La guerra d'Ungheria in alcuni documenti notarili faentini del 1595-96

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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Storia Medioevale


LA GUERRA D’UNGHERIA IN ALCUNI DOCUMENTI NOTARILI FAENTINI DEL 1595 - 96

La spedizione bellica di 350 faentini contro i turchi

di Miro Gamberini

Le crociate sono abitualmente associate all'idea della liberazione di Gerusalemme. Dopo la conquista di Costantinopoli nel 1453, i Turchi iniziarono la loro espansione nei Balcani, con l’intenzione di conquistare Vienna e l’Ungheria.
Di queste crociate europee se ne enumerano più di dieci prima della battaglia di Lepanto del 1571 e altrettanto fino al 1697, quando il principe Eugenio di Savoia sconfigge a Zenta (Serbia) l’esercito del sultano Mustafa II, liberando definitivamente l’Europa dalla minaccia di essere conquistata e assoggettata dall’Impero Ottomano di Costantinopoli.
Un ruolo importante nell’ostacolare l’avanzata dei Turchi in Europa lo si deve a Papa Clemente VIII Aldobrandini. Durante tutto il suo pontificato dal 1592 fino al 1605 si impegnò per la costituzione di un’alleanza paneuropea di regnanti cristiani contro gli Ottomani.
Quando nel 1593 i ripetuti scontri lungo il corso del Danubio sfociarono in una invasione da parte dei Turchi, allo scopo di conquistare l’Ungheria, Clemente VIII riuscì a costituire una Lega Santa per appoggiare l’Imperatore Rodolfo II d’Asburgo nella contesa con i Turchi, passata alla storia come “La Lunga Guerra” o “Guerra dei Tredici Anni d’Ungheria” che impegnò gli eserciti rivali a combattersi dal 29 luglio 1593 fino all’ 11 novembre 1606. Le guerre si svolsero principalmente con battaglie campali sul suolo ungherese, durante questo periodo gli eserciti della cristianità colsero più insuccessi che vittorie.
Clemente VIII nel periodo dal 1595 al 1601 organizza tre spedizioni militari in Ungheria. Per Papa Aldobrandini queste imprese furono assimilate a vere e proprie crociate, tanto da progettare una riconquista di Costantinopoli.
A memoria di ciò nel commissionare il suo monumento funerario incarica lo scultore Camillo Mariani di realizzare un rilievo da inserire nel lato destro della sua statua funebre, eseguita da Silla Lunghi, dove viene rappresentata una scena della guerra d’Ungheria, relativa all’assedio di Strigonia del 1595. Mentre a sinistra lo scultore Ambrogio Bonvicino scolpisce la presa di possesso di Ferrara, dopo la firma della Convenzione di Faenza del 1598. Alla “Santa Impresa” del 1595 partecipano 350 faentini, suddivisi in due Compagnie, comandate dai Capitani Francesco Bonacorsi e Federico Gucci.
Di questa “spedizione bellica faentina” vi sono “tracce di notizie” negli “Acta Consigli”, “Decretorum” e nella corrispondenza tra i “Rettori della Provincia”, nonché nei documenti notarili, custoditi nell’Archivio di Stato di Faenza. Ecco la storia di questi faentini volontari, che all’inizio di luglio del 1595 si misero in marcia per l’Ungheria.  Silvestro Aldobrandini di professione avvocato viene nel 1527 da Cosimo I dei Medici mandato in esilio, trova ospitalità a Faenza. Il 23 febbraio del 1531 chiede al Consiglio degli Anziani di Faenza di “poter esercitare come avvocato”. Il Cardinale di Ravenna Benedetto Accolti, Legato della Marca e Governatore di Fano, lo nomina nel 1535 suo luogotenente. Deve quindi trasferirsi nella città marchigiana con la moglie Lisa di Guido Donati e i figli, qui il 24 febbraio 1536 nasce Ippolito. Nel 1536 il Cardinale Accolti rassegna le dimissioni da governatore di Fano e quindi Silvestro con tutta la famiglia ritorna a Faenza per riprendere il lavoro di “jurisconsutus”. Della sua attività di avvocato a Faenza non sono stati trovati documenti sebbene il Tonducci affermi che siglasse i suoi atti legali con la dicitura “praesens civis advocatus Faventinus”. Paolo III lo nomina nel 1548 avvocato concistoriale, mentre Paolo IV nel 1556 lo designa suo segretario particolare. Muore a Roma nel 1558. Il 30 gennaio 1592 Ippolito Aldobrandini viene eletto papa, con il nome di Clemente VIII. Della sua “frequentazione e cittadinanza faentina”, ne riconoscerà il merito conferendo il 27 dicembre 1597 alla città Manfreda l’onore di ospitare la conferenza di pace per trattare la devoluzione di Ferrara dagli
Estensi allo Stato della Chiesa.

Copertina del libro di: Gyözö Somogyi "Warrios of the Hungarian Frontier 1526-1686".
“La Convenzione faentina” viene siglato il 12 gennaio 1598 nella Sala delle Stelle del Palazzo Municipale. L’Europa era in una situazione storica di estrema confusione nel 1568 i musulmani con continui attacchi avevano conquistato il quaranta per cento delle terre ungheresi, rendendo suoi tributari Moldavia, Valacchia e Transilvania. Massimiliano II (1527-1576) e Rodolfo II (1552-1612) avevano firmato ben quattro trattati con i Turchi (nel 1568, nel 1574, nel 1583 e nel 1590) che prevedevano il versamento di una considerevole dote di fiorini ungheresi in cambio di una fine delle loro aggressioni. Nonostante questi accordi le incursione sul confine croato nel 1593 sfociarono, per l’aumentata dimensione delle forze in campo e delle rispettive iniziative, in guerra. Questa situazione fu per Clemente VIII l’occasione per parteggiare alla richiesta di aiuto lanciata da Rodolfo II e promuovere una Santa alleanza fra gli stati Europei.
Filippo II di Spagna (1527-1598) concede un sussidio finanziario, ma non è d’accordo nell’inviare una sua flotta e un contingente di soldati. Enrico IV di Borbone re di Francia e Navarra (1553-1610) è alleato del Sultano Mehmed III (1566-1603). I piccoli stati Italiani continuamente impegnati in contese tra di loro non rispondono alla richiesta del Papa. Il Doge di Venezia Marino Grimani (1532-1605) critica l’iniziativa di Papa Aldobrandini e lo denigra, temendo di perdere gli accordi commerciali stipulati con Costantinopoli. Ferrara pone una condizione per partecipare chiedendo di scegliere l’erede del ducato estense, solo Mantova, Bologna e il granducato di Toscana rispondono alla chiamata del Papa, riservandosi di partire in proprio. Il Duca Vincenzo Gonzaga (1562-1612)  invia tre compagnie di archibugieri a cavallo comandate dal conte Francesco de’ Rossi e Orazio Castiglioni Mantovani, mentre la terza compagnia è guidata dal capitano brisighellese Tommaso Liverani “che aveva guadagnato fama e lode di valoroso combattente” dal Gonzaga, ma che ferito mortalmente perì nell’assedio di Strigonia. (Metelli, Storia di Brisighella, pag. 438)


Il Granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici (1549-1609) invia nel 1594-95, aiuti in denaro ed un contingente toscano di 2.000 fanti e 400 cavalli, sotto il comando di Giovanni de’ Medici a cui si affiancarono truppe di “venturieri” condotte da Antonio de’ Medici e Virginio Orsini. Anche Bologna rispose alla richiesta di Papa Clemente VIII, inviando quattro compagnie di fanteria, al comandate dal conte Ricardo Pepoli, conte Silvio Albergati, Francesco Silvio Pasi e Francesco Alessandro Orsi cavaliere di Malta.
Il comando della «Santa Impresa» viene affidata da Clemente VIII a Giovan Francesco Aldobrandini (1545-1601) principe di Meldola e Sarsina, appartenente a un ramo cadetto della casata, ma che — avendo sposato Ippolita, figlia di un fratello del Pontefice — era stato ammesso nella cerchia dei «nipoti» (pur essendo poco più giovane del Papa). A Giovan Francesco Aldobrandini furono affidate, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, ben tre missioni militari in Ungheria per soccorrere gli Asburgo contro i turchi. E, almeno in due occasioni, nel 1595 e nel 1597, ebbe ragione degli ottomani. Clemente VIII impose decime al clero d’Italia e riuscì a mobilitare in quella «Santa Impresa» diecimila fanti e seicento cavalleggeri che disordinatamente, agli ordini del «nipote» che aveva dimostrato nella repressione del banditismo nelle campagne romane di essere un valido comandate. Il 4 giugno 1595 Clemente VIII consegna al Generale Aldobrandini il “bastone di Comando” le insegne pontificie e lo stendardo «ornato d’un gran Crocifisso in mezzo ai santi Pietro et Paolo con motto Exurgat Deus et dissipentur inimici eius (Si levi il signore e disperda i suoi nemici)». (La santa impresa, Giampiero Brunelli, pag. 64) Il reclutamento dei soldati fu assai complicato e alcune città, come Spoleto, si opposero alla coscrizione. Ma alla fine l’azione di Clemente VIII fu coronata dal successo e — secondo le informazioni dell’ambasciatore e storiografo veneziano, presso la Santa Sede, Paolo Paruta — tra il 1592 e il 1595 l’esercito pontificio era riuscito ad arruolare ben 30 mila soldati. Un terzo dei quali — come si è detto — nel 1595 furono inviati in Ungheria. In che modo? Alla spicciolata, «sbandati», a piccolissimi gruppi, di fatto ognuno a spese proprie. Le città e i paesi attraversati, in segno di solidarietà alla «Santa Impresa» erano tenuti ad offrire a questi «viandanti» ricovero e cibo a prezzi più che contenuti. Le armi sarebbero state acquistate a Brescia e a Milano, poi spedite a Trento e di lì in Tirolo. Il tutto per non destare allarme nelle lande attraversate. La partenza è fissata per il 16 giugno, dopo aver ricevuto la benedizione del Papa, l’esercito marcia verso Macerata, e proseguendo per la strada che costeggia l’Adriatico raggiunge Ancona e Loreto. Il 28 giugno Aldobrandini è a Pesaro ospite del Duca di Urbino che gli fa dono di una splendida armatura.  Arriva a Rimini, e lungo la via Emilia giunge a Faenza. Apprestandosi all’arrivo delle milizie, il 2 giugno 1595 Faenza convoca il consiglio comunale; il cap. Antonio Talombetta, Eugenio Pritelli, Camillo Spada e Girolamo Stanghi, sono incaricati di provvedere all’alloggio delle truppe, mentre Gregorio Zuccolo, il cav. Silvestro Rondinini, Pier Paolo Spiga e Bartolomeo Nicolucci vengono incaricati di “presiedere al convito da allestirsi pel detto generale e alla famiglia di lui con facoltà di sostenere quella spesa… Ne’ si ammise parimente di deputare cittadini all’apparato da farsi nel pubblico palagio, al fine di accogliervi colla maggiore splendidezza il supremo duce delle genti pontifici, e si fatto incarico commettevasi al cav. Gabriele Calderoni, cav. Achille Barbarava, Rodolfo Grazioli, Girolamo Marchina, Virgilio Bettisi e Tolomei Fregna, intanto che Gregorio Zuccolo e Bartolomeo Nicolucci venivano prescelti quali ambasciatori da recarsi ad incontrare l’Aldobrandini ai confini della provincia vale a dire a Rimini.”(Gian Marcello Valgimigli, fascicolo 66 – 1592-1598, pag. 17). Il 6 giugno 1595 l’Arcivescovo Fantino Petrignani, Presidente della Provincia di Romagna, invia da Ravenna al Consiglio Comunale di Faenza una lettera in cui scrive: “Dovendo fra pochi giorni passar per codesta città l’Eccellentissimo Giovan Francesco Aldobrandini sarà opportuno che le Signorie Vostre e i Signori Anziani di far mettere in ordine il palazzo [Comunale] di letti et altri addobbi per alloggiar secondo come giudicheranno necessario per un tal passaggio”. Nella lettera continua a scrivere il Petrignani “Mando qui allegata la copia delle istruzioni che Monsignor Arcivescovo Matteucci Commissario dell’esercito di Nostro Signore per l’impresa d’Ungheria, acciò si faccia con ogni maggior diligenza quelle provvisioni che si accennano...”.
Girolamo Matteucci è Governatore di Faenza nel 1574, conseguita la laurea in utroque iure (diritto civile canonico) entra nella Cancelleria Pontificia nel 1578, ricoprendo vari incarichi, tra i quali quello di Governatore di Roma nel 1592. Clemente VIII il 24 maggio 1595 lo nomina Commissario Generale dell’esercito pontificio “...tutte le comunità dello Stato nostro devono somministrare quanto possa occorrere all’esercito, che si spedisce in Ungheria contro il Turco, secondo gli ordini che crede dare mons. Girolamo Matteucci”. In particolare, la sua competenza è curare il vettovagliamento e l’acquartieramento delle truppe. Deve garantire ai soldati alloggi, stalle, carriaggi per il trasporto dei viveri di prima necessità, e strame per i cavalli. Il viaggio attraverso lo Stato della Chiesa concedeva al Commissario ampi poteri su Podestà e Governatori.
Da Ravenna l’11 di giugno l’Arcivescovo Fantino Petrignani, informa nuovamente il Consiglio degli Anziani che “domani sarà costì [a Faenza] mons. Matteucci, et da lui intenderanno le Illustrissime Vostre quello” che Faenza dovrà mettere a disposizione per il passaggio della “soldatesca” condotta da Giovan Francesco Aldobrandini. L’allegato porta l’intestazione: “Ordini di Girolamo Matteucci da eseguirsi nel transito dell’esercito della Santità di Nostro Signore per Ungheria”, in cui si dispone “... perché si viva sotto certa regola, e con quiete e soddisfazione di tutti, e sappia ciascuno quello che è dovuto alla soldatesca in detto transito. Si deve fare provvigione di stanze, letti, strame, stalle, et altri utensili necessari, cioè olio, aceto, sale, fuoco, et lume gratis, garantire un carriaggio ogni venticinque  soldati, far selezione di persone atte et sensate, che di tempo in tempo, assistano al ricevimento nel  ripartire della detta soldatesca perché non segua scandalo”. I cibi sottoposti a tutela del loro prezzo sono: pane un baiocco l’uno l’oncia, vino buono la foglietta [mezzo litro] agnello, castrato o manzo, cacio, l’ovo cotto o crudo; il loro costo deve essere quello “che il cittadino [paga] nel comprar le [stesse] robbe all’ingrosso”. Ultima disposizione è quella relativa al “Prezzo delle monete” delle quale viene fissato il valore a Roma, disposizione necessaria per bloccare manovre speculative sui cambi. La lettera si conclude con l’ordine di fare “affiggere la nota dei suddetti prezzi e valore delle monete alle porte delle Hosterie”. (ASF  Rettori della Provincia 1579-1599- vol. XVI f. 279, 280, 281). Sebbene queste norme fossero molto rigide, non ebbero lo scopo prefissato. Giovan Francesco Aldobrandini in una letterainviata il 10 luglio 1595 confida a suo nipote Cardinale Cinzio Passeri Aldobrandini che “Mons. Matteucci ha pensato a ogn’altra cosa che ha tener bassi li prezzi” (Arc. Segreto Vaticano, Fondo Borghese, Serie III, n. 96f, c. 107r). Al riferire del Tonducci “… passarono per Faenza circa il fine di giugno et il principio di luglio quarantatre Insegne di fanteria, e dieci di cavalli leggeri insieme con la persona del medesimo Principe Aldobrandino Generale, donde il patrio Annalista toglievasi argomento a lasciare scritto, come questi alloggiò fra noi l’ultimo giorno di Giugno e il primo di luglio”. Bartolomeo Righi (“Annali della città di Faenza”, vol. III, f. 178) “… si congiunsero tre compagnie delle faentine milizie pochi delle quali riportarono la vita a casa”. Da un rogito del notaio Garzoni del 30 dicembre 1596 (vol. 2376, f. 16) veniamo a conoscenza che una delle due compagnie di faentini impegnati nella guerra d’Ungheria  è comandata dal Capitano Federico Gucci discendente come scrive Nino Drei (Famiglie nobili faentine) di una vecchia famiglia le cui origini si fanno risalire al XIII sec.
Dal Valgimigli apprendiamo il nome del comandante della seconda compagnia di faentini quando scrive: “… secondo il Litta, Aldobrandini arriva in Ungheria nel momento, in cui si faceva l’assedio di Strigonia [l’odierna Esztergom] volle a capriccio dare un assalto, e non fece che sacrificar inutilmente molte vittime, fra le quali è da noverarsi forse il concittadino nostro  Capitano Francesco Bonacorsi.
Alcuni faentini prima di partire, lasciano testimonianza delle loro ultime volontà nei rogiti del notaio Paolo Castellini (vol. 2007), nel periodo dal 19 giugno al 1° luglio 1595 sono registrati i testamenti di cinque faentini pronti ad intraprendere “la spedizione bellicosa contro il Turco nel Regno d’Ungheria”; due asseriscono di prendere parte alla spedizione “sub stipendium et service” del Capitano Francesco Bonacorsi, essi sono: Giorgio Pantalupi di “Castro Bononia” [Castelbolognese], e Pietro Vincenzo Bicchi di anni sedici, essendo minorenne la sua attestazione è controfirmata da sette testimoni che ne certificano la sua disposizione di partire volontario per l’Ungheria.

Ordini di  Mons. Girolamo Matteucci da eseguirsi nel transito
dell’esercito Pontificio  per la guerra d' Ungheria”.

A sinistra in   alto, stendardo delle truppe Pontificie,
a destra insegne Turche e Cristiane,
a sinistra una fase dell'assedio di Strigonia
Era consuetudine dopo le battaglie bruciare e seppellire i soldati caduti in combattimento. Questa tipologia di testamento era comune per chi partiva per una guerra, retaggio di quanto facevano i crociati all’atto di adempiere il loro voto, nell’avviarsi al combattimento in terra santa. Anche Brisighella partecipare alla “Santa Impresa” come riferisce Antonio Metelli (Storia di Brisighella e della valle di Amone, parte I, vol. II, pag. 436) “... i nostri valligiani non si astennero, e ridestandosi in loro lo spirito guerriero e dato senso ai domestici negozii [sistemazione degli affari di famiglia], e se la morte in quei luoghi gl’incogliesse, davano all’armi di piglio e alla sacra guerra allegramente si votarono. Ben noti ci sono Alessandro Naldi [col grado di luogotenente comanda durante l’assedio di Strigonia 600 soldati sotto le insegne di Giovanni de Medici, comandante della fanteria toscana e generale dell’esercito fiorentino nella guerra d’Ungheria]”. Risultano sui campi di battaglia Ungheresi i brisighellesi Baglione da Cavina e Raffaele de Brunori da Cerone [Raffaele alias Ceroni muore nell’assedio di Strigonia], Antonio di Michele Dalla Valle di Valpiano, Bartolo Dalla Valle di Ghiozano,  Carroli da Porriva e Girolamo Giuliano Sangiorgi. Secondo l’opuscolo “Nuovi Avisi” pubblicato nel 1595, transitano da Trento tra il 22 giugno e il 3 luglio ottanta diverse “Compagnie di fanteria e Cavalleria Italiana” per un totale di 15.000 soldati, alle quali il Commissario Pontificio Filippo Lasino consegna “armi offensive, picche, archibugi, moschetti, polvere da sparo e 300 scudi a Compagnia”, due sono composte di volontari faentini comandate dal Capitano Federico Gucci con 180 uomini e l’altra dal Capitano Francesco Bonacorsi di 170 soldati. Della terza Compagnia precedentemente nominata dal Righi negli “Annali della città di Faenza”, non ne abbiamo trovato traccia, ne tantomeno il nome del comandate di questa ipotetica formazione militare, risulta nei rogiti notarili consultati.
La tabella seguente riporta l’elenco delle Compagnie di soldati inviate dalle città romagnole, e che transitarono da Trento per raggiungere l’Ungheria. Ricevute le armi manca solo l’ufficialità di essere pronti a combattere, con la “rassegna e il giuramento” di fedeltà a Papa Clemente VIII. Quindicimila sono i soldati raggruppatisi a Trento, i quali vengono suddivisi in sei nuove Compagnie. Le due Compagnie faentine sono aggregate quella di Francesco Bonacorsi sotto le insegne del “Mastro di Campo Ascanio della Cornia”; mentre Federico Gucci viene raggruppato alla Compagnia del “Mastro di Campo Mario Farnese”. (Avviso presa di Strigonia)
L’esercito pontificio giunse a Strigonia il 2 agosto 1595 (la città è dal 1543 sotto la dominazione turca e dal 1594 resisteva tenacemente all’assedio delle truppe asburgiche) e riunitosi alle schiere ungheresi ed austriache comandate dal generale principe Carlo Mansfeld, espugnò la fortezza il 2 settembre 1595, dopo un assedio durato un solo mese. Molti caddero nell’impresa tra questi il Capitano faentino Francesco Bonacorsi, ed i loro nomi vennero raccolti con più o meno esattezza dagli «annunci» che esaltarono il trionfo delle armi papali.
Questi «annunci» o meglio «Avvisi» sono considerati come le prime forme di giornalismo moderno. Su questi «avvisi» venivano riportate le notizie dello sviluppo della guerra, divulgati rendevano disponibili le notizie nelle principali città europee. L’«Avviso» della conquista di Strigonia arrivò il 24 settembre a Clemente VIII, e il Papa per ringraziamento promosse una solenne processione fino a Santa Maria dell’Anima.
“Nuovi Avisi” è un opuscolo in 4° di sette pagine che contiene la relazione sull’assedio alla città di Strigonia, sostenuto dall’esercito Pontificio nell’agosto del 1595, tre di queste pagine sono dedicate “al Nome, Cognome, e Patria dei Capitani, con il numero dei Soldati di ciascuna Compagnia”. Il racconto dell’assedio è una cronaca priva di enfasi e gesta esaltanti dell’impresa, spoglia di quella retorica linguistica di fine ‘500. Con occhio attento il “cronista di guerra” dell’epoca descrive prima le fortificazioni della città poi l’assalto portato dal contingente italiano composto da 4000 soldati alla fortezza la quale dopo breve resistenza viene conquistata. Vengono fatti prigionieri “circa 1900 soldati turchi e liberati 700 tra donne e bambini”, imbarcati sopra trenta barche gli affrancati, vengono condotti al loro paese” d’origine.
Da altro “Avviso” veniamo a conoscenza che il Tedeum di ringraziamento per la liberazione di Strigonia viene celebrato dall’arcivescovo Girolamo Matteucci, nella chiesa della fortezza di Santo Stefano, ancora intatta dopo la dominazione ottomana iniziata nel 1543. I Turchi avevano risparmiato tutti gli edifici monumentali della fortezza. Quello che non fecero i musulmani lo compirono i soldati tedeschi di confessione protestante della Compagnia del marchese Burgau, i quali presi da un acceso furore iconoclastico mutilarono con le loro spade e picche le statue della Cattedrale, senza farsi scrupolo di togliere gli occhi ai santi dipinti sugli altari.


"Novi Avvisi" con cronaca dell'Assedio di Strigonia ed elenco delle Compagnie
di soldati che sono transitati da Trento. Evidenziate con linea rossa le due
Compagnie di faentini agli ordini dei Capitani Federico Gucci e Francesco Bonaccorsi.

Lanzichenecchi in marcia illustrati da Erhard Schön.
La tabella elenca le Compagnie di soldati Romagnoli partecipanti alla Guerra d'Ungheria.
Nome e luogo di provenienza
N° soldati
Cap. Federico Gucci - Faenza
180
Cap. Francesco Bonacorsi - Faenza
170
Cap. Sforza Neri - Rimini
180
Cap. Battista Del Sale - Ravenna
190
Cap. Geronimo Foselone - Ravenna
200
Cap. Geronimo Roverelli - Cesena
120
Totale
1040

Recentemente sfogliando i rogiti del notaio Giovan Battista Garzoni (vol.2376, f. 16), la mia attenzione è stata attirata da un documento di quattro pagine in cui sono registrate le testimonianze di tre “compagni d’armi [partecipanti] alla guerra d’Ungheria” del 1595. Il documento porta la data del 30 dicembre 1596, in cui si legge: “Nel nome di Cristo, amen, al tempo di Papa Clemente Ottavo. Fu esaminato per me notaio, ad eterna memoria e ogni altro motivo e su richiesta di Francesco del fu Matteo da San Morri [Samorì]   del contado di Modigliana e di Matteo e Domenico suoi nipoti, figli del fu Sebastiano fratello di detto Francesco”, la testimonianza della morte di Giovannino San Morri [Samorì]. Non viene specificato il motivo dello scritto, forse da ricercare nel definire con certezza la divisione di alcune proprietà. Il primo teste sentito è Giacomo de Lolis della parrocchia di San Ilaro della città di Faenza. Trascrive il notaio la deposizione del Lolis: “Dopo aver toccato le Sacre Scritture affermo quanto segue: la verità è che io sono stato soldato nella Compagnia del Capitano Federico dei Gucci di Faenza alla guerra d’Ungheria, con il quale Capitano è stato anche, soldato Giovannino da Samorì, il quale capitando un giorno da me quando eravamo accampati, in una certa villa che hora non mi ricordo come si chiami [Strigonia  sic!] essendo egli ammalato e che non si poteva quasi  tenere in piedi gli diedi del pane e gli prestai anche soldi, due della nostra moneta perché diceva di essere morto dalla fame, e che era senza denaro, e mi promise che mi avrebbe restituito detto pane e li denari, quando avrebbe ritirato la paga”. Mangiato il pane continua il Lolis  “certi frati [dell’ordine] dei Teatini e anche altri [Camilliani] che si ritrovavano in detta villa  pigliarono Giovannino ammalato e lo posero in barca per poterlo” mandare in ospedale, “e posto che fu il detto Giovannino in barca, i paroni [terminologia veneta-veneziana, conduttori delle barche] che udendo che Giovannino si lamentava dal mal grande che aveva e che era questi morto lo presero, e lo gitarono in acqua, cioè nel Danubio, così come facevano cogli altri ammalati che si vedevano che erano per morire”.

Per archibugiere s'intende una unità militare di fanteria armato di archibugio.
In Europa, il termine non indicò mai un corpo specifico dell'esercito di riferimento:
archibugiere era quindi qualsiasi soldato capace di fare fuoco con un archibugio
presentatosi all'arruolamento con la sua arma da fuoco.

Sotto, archibugio a ruota XVI sec

Non vide più Giovannino – prosegue il Lolis – “risalire fuori dall’acqua, perché sono di li a poco partito e questo può essere accaduto tre mesi fa circa [ottobre 1595]. Particolare importante è che le truppe pontificie erano assistite da “certi frati esistenti li in detto loco” per curare i soldati feriti e ammalati. Dal documento emerge il nome dell’ordine dei Teatini i quali si distinsero a Venezia nell’insorgere della  carestia del 1591, che generò lo sviluppo  di una epidemia di peste. Partiti con ogni probabilità volontari per la “Guerra d’Ungheria”, visto il divieto del Doge Marino Grimani di partecipare alla “Santa Impresa”. Clemente VIII nell’organizzare l’impresa contro i Turchi aveva incaricato Camillo de Lellis fondatore dell’ordine dei Chierici Regolari Ministri degli Infermi cioè i Camilliani, a curare i feriti direttamente sui campi di battaglia tanto da ordinare la loro partenza nel 1595 per l’Ungheria, ad assistere il nipote Giovan Francesco Aldobrandini. I Camilliani a Strigonia istituiscono un ospedale da campo, con dottori e infermieri, segnalandolo con una croce rossa simbolo dell’ordine. I cronisti dell’epoca con gli annunci sugli “Avvivi” ne certificano il loro impegno durante l’assedio di Strigonia, del 2 agosto 1595, esaltando la loro generosità umanitaria nel curare i feriti. All’assistenza spirituale dei soldati erano comandati i Gesuiti. La seconda testimonianza datata 13 gennaio 1597, è di Bartolomeo (fratello del primo teste Giacomo de Lolis), della parrocchia di San Vitale di Faenza, il quale conferma la morte di Giovannino Samorì “figlio di donna Santa dei Lanzoni da Faenza… ammalato di male grandissimo certi frati esistenti li in detto loco per curare quelli soldati che si ammalavano, lo pigliarono e lo posero in una barca per mandarlo a una terra che si domanda [chiama] Possonia [Bratislavia, capitale dell’attuale Slovacchia, il cui antico nome era Posonio. Sotto la monarchia d’Asburgo dal 1536 al 1783 quando Budapest era occupata dagli ottomani era la capitale del Regno d’Ungheria] per farlo governare [curare]”. Bartolomeo  prosegue nel suo racconto, quando Giovannino fu “gittato in un fiume chiamato Danubio” io mi trovavo con “Giacomo mio fratello, e Francesco dei Viani e di molti altri soldati della nostra Compagnia… non tornò mai più fuori dall’acqua e lo vedemmo andare per un lungo tratto per l’acqua corrente e le grandi onde lo coprirono più volte, ciò è capitato  tre mesi fa circa”. Dopo la conquista di Strigonia, Aldobrandini sposta il suo acquartieramento a Possonia ove aveva organizzato un ospedale per assicurare una adeguata assistenza ai molti soldati feriti e ammalati. Lo stesso giorno (13 gennaio) viene annotata dopo aver “giurato sulle Sacre Scritture davanti a me notaio”, la testimonianza di Cristoforo dei Liverani, “… io lo vidi mettere in barca per essere condotto a Possonia per essere governato [curato]; dopo andai anch’io a Possonia con altri soldati dove non trovai il detto Giovannino ma sentii dire li pubblicamente che era morto, e che era stato gitato nel Danubio dai paroni, e questo è quanto io so e posso dire per verità di questo fatto”. 

Una fase dell'assedio di Strigonia.
Appena arrivato in Ungheria (2 agosto 1595) Aldobrandini deve affrontare la difficoltà di vettovagliamento per le sue truppe, tanto da doversi impegnare direttamente nella trattativa per l’acquisto di pane e derrate alimentari. Le malattie colpiscono la truppa le diserzioni avevano raggiunto dimensioni preoccupanti. Disperati i soldati si misero a depredare quanto trovavano. Più che dalle battaglie l’esercito pontificio fu ridimensionato dall’insorgere di epidemie di colera, peste e mal francese. Alcuni storici stimano che l’esercito Pontificio abbia perso in questa Guerra d’Ungheria circa seimila soldati, quattromila sono i reduci che divisi in tre compagnie agli ordini di Mario Farnese, Francesco Bourbon Dalmonte e Rodolfo Baglioni iniziano il ripiegamento verso Roma.
Tra ottobre e novembre Aldobrandini decide di acquartierarsi a Possonia per organizzare il suo ritorno a Roma, ma su invito di Rodolfo II si reca a Praga, per discutere se è opportuno continuare la guerra. Durante l’incontro viene anche discussa la proposta avanzata da Rodolfo II  di acquisire il Ducato Estense, assegnandolo a un suo famigliare, ma Aldobrandini si oppone. Rientra a Roma il 16 maggio 1596 , accolto dagli onori tributati dai romani degni di un “Cesare” conquistatore.
  La notizia della morte del Capitano Francesco Bonacorsi la descrive Giulio Cesare Tonducci, (Historia di Faenza, pag. 712) “Si ebbero ancora lettere da Monsignor Presidente [Fantino Petrignani], nelle quali si avvisa la comunità di Faenza del ritorno dall’Ungheria del Generale Aldobrandini con l’esercito… si raccomanda la cura dei soldati infermi, che saranno in gran numero per il patimento del luogo, e disastroso viaggio...” Saranno questi reduci che una volta giunti a Faenza diffonderanno la notizia della morte di Francesco Bonacorsi avvenuta il 2 agosto 1595 durante l’assedio di Strigonia. Notizia confermata da un rogito del 6 dicembre 1595 segnalato dal  Litta e riportato dal Valgimigli, in cui “… si annunzia caduto estinto, mentre col grado di capitano combatteva colà contro gli ottomani”.
Le ultime testimonianze sul Capitano Federico Gucci sono due rogiti notarile: il primo del 1° febbraio 1596 (Leonardo Montanari vol. 2238, f. 76) è la suddivisione tra tutti i legatari dell’eredità del Capitano Federico Gucci – come da testamento stipulato il 14 giugno 1595 - la seconda memoria scritta - è “una certificazione di morte presunta” in data 16 settembre 1597 (Leonardo Montanari vol. 2240, f. 286), nel quale il notaio “istituisce ed interroga” il Capitano Francesco Rondinini “degnissimo pro tempore pretoris magnifica civitatis Faentina”, sull’esistenza in vita di Federico Gucci. Il Rondinini alle domande poste dal notaio dichiara: “La verità è che il Capitano Federico Gucci nell’anno 1595 passò a miglior vita nella guerra d’Ungheria, nominando i suoi tre figli maschi Fabio, Ercole e Camillo suoi eredi universali, lasciando la moglie Maria Francesca Severoli loro tutrice”. Francesco Rondinini  afferma che  ciò che lui ha dichiarato è quello che si sente dire in “pubblica voce in Faenza” [sulla pubblica piazza di Faenza]. Probabilmente anche lui come molti faentini trovò la morte nell’assedio di Strigonia. Dopo il successo delle armi pontificie e asburgiche nel giugno del 1596 Maometto III, forte di un potente esercito muove verso Buda, la quale viene conquistata nel settembre dello stesso anno. Clemente VIII il 27 gennaio 1597 sottoscrive un bando di reclutamento per intraprendere una nuova “Santa Impresa”. Il comando viene affidato nuovamente a  Giovan Francesco Aldobrandini, che parte da Roma all’inizio di febbraio del 1597 per recarsi a Praga e concordare con Rodolfo II i piani per la nuova campagna militare.
Nuovamente è il Valgimigli che annota come: “per le perdite dell’imperatore Rodolfo toccate poi in Ungheria versando egli in gravi angustie soprattutto per timore che l’ottomana potenza non trattenuta ormai da nessun ostacolo fosse per portare l’armi sotto la stessa Vienna, prese a richiedere di soccorso i principi d’Italia e con essi il pontefice ancora, siccome padre del cristianesimo destino, il quale raccolto un nuovo esercito di circa otto mila uomini lo spediva nel giugno del 1597 a combattere nell’ungaria contrada quegli acerrimi nemici del cattolico nome, come si ebbe notizia dell’appressarsi di codeste milizie, deputati furono nel consiglio del 16 maggio il cav. Gabriele Calderoni, il capitano Antonio Talombetta, Tommaso Armerini e Sigismondo Bonacorsi alla cura di allestire loro gli opportuni alloggi insieme col vitto e con tutt’altro...,”. L’esercito era composto da quaranta compagnie per un totale di ottomila soldati che mossero da Roma liberamente alla fine di maggio. La mancanza di un autorevole capo alla guida del contingente Pontificio fu la causa di incidenti con le popolazione delle città attraversate. L’itinerario seguito è lo stesso del 1595. Questa situazione come riferisce Giampiero Brunelli (La santa impresa, pag.131) “Sin dalle prime giornate di cammino, infatti si erano verificati disordini e addirittura gravi scontri tra soldati e popolazione in Romagna: il generale aveva dovuto coordinare con la congregazione della Sacra Consulta, competente sull’ordine pubblico, per provvedere nell’immediato, facendo istruire dal vice-legato Orazio Mattei  [è il nipote del Cardinale Legato di Romagna Ottavio Bandini] i processi contro i soldati che avevano commesso crimini”. Il Valgimigli annota che questi soldati causarono un notevole “disagio alla popolazione” faentina, senza però annotare in cosa furono protagonisti.

A sinistra, Strigonia ora Esztergom, a destra, Possonia ora Bratislavia.



Al Governatore della città arriva da Ravenna un dispaccio del Cardinale Legato, recante l’intestazione: “Ordini da osservarsi nei conti della spesa fatta per la soldatesca”. Nella lettera sono contenuti  una serie di regole alle quali  il Consiglio degli Anziani deve attenersi se vuole essere ripagato dei soldi spesi “nell’alloggiare i soldati del Papa”. Interessante è la restrizione: “che non si paghi ad alcun privato, nemmeno agli hosti il danno che havessero causato li soldati nelle case, et possessioni [inteso come beni immobile] se non quando la Comunità l’havesse presa a pigione… che si procuri di controllar bene il conto della quantità [numero] dei soldati, che hanno alloggiato all’Hosteria, acciò non si paghi maggior numero di quello, che veramente si deve, e la Comunità resti per questo defraudata”. Alla fine di giugno i primi reparti raggiungono Vienna ove Giovan Francesco Aldobrandini li attendeva, pronto a guidarli sui campi di battaglia. Non si è ancora assopito il calpestio del passaggio della cavalleria Pontificia “che alle ore quattro della notte del tre agosto accadde si gagliardo e fiero commovimento di terra [terremoto, con epicentro nel Mugello] che fu d’inestimabile spavento a tutta la città ed atterimento, non senza sconcio di varii edifici”. (Annali, della città di Faenza; Bartolomeo Righi)
 Il 1597 si conclude con la morte di Alfonso II d’Este il 27 ottobre, senza lasciare un legittimo erede alla guida del Ducato Estense. Nasce un contenzioso con Clemente VIII il quale riteneva suo diritto l’annessione del Ducato alla Santa Sede, mancando un erede diretto. Per fare rispettare la “Devoluzione estense” il Papa invia a Faenza il Cardinale Pietro Aldobrandini (altro suo nipote), nominato per l’occasione Capitano, al comando di un esercito di 24.000 mila uomini e 3.000 mila cavalleggeri, che trovano alloggio in città. Cifre impressionanti per un esercito che alloggiato nella città Manfreda in quanto aveva bisogno di tutto, ma l’organizzazione era stata talmente ben radicata e organizzata da non recare eccessivo disturbo alla cittadinanza. Un ordine datato 6 gennaio 1598 (Rettori della Provincia, vol. XVI, f. 315) del Cardinale Legato di Romagna Ottavio Bandini, dispone che nella città fossero sempre disponibili 20 carri con “due paia de’ buoi per carro” per rifornire l’esercito specificando: “Il loro servitio serrà di portare robba continuamente da Faenza a Imola o ad altri luoghi dove parerà al Deputato per l’esercito e da Imola o altri luoghi tornarsene a Faenza senza mai pernottare o andare altrove…”. Era stato bloccato il prezzo degli alimenti, delle biade, del legname e della paglia da fieno tanto da far scrivere al Tonducci nella sua Historia a pag. 716: “Ma mirabil cosa tra l’altre fù stimata, che in tanta moltitudine, e diversità di persone, e nationi non si sentisse un minimo dispiacere, contesa, e doglianza non solo de i soldati tra loro, ma ne meno verso i Cittadini….” Unico reclamo pervenutaci è una lettera datata 17 dicembre 1597 (Acta Consigli, vol. IXX, f.198-199) inviata dalle suore Madri della Trinità del Borgo al Consiglio degli Anziani, ove chiedono di venire protette durante le operazioni di trasloco al monastero di San Maglorio, dovendo lasciare il loro convento a disposizione dei soldati per l’acquartieramento.
L’esercito viene schierato pronto a invadere il Ducato Estense nella pianura tra Solarolo e Lugo. In uno scenario invernale di neve e folate di vento, tra rulli di tamburi e urla di guerra il Cardinale Pietro Aldobrandini e Lucrezia d’Este concordano di raggiungere Faenza per trattare un accordo. L’intesa viene firmata il 12 gennaio 1598 nella sala Verde o delle Stelle del Palazzo Comunale, e convalidata ufficialmente da Clemente VIII il 19 gennaio come “Convenzione di Faenza”. Avvenuta senza dar battaglia l’annessione del Ducato Estense alla Santa Sede, mancava solo la conferma ufficiale della “presa di possesso” con la visita di Clemente VIII.  Il 9 maggio 1598 il Papa arriva a Ferrara, il 2 dicembre nel suo viaggio di ritorno per Roma giunge a Faenza.  Accolto da una folla entusiasta tra archi di trionfo e stendardi al vento. Ma questa è un’altra storia da raccontare.

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