Il cavaliere di Santa Maria dei Servi

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
Home
Storia Medioevale


Il cavaliere di Santa Maria dei Servi

di Bice Montuschi Simboli

Copertina della rivista da cui è tratto l'articolo:
«Il cavaliere di Santa Maria dei Servi»,
di Bice Montuschi Simboli.
Torricelliana, n.° 44, 1993.




     II bel restauro, di cui generosamente la sezione faentina del Rotary Club si è assunta l'onere, della lastra funeraria con figura di cavaliere e la sua suggestiva sistemazione all'ingresso dell'Emeroteca comunale mi sollecitano a richiamare l'attenzione su tale opera, da sempre pressoché ignorata, benché costituisca una delle più antiche testimonianze di scultura monumentale presente in città. Le notevoli dimensioni di m. 2,45 X 1,15 ed il fatto di essere realizzata in marmo bianco di Verona già dichiarano la rilevanza anche materica del manufatto. Essa proviene da un angusto locale adiacente alla sagrestia della chiesa di Santa Maria dei Servi in cui era stata traslata attorno al 1730 al momento dell'integrale ristrutturazione dell'edificio, che non risparmiò alcuna testimonianza del passato, assieme ai resti del monumento funebre del vescovo Francesco Zanelli, sulle cui vicende ho già avuto occasione di riferire al momento della sua parziale ricostruzione in cattedrale (1).

Fig.1 - Bottega di Arriguzzo Trevisano.
Lastra tombale di Guerriero.
Bibblioteca Comunale di Faenza.
     Nelle particolareggiate Cronache del Querzola e di Carlo Zanelli (2) che riferiscono sulla ricostruzione settecentesca e sulla conseguente rimozione dei vari monumenti non si fa menzione né della originaria collocazione di tale lapide, né della sua traslazione, tuttavia dato il notevole impoverimento dello spessore del rilievo si può presumere che essa fosse collocata lungo la navata, piuttosto che in una delle cappelle gentilizie che la fiancheggiavano. Sulla lastra appare adagiata una figura di guerriero con il capo posato sul cuscino e le mani congiunte in preghiera, gesto insolito che dona all'immagine un senso di profonda pietas, le mani di norma riposavano congiunte in vita e solo in pochi altri casi, quali le due lapidi di Filippo de' Desideri del 1315 (fig. 2) e di Egidio de' Lobia del 1319 del museo civico di Bologna, quella di Ilario Sanguinetti del 1381 nella chiesa degli Eremitani a Padova ed ancora in quella di Federico di Vallelongo del 1373, ora nel museo civico di Padova ho potuto riscontrare tale atteggiamento.

      L'uniforme che lo riveste è resa in maniera puntuale e, nonostante il logorio, risulta ancora leggibile nei minimi particolari, dalla celata alla corazza, ai guanti di grossa pelle, alla daga, alla spada appese al cinturone, ai gambali, agli speroni, il che la rende ancora passibile di confronti ai fini di una sua, quantomeno plausibile datazione. Sulla cornice corre una lunga iscrizione, intervallata, come assai spesso, da una minuscola croce ai quattro angoli, la cui lettura è compromessa dal precario stato di conservazione. Sul lato superiore in cui si indicava per lo più il nome del defunto ora non si ravvisano che isolati frammenti di lettere, in basso si può ancora percepire qualche parola, sui due lati lunghi a parti perfettamente leggibili si alternano zone quasi totalmente abrase. Nessuno dei cronisti faentini di qualsivoglia periodo ha mai fatto cenno a tale monumento, una prima trascrizione dell'epigrafe è stata fornita dal canonico Angelo Maria Spada nella sua raccolta di antiche lapidi faentine (3) risalente al Settecento inoltrato, quando la lastra era già stata rimossa dalla chiesa ed appariva fortemente degradata. II canonico Spada ne dava la seguente lettura: in alto «Te scias hic jacere Arnald.. DU..», a destra: «Servor In Abitu Sancto.»; in basso «Octoginta Anis Novembris Bis Sexta..», a sinistra, «Om(nia) Gesta Hic Pro Sorte In Sancta Cohor..», e non apponeva alcun commento. Nel volume su Santa Maria dei Servi di Faenza redatto da Carlo Mazzotti in collaborazione con Antonio Corbara quest'ultimo ne proponeva identica trascrizione (4).

      È una lettura che suscita alcune perplessità a cominciare da quel: «Te scias'» di evidente reminiscenza classica e a cui non ho trovato alcun riscontro in quanto la formula ricorrente di apertura suona: «Hic Jacet» (5). Dopo la recente pulitura ed il restauro, nel confronto con la lettura fattane dallo Spada, si può operare qualche integrazione sui due lati lunghi che risultano i meglio conservati e precisamente a destra si può leggere: «.. TO.. SERVOR IN ABITU SANCTO..» con verso l'angolo alcune lettere in minuscolo, a sinistra «F. IERI (fecit fieri?) OM GESTA SIT HIC PRO SORTE ET IN ADV (ventum?) IN SANCTA COHOR...». Mi pare si possa confermare la trascrizione data dallo Spada per il lato inferiore: «Octoginta Anis Novembris Bix Sexta», tuttavia non credo che essa possa essere semplicemente integrata e trascritta come: dodici novembre 1280, oppure dodici novembre 1380, date per ragioni diverse non convincenti, la prima in quanto la costruzione della chiesa dei Servi incominciò solamente nel 1313, a meno che non si voglia supporre, cosa però assai improbabile, che tale monumento fosse gia presente nella chiesa di S. Maria del Conte, sul cui luogo venne poi innalzata la basilica dei Serviti, la seconda perché inaccettabile sia per ragioni stilistiche che per le particolarità dell'uniforme. Ritengo che la chiave di lettura della data sia da ricercarsi in esempi abbastanza diffusi nell'epigrafia medioevale, quale quello che s'incontra nella tomba del cardinale De Braye nel duomo di Orvieto del 1282 che è cosi costruita: «Bis sex centenus binus bis bisque vicenus / annus erat Christi quando mors affuit isti».

      Se, per ipotesi si parte da Mille, come si può constatare nella maggior parte di tali iscrizioni, per ottenere una data compatibile sia con i caratteri stilistici della scultura ed ancor più con i caratteri delle lettere della scritta medesima, che appaiono piuttosto arcaici, l'unico numero per cui si può proporre di moltiplicare l'ottanta risulterebbe il quattro, che ci fornirebbe l'anno 1320, data, a mio avviso, convincente. La cancellazione delle lettere nel lato superiore non consente di verificare se la lettura di Arnald. DU, fatta sia dallo Spada che dal Corbara, fosse quanto meno probabile. Nella «Schede» del Rossini e nelle varie cronache e documenti faentini relativi ai secoli XIII e XIV l'unico Arnaldus ricordato è il Cardinale di Perigeux detto di «Pelagura» (6), legato pontificio in Romagna attorno al 1320, poi rientrato nella sua residenza in Francia.

      Alla cintura del guerriero è appeso uno scudo di forma gotica che presenta sotto il capo tre lambelli ed entro il campo una «sbarra», cioè una banda in diagonale dal vertice sinistro in basso a destra. Si tratta di uno stemma più volte documentato a Faenza e già oggetto di dispute. Federico Argnani alla fine del secolo scorso aveva riferito uno stemma similare, dipinto su di un boccale faentino in maiolica, ad un Giacomo Pasi che sarebbe stato vescovo di Faenza tra il 1258 ed il 1273, tenendo anche conto delle notevoli somiglianze con lo stemma di cui si fregiavano i Pasi nel Cinquecento (7). Gaetano Ballardini confutò tale ipotesi dimostrando, con precisa documentazione, l'inesistenza di un vescovo Pasi in città nel XIII secolo, notando inoltre che nello stemma della famiglia Pasi il capo era ornato con i gigli di Francia ed attribuendo poi lo stemma dipinto sul boccale, anche per il fatto che era sormontato da un cappello cardinalizio, al Card. Egidio Albornoz, legato pontificio presente a Faenza nel 1359 (8). Negli ultimi decenni tale stemma, sempre dipinto su boccali, emersi integri od in frammenti, in scavi in varie zone della città, è stato riscontrato più volte e con questo un altro identico ma privo del cappello cardinalizio, sormontato da un chiodo a cui sembra appeso ed in cui Giuseppe Liverani ha ravvisato lo stemma del nipote dell'Albornoz, Blasco, rettore a Fermo nel 1365 (9) (fig. 3). Ho citato tali esempi, seppure, come le forme medesime dei boccali chiaramente denunciano, essi siano più tardi di qualche decennio, a dimostrazione di quanto fosse diffusa tale insegna e pertanto della sua dubbia utilità ai fini di individuarvi una precisa famiglia o personaggio. Nè d'altraparte dai documenti e dalle storie faentine concernenti il XIV secolo emergono, a quanto mi consta, notizie tali da avvalorare l'ipotesi avanzata dal Corbara (10) che l'ignoto guerriero appartenesse alla famiglia Pasi.

      La prima notizia su tale famiglia nella Carte del Rossini risale al 20 ottobre del 1313, quando un Bartolomeo Pasi risulta avere assunto in enfiteusi un terreno a Castellina presso il Ponte di S. Proculo, per tutto il secolo seguente nel medesimo schedario, sono sempre menzionati come venditori di spezie e di aromi, solo nel Cinquecento assumono un ruolo importante nella vita cittadina, con la presenza anche di un vescovo agli inizi del Cinquecento. In questo assommarsi di incertezze, sia per quel che concerne l'identità del guerriero, che la precisa lettura dell'epigrafe, mi pare possa venire qualche indicazione, almeno per avanzare una presumibile data, dal confronto con opere analoghe presenti in Emilia Romagna e nelle regioni vicine. Si tratta di presenze numericamente diverse con in Toscana i complessi ben documentati di Arezzo e di Lucca (11), con cui tuttavia la lastra faentina non mostra molte affinità, sia relativamente all'epigrafi che si rivelano semplici e ripetitive, che per i modi compositivi e stilistici.

      Il gruppo emiliano consta di pochi esemplari nell'arco del XIV secolo, mentre appare più documentato nel secolo successivo e precisamente annovera nel San Francesco di Bagnacavallo la lastra tombale di Tiberio Brandolini del 1397, in cui la tipologia dell'armatura appare già quattrocentesca, nel San Domenico di Imola quella di Colaccio Beccadelli del 1341 (fig. 4), che vi appare rivestito di un'uniforme non dissimile da quella faentina che per alcuni particolari ed infine a Bologna quella già menzionata di Filippo De' Desideri del 1315 con veste ed armi identiche a quelle che figurano nella nostra lastra. Dato il precario stato di conservazione di quest'ultima è difficile sia il sostenere che il negare un nesso tra le due opere, tuttavia certe coincidenze quali l'atteggiamento delle mani congiunte in preghiera, come si è detto assai raro ed il loro disporsi sul petto disegnandovi una forma identica, nonché la precisa linea dei guanti in entrambi i casi conclusi da un alto bordo a larghe scanalature. La lastra bolognese presenta al centrò in basso la firma di Arriguzzo Trevisano, artista a cui Ercole Grandi nel suo studio sulla scultura bolognese del Trecento attribuisce, seppure con qualche incertezza, anche la lapide di Egidio de' Lobia sempre nel museo civico di Bologna (12). Non è improbabile che egli appartenesse a quelle maestranze di scalpellini che si muovevano a gruppi ove si presentava occasione di lavoro e la cui attività risulta solo sporadicamente documentata. Certo lo stile solenne e severo, anche se non privo di qualche interesse ritrattistico, che caratterizza l'opera bolognese e che ritorna in forme, che tuttavia appaiono alquanto più irrigidite ed assottigliate nella lastra faentina, non hanno nulla in comune con la già ricordata ed alquanto più tarda immagine di Colaccio Beccadelli, di una naturalezza tipicamente bolognese e già affine alle cose di Vitale da Bologna.

      Antonio Corbara attribuiva il guerriero faentino a maestranze campionesi, attorno alla metà del XIV secolo, il Grandi nel suo già citato studio ricollega Arriguzzo alla scultura Veronese del primo Trecento «nel quadro di quegli scambi padani che sappiamo fitti ed incrociati»; quindi con un riferimento in sostanza analogo a quello proposto dal Corbara per il guerriero faentino. Relativamente alla data, per le ragioni sopra accennate, che concernono in primis l'aspetto dell'armatura, di foggia arcaica, priva di gomitiere, i caratteri arcaici ed il tono medesimo dell'epigrafe, nonché il confronto con la lastra funebre di Filippo de' Desideri mi inducono ad una sua anticipazione intorno al 1320. Nel confronto con le immagini già ricordate e con numerose altre che mi è occorso di incontrare il dato più singolare della lastra faentina è costituito dal tono della sua epigrafe. Anche se frammentaria le parole che si riescono a leggere quali: la constatazione o la speranza di essere salvato nell'abito santo e l'auspicio che ogni sua impresa gli valga la possibilità di accedere alla corte santa, risultano anomale rispetto alle formule ricorrenti che generalmente indicano il casato, qualche particolare impresa e chiedono che la loro anima riposi in pace. II sentimento religioso che la pervade sembra più riferibile ad un cavaliere appartenente ad una milizia religiosa che non cittadina, «Mira tanta fecit, sibi multa subiegit» si legge, con espressione assai piu concreta, nella lapide del Becadelli, tuttavia la mancanza di particolari insegne non consente di andare oltre un accenno di tale eventualità.

P.S. - Ringrazio il dott. Aldo Ghetti per le sue delucidazioni sulle armature del Trecento ed il personale della Biblioteca Comunale per l'aiuto datomi nelle ricerche.



NOTE
(1 ) B. Montuschi Simboli, Il monumento funebre del vescovo. Francesco Zanelli, in «Torricelliana», 1988, n. 39, pp. 111-119.
(2 ) A.F. Querzola, Cronache del Convento dei Servi di Faenza, 1728, ms. Biblioteca Comunale di Faenza - C. Zanelli. Cronache in Borsieri, ibidem.
(3 ) A.M.  Spada, Monumenta marmorea vel picta in urbe Faventina existentia, a Angelo Maria Spada collecta; Faenza, Biblioteca Comunale, ms.
(4 ) C. Mazzotti - A. Corbara, S. Maria dei Servi a Faenza, Faenza 1975, pp. 111-112.
(5 ) L.G. Boccia, Hie jacet miles, in Guerre e Assoladati in Toscana 1260-1364, cat. mostra Ms. Stibbert Firenze.
(6 ) G. Rossini, Schede, Faenza, Biblioteca Comunale, ms.
(7 ) F. Argnani, Ceramiche e maioliche arcaiche di Faenza, Faenza 1908, tav. 3.
(8 ) G. Ballardini, Di un boccale ceramico faentino, in La Romagna, VII, fasc. HI, s. IV, 1910.
(9 ) G. Liverani, Maioliche faentine al tempo dei papi avignonesi, in Faenza, 1977, VI, pp. 123-131.
(10 ) A. Corbara, op. cit.
(11 ) L.G. Boccia, op. cit.

(12 ) E. Grandi, I monumenti dei dottori e la scultura a Bologna, Bologna, 1982, p. 7-128, tav. 23
.


Fig. 2 - Arriguzzo Trevisano,
Tomba di Filippo di Desideri 1315.
Museo Civico Bologna.


Fig. 3 - Boccale con stemma Albornoz.
Faenza Museo Internazionale delle Ceramiche.


Fig. 4 - Imola, Chiesa di S. Domenico.
Bitinio da Bologna.
Lastra tombale.



Home
Storia Medioevale