occupa Gattara, ma deve fermarsi di fronte a Firenze, a ovest verso Bologna prende Imola, non per molto perché ambìta dagli Sforza, vano invece il tentativo di prendere Ravenna. Alla sua morte restano Astorgio e il minore Gian Galeazzo che muore senza eredi nel 1466. Dunque nuovo signore diviene Astorgio II (1448-1468).Si rivela politico e capitano molto apprezzato, anche se non riesce sempre a dominare completamente le situazioni secondo i suoi desideri. Deve infatti cedere Imola a Taddeo, figlio di Guidaccio, e lo fa sperando di ingraziarselo, il che non avverrà, anzi Taddeo cercherà di prendere a sorpresa Solarolo e persino Faenza, senza riuscirci, ma costringendo Astorgio a vigilare. A Francesco Sforza, chiamato come arbitro, quella rivalità in effetti sta bene perché giustifica la sua permanenza in Romagna. Dopo la pace di Lodi del 1454, all’indomani della presa di Costantinopoli da parte dei Turchi, Astorgio vive gli anni più felici in cui elabora un piano di opere pubbliche vòlto a una importante trasformazione del centro urbano, che include l’ampliamento delle mura iniziato da Astorgio I, l’ampliamento del palazzo del popolo, sede dei Manfredi, con ricchezza di arredi e magnificenza di suppellettili, la ristrutturazione della parrocchia di S. Stefano, l’ampliamento della Cattedrale menzionato nel testamento, che sarà in effetti una grandiosa rifondazione totale voluta dal figlio Federico, protonotario apostolico e vescovo di Faenza.
Da non tralasciare la importante raccolta di una ‘librarìa’ che Astorgio ricorda nel testamento come lascito al figlio Federico. Indici del lusso signorile furono anche i matrimoni delle figlie Elisabetta e Barbara coi fratelli Ordelaffi di Forlì, Cecco e Pino, speranza di un’auspicata armonia fra i due casati, che invece non si realizzò, su cui anzi si addensa il duplice sospetto di avvelenamenti.
Sono anni di stabilità politica in cui la signoria manfrediana gode dell’apprezzamento delle signorie più grandi e Astorgio si muove dopo la militanza per Firenze passando al soldo della chiesa poi di nuovo di Firenze per abbandonarla con un brusco voltafaccia a favore di Venezia a cui si lega nominandola unica protettrice aggiungendo un codicillo al testamento e partecipa al progetto di Bartolomeo Colleoni, generalissimo di Venezia, di marciare su incarico dei fuorusciti fiorentini contro Firenze per toglierla ai Medici dopo la morte di Cosimo e quindi autorizza le milizie del Colleoni a stanziarsi nel territorio faentino. Il testamento di Astorgio II rivela la sua inquietudine quasi presaga di disaccordi tra i figli e stabilisce come rigido criterio per la successione quello dell’anzianità. Quindi sarà Carlo II (1468-1477) a diventare signore. Egli mantenne la protezione di Venezia su Faenza, al cui soldo militava anche il fratello Galeotto.

Galeotto Manfredi sul recto del medaglione di Sperandio Savelli con la scritta "Galeotus Manfredus invictus Martis alumpnus"
Nel 1470 entrò anche nella lega creatasi, auspice il papa Paolo II, attorno a Venezia per la lotta contro i Turchi. Nella città Carlo proseguì i lavori nelle mura, completati nel 1470 circa, nel palazzo, nelle vie centrali da cui tolse i portici di legno procurandosi spesso le antipatie dei proprietari. Federico pose la prima pietra della nuova cattedrale, fabbrica grandiosa. Anch’egli odiato come il fratello per l’esosità sino alla sollevazione dei faentini che fece terminare la signoria di Carlo II e causò la cacciata del vescovo Federico nel 1477. I due fratelli tentarono dapprima di asserragliarsi nella rocca, mentre la moglie di Carlo, Costanza da Varano, cercò di salvare la successione alla signoria del figlio Ottaviano, essendo riuscita a ottenere, in contrasto con le disposizioni testamentarie di Astorgio, quel diritto da papa Sisto IV. Invano, perché il popolo al grido di ‘Gallo, Gallo!’ accolse Galeotto che da Ravenna si era recato a Granarolo e che entrò in città da Porta Ravegnana. Galeotto si avvalse dell’aiuto di Pino Ordelaffi e di Girolamo Riario signore di Imola in urto con Carlo. Assediò la rocca ov’era Carlo, mentre Federico era già fuggito. Intervennero i signori di Bologna e di Ferrara: Carlo venne accompagnato a Lugo e poi si recò a Ferrara. Galeotto aveva chiesto aiuto a Lorenzo il Magnifico che se lo accattivò e lo ebbe fedele per tutta la vita, servendosi di lui. Galeotto, sin da quando aveva svolto il suo tirocinio da cavaliere a Ferrara, amava Cassandra Pavoni, figlia di un notaio ferrarese da cui aveva avuto il figlio Scipione; (mentre del figlio maggiore Francesco non è certa la paternità di Galeotto). 
Cassandra aveva seguito Galeotto a Faenza, ma il nuovo signore doveva fare un matrimonio legittimo che portasse dote e prestigio.
Un primo tentativo con la riminese Antonia Malatesta fallì, allora avanzò una profferta il bolognese Giovanni II Bentivoglio che mirava a un’espansione in Romagna e che, al diniego di Galeotto, si rivolse al Magnifico che convinse Galeotto al sì. Dal 1480 Cassandra era nel monastero di S. Maglorio dove prenderà i voti divenendo suor Benedetta. Nel febbraio del 1482 si celebrarono le nozze a Bologna. La moglie Francesca Bentivoglio aveva 15 anni. Suo padre cercava nel tempo di procurarsi il favore dei faentini, che amavano molto Galeotto anche per le sue generose elargizioni, per poter contare su di loro nel caso di un complotto contro il genero. In questo clima maturò l’assassinio del signore faentino. Frate Silvestro da Forlì era divenuto confidente e consigliere di Galeotto, ma a un certo punto divenne impossibile la sua permanenza in città e quindi si allontanò: Galeotto privo del suo prezioso informatore temeva per sé senza riuscire a controllare completamente la situazione.


G. Mattioli, Assassinio di Galeotto.
Sventato grazie a una lettera da Bologna arrivata nelle sue mani un primo tentetivo di toglierlo di mezzo nella primavera del 1487, quando già da tempo Giovanni di notte aveva portato la figlia, poi rientrata a Faenza, e il nipotino Astorgio a Bologna, venne ordito e inscenato l’assassinio che doveva sembrare passionale più che politico. Dopo il rientro di Francesca da Bologna, il 31 maggio 1488, chiamato nella stanza nuziale col pretesto di una malattia di Francesca, mentre i sicari erano nascosti, Galeotto fu attaccato, ferito e accoltellato da loro e da Francesca e invano si difese come un leone. Il faentino musicista e letterato, Caffarelli, sull’atroce vicenda scrisse e musicò la tragedia Galeotus. I Bentivoglio presero repentinamente le necessarie iniziative per formalizzare la successione del piccolo di tre anni Astorgio III (1488-1502) sotto tutela di sua madre e di un consiglio di reggenza. Ma i piani bolognesi fallirono perché Gian Battista Ridolfi, commissario fiorentino a Castrocaro, fece sì che in un tumulto di piazza il 4 giugno Bentivoglio rischiasse la vita e, atteggiandosi a suo salvatore, lo portò al sicuro a Modigliana, territorio fiorentino, sotto la protezione di Lorenzo il Magnifico, garante a patto che Giovanni scrivesse a Bologna e Milano di non inviare milizie. Francesca uscì dalla rocca tra le grida popolari di ‘puttana’e fu condotta a Castel Bolognese, non avrebbe più rivisto il figlio che sarebbe finito crudelmente ucciso a 17 anni, come vedremo.






A sinistra,Francesca Bentivoglio, terza da sinistra, nel dipinto di Lorenzo Costa. Cappella dei Bentivoglio in San Giacomo in Bologna. Agosto 1488









A destra, Leonardo Scaletti, Astorgio III,
particolare di una tela a tempera, sec. XV.





Astorgio III fu posto sotto un consiglio di reggenza di 96 componenti, 48 faentini e altrettanti valligiani; i suoi fratellastri maggiori Francesco e Scipione, a lui fedeli, ebbero cariche importanti, il minore Giovanni Evangelista sarà al suo fianco sino alla fine. Ottaviano invece, figlio di Carlo II, sedicenne, cercava l’occasione di trovare un potente cui poter servire, ma fu convinto da un sussidio a vivere a Firenze sotto la vigilanza del governo fiorentino, poi dopo vani tentativi di affermarsi nella valle del Lamone fu mandato ad Arezzo ove visse sotto sorveglianza, usato per un colpo di mano su Faenza dei brisighellesi Dionigi e Vincenzo Naldi che fallì, dovette tornare a Firenze che lo inviò a Forlì presso Ottaviano Riario, figlio di Caterina Sforza la quale prese a benvolerlo. Fu ucciso nel 1499 sulla via per Firenze da valligiani armati da chi voleva riscuotere la taglia di 1500 ducati messa sul suo capo dalla reggenza faentina per volere di Venezia.

Il dominio nominale di Astorgio III vide l’assedio di Cesare Borgia, la resistenza impossibile ed eroica di Faenza sino alla resa del 25 aprile 1501. Secondo i patti, lui e tutti i Manfredi potevano andarsene a loro arbitrio: Astorgio, sedicenne, e Giovanni Evangelista, diciannovenne, andarono al campo del Valentino a rendere omaggio: furono trattenuti, mandati a Roma e chiusi come prigionieri a Castel Sant’Angelo e nell’aprile del 1502 strozzati e poi gettati nel Tevere. Dopo la caduta del Valentino, Francesco, il solo figlio rimasto di Galeotto, col nome di Astorgio IV (1503) sul finire dell’anno tentò per poche settimane di assumere la signoria.  Venezia, che stava realizzando la sua espansione in Romagna, inviò un suo esercito contro Faenza: Francesco venne a patti e ottenne di vivere a Venezia con una pensione annua della Repubblica sino alla morte avvenuta nel 1506. Così i Manfredi scomparvero da Faenza. Seguì il dominio di Venezia, ma dopo pochi anni, nel 1509, Faenza tornò sotto il diretto governo papale. Nel novembre 1507 il provveditore veneto permise ai frati di S. Francesco di guastare le tombe dei Manfredi sotto l’altare di S. Giovanni Evangelista, quindi non si sono conservate neppure le testimonianze della loro potenza e sono altresì scomparse molte delle scritture dei Manfredi conservate nella stessa chiesa. Sic transit gloria mundi.


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