Fig.1 - Bottega di Arriguzzo Trevisano.
Lastra tombale di Guerriero.
Bibblioteca Comunale di Faenza. |
Nelle
particolareggiate Cronache del Querzola e di Carlo Zanelli (2) che
riferiscono sulla ricostruzione settecentesca e sulla conseguente
rimozione dei vari monumenti non si fa menzione né della originaria
collocazione di tale lapide, né della sua traslazione, tuttavia dato il
notevole impoverimento dello spessore del rilievo si può presumere che
essa fosse collocata lungo la navata, piuttosto che in una delle
cappelle gentilizie che la fiancheggiavano. Sulla lastra appare
adagiata una figura di guerriero con il capo posato sul cuscino e le
mani congiunte in preghiera, gesto insolito che dona all'immagine un
senso di profonda pietas, le mani di norma riposavano congiunte in vita
e solo in pochi altri casi, quali le due lapidi di Filippo de' Desideri
del 1315 (fig. 2) e di Egidio de' Lobia del 1319 del museo civico di
Bologna, quella di Ilario Sanguinetti del 1381 nella chiesa degli
Eremitani a Padova ed ancora in quella di Federico di Vallelongo del
1373, ora nel museo civico di Padova ho potuto riscontrare tale
atteggiamento.
L'uniforme
che lo riveste è resa in maniera puntuale e, nonostante il logorio,
risulta ancora leggibile nei minimi particolari, dalla celata alla
corazza, ai guanti di grossa pelle, alla daga, alla spada appese al
cinturone, ai gambali, agli speroni, il che la rende ancora passibile
di confronti ai fini di una sua, quantomeno plausibile datazione. Sulla
cornice corre una lunga iscrizione, intervallata, come assai spesso, da
una minuscola croce ai quattro angoli, la cui lettura è compromessa dal
precario stato di conservazione. Sul lato superiore in cui si indicava
per lo più il nome del defunto ora non si ravvisano che isolati
frammenti di lettere, in basso si può ancora percepire qualche parola,
sui due lati lunghi a parti perfettamente leggibili si alternano zone
quasi totalmente abrase. Nessuno
dei cronisti faentini di qualsivoglia periodo ha mai fatto cenno a tale
monumento, una prima trascrizione dell'epigrafe è stata fornita dal
canonico Angelo Maria Spada nella sua raccolta di antiche lapidi
faentine (3) risalente al Settecento inoltrato, quando la lastra era
già stata rimossa dalla chiesa ed appariva fortemente degradata. II
canonico Spada ne dava la seguente lettura: in alto «Te scias hic
jacere Arnald.. DU..», a destra: «Servor In Abitu Sancto.»; in basso
«Octoginta Anis Novembris Bis Sexta..», a sinistra, «Om(nia) Gesta Hic
Pro Sorte In Sancta Cohor..», e non apponeva alcun commento. Nel volume
su Santa Maria dei Servi di Faenza redatto da Carlo Mazzotti in
collaborazione con Antonio Corbara quest'ultimo ne proponeva identica
trascrizione (4).
È una
lettura che suscita alcune perplessità a cominciare da quel: «Te
scias'» di evidente reminiscenza classica e a cui non ho trovato alcun
riscontro in quanto la formula ricorrente di apertura suona: «Hic
Jacet» (5). Dopo
la recente pulitura ed il restauro, nel confronto con la lettura
fattane dallo Spada, si può operare qualche integrazione sui due lati
lunghi che risultano i meglio conservati e precisamente a destra si può
leggere: «.. TO.. SERVOR IN ABITU SANCTO..» con verso l'angolo alcune
lettere in minuscolo, a sinistra «F. IERI (fecit fieri?) OM GESTA SIT
HIC PRO SORTE ET IN ADV (ventum?) IN SANCTA COHOR...». Mi pare si possa
confermare la trascrizione data dallo Spada per il lato inferiore:
«Octoginta Anis Novembris Bix Sexta», tuttavia non credo che essa possa
essere semplicemente integrata e trascritta come: dodici novembre 1280,
oppure dodici novembre 1380, date per ragioni diverse non convincenti,
la prima in quanto la costruzione della chiesa dei Servi incominciò
solamente nel 1313, a meno che non si voglia supporre, cosa però assai
improbabile, che tale monumento fosse gia presente nella chiesa di S.
Maria del Conte, sul cui luogo venne poi innalzata la basilica dei
Serviti, la seconda perché inaccettabile sia per ragioni stilistiche
che per le particolarità dell'uniforme. Ritengo
che la chiave di lettura della data sia da ricercarsi in esempi
abbastanza diffusi nell'epigrafia medioevale, quale quello che
s'incontra nella tomba del cardinale De Braye nel duomo di Orvieto del
1282 che è cosi costruita: «Bis sex centenus binus bis bisque vicenus /
annus erat Christi quando mors affuit isti».
Se, per ipotesi si parte
da Mille, come si può constatare nella maggior parte di tali
iscrizioni, per ottenere una data compatibile sia con i caratteri
stilistici della scultura ed ancor più con i caratteri delle lettere
della scritta medesima, che appaiono piuttosto arcaici, l'unico numero
per cui si può proporre di moltiplicare l'ottanta risulterebbe il
quattro, che ci fornirebbe l'anno 1320, data, a mio avviso,
convincente. La cancellazione delle lettere nel lato superiore non
consente di verificare se la lettura di Arnald. DU, fatta sia dallo
Spada che dal Corbara, fosse quanto meno probabile. Nella
«Schede» del Rossini e nelle varie cronache e documenti faentini
relativi ai secoli XIII e XIV l'unico Arnaldus ricordato è il Cardinale
di Perigeux detto di «Pelagura» (6), legato pontificio in Romagna
attorno al 1320, poi rientrato nella sua residenza in Francia.
Alla
cintura del guerriero è appeso uno scudo di forma gotica che presenta
sotto il capo tre lambelli ed entro il campo una «sbarra», cioè una
banda in diagonale dal vertice sinistro in basso a destra. Si tratta di
uno stemma più volte documentato a Faenza e già oggetto di dispute.
Federico Argnani alla fine del secolo scorso aveva riferito uno stemma
similare, dipinto su di un boccale faentino in maiolica, ad un Giacomo
Pasi che sarebbe stato vescovo di Faenza tra il 1258 ed il 1273,
tenendo anche conto delle notevoli somiglianze con lo stemma di cui si
fregiavano i Pasi nel Cinquecento (7). Gaetano
Ballardini confutò tale ipotesi dimostrando, con precisa
documentazione, l'inesistenza di un vescovo Pasi in città nel XIII
secolo, notando inoltre che nello stemma della famiglia Pasi il capo
era ornato con i gigli di Francia ed attribuendo poi lo stemma dipinto
sul boccale, anche per il fatto che era sormontato da un cappello
cardinalizio, al Card. Egidio Albornoz, legato pontificio presente a
Faenza nel 1359 (8). Negli
ultimi decenni tale stemma, sempre dipinto su boccali, emersi integri
od in frammenti, in scavi in varie zone della città, è stato
riscontrato più volte e con questo un altro identico ma privo del
cappello cardinalizio, sormontato da un chiodo a cui sembra appeso ed
in cui Giuseppe Liverani ha ravvisato lo stemma del nipote
dell'Albornoz, Blasco, rettore a Fermo nel 1365 (9) (fig. 3). Ho
citato tali esempi, seppure, come le forme medesime dei boccali
chiaramente denunciano, essi siano più tardi di qualche decennio, a
dimostrazione di quanto fosse diffusa tale insegna e pertanto della sua
dubbia utilità ai fini di individuarvi una precisa famiglia o
personaggio. Nè
d'altraparte dai documenti e dalle storie faentine concernenti il XIV
secolo emergono, a quanto mi consta, notizie tali da avvalorare
l'ipotesi avanzata dal Corbara (10) che l'ignoto guerriero appartenesse
alla famiglia Pasi.
La prima notizia su tale famiglia nella Carte del
Rossini risale al 20 ottobre del 1313, quando un Bartolomeo Pasi
risulta avere assunto in enfiteusi un terreno a Castellina presso il
Ponte di S. Proculo, per tutto il secolo seguente nel medesimo
schedario, sono sempre menzionati come venditori di spezie e di aromi,
solo nel Cinquecento assumono un ruolo importante nella vita cittadina,
con la presenza anche di un vescovo agli inizi del Cinquecento. In
questo assommarsi di incertezze, sia per quel che concerne l'identità
del guerriero, che la precisa lettura dell'epigrafe, mi pare possa
venire qualche indicazione, almeno per avanzare una presumibile data,
dal confronto con opere analoghe presenti in Emilia Romagna e nelle
regioni vicine. Si tratta di presenze numericamente diverse con in
Toscana i complessi ben documentati di Arezzo e di Lucca (11), con cui
tuttavia la lastra faentina non mostra molte affinità, sia
relativamente all'epigrafi che si rivelano semplici e ripetitive, che
per i modi compositivi e stilistici.
Il gruppo
emiliano consta di pochi esemplari nell'arco del XIV secolo, mentre
appare più documentato nel secolo successivo e precisamente annovera
nel San Francesco di Bagnacavallo la lastra tombale di Tiberio
Brandolini del 1397, in cui la tipologia dell'armatura appare già
quattrocentesca, nel San Domenico di Imola quella di Colaccio
Beccadelli del 1341 (fig. 4), che vi appare rivestito di un'uniforme
non dissimile da quella faentina che per alcuni particolari ed infine a
Bologna quella già menzionata di Filippo De' Desideri del 1315 con
veste ed armi identiche a quelle che figurano nella nostra lastra. Dato
il precario stato di conservazione di quest'ultima è difficile sia il
sostenere che il negare un nesso tra le due opere, tuttavia certe
coincidenze quali l'atteggiamento delle mani congiunte in preghiera,
come si è detto assai raro ed il loro disporsi sul petto disegnandovi
una forma identica, nonché la precisa linea dei guanti in entrambi i
casi conclusi da un alto bordo a larghe scanalature. La
lastra bolognese presenta al centrò in basso la firma di Arriguzzo
Trevisano, artista a cui Ercole Grandi nel suo studio sulla scultura
bolognese del Trecento attribuisce, seppure con qualche incertezza,
anche la lapide di Egidio de' Lobia sempre nel museo civico di Bologna
(12). Non
è improbabile che egli appartenesse a quelle maestranze di scalpellini
che si muovevano a gruppi ove si presentava occasione di lavoro e la
cui attività risulta solo sporadicamente documentata. Certo lo stile
solenne e severo, anche se non privo di qualche interesse
ritrattistico, che caratterizza l'opera bolognese e che ritorna in
forme, che tuttavia appaiono alquanto più irrigidite ed assottigliate
nella lastra faentina, non hanno nulla in comune con la già ricordata
ed alquanto più tarda immagine di Colaccio Beccadelli, di una
naturalezza tipicamente bolognese e già affine alle cose di Vitale da
Bologna.
Antonio
Corbara attribuiva il guerriero faentino a maestranze campionesi,
attorno alla metà del XIV secolo, il Grandi nel suo già citato studio
ricollega Arriguzzo alla scultura Veronese del primo Trecento «nel
quadro di quegli scambi padani che sappiamo fitti ed incrociati»;
quindi con un riferimento in sostanza analogo a quello proposto dal
Corbara per il guerriero faentino. Relativamente
alla data, per le ragioni sopra accennate, che concernono in primis
l'aspetto dell'armatura, di foggia arcaica, priva di gomitiere, i
caratteri arcaici ed il tono medesimo dell'epigrafe, nonché il
confronto con la lastra funebre di Filippo de' Desideri mi inducono ad
una sua anticipazione intorno al 1320. Nel
confronto con le immagini già ricordate e con numerose altre che mi è
occorso di incontrare il dato più singolare della lastra faentina è
costituito dal tono della sua epigrafe. Anche se frammentaria le parole
che si riescono a leggere quali: la constatazione o la speranza di
essere salvato nell'abito santo e l'auspicio che ogni sua impresa gli
valga la possibilità di accedere alla corte santa, risultano anomale
rispetto alle formule ricorrenti che generalmente indicano il casato,
qualche particolare impresa e chiedono che la loro anima riposi in pace. II
sentimento religioso che la pervade sembra più riferibile ad un
cavaliere appartenente ad una milizia religiosa che non cittadina,
«Mira tanta fecit, sibi multa subiegit» si legge, con espressione assai
piu concreta, nella lapide del Becadelli, tuttavia la mancanza di
particolari insegne non consente di andare oltre un accenno di tale
eventualità.
P.S. -
Ringrazio il dott. Aldo Ghetti per le sue delucidazioni sulle armature
del Trecento ed il personale della Biblioteca Comunale per l'aiuto
datomi nelle ricerche.
NOTE
(1 ) B. Montuschi Simboli, Il monumento funebre del vescovo. Francesco Zanelli, in «Torricelliana», 1988, n. 39, pp. 111-119.
(2 ) A.F. Querzola, Cronache del Convento dei Servi di Faenza, 1728, ms. Biblioteca Comunale di Faenza - C. Zanelli. Cronache in Borsieri, ibidem.
(3 )
A.M. Spada, Monumenta marmorea vel picta in urbe Faventina
existentia, a Angelo Maria Spada collecta; Faenza, Biblioteca Comunale,
ms.
(4 ) C. Mazzotti - A. Corbara, S. Maria dei Servi a Faenza, Faenza 1975, pp. 111-112.
(5 ) L.G. Boccia, Hie jacet miles, in Guerre e Assoladati in Toscana 1260-1364, cat. mostra Ms. Stibbert Firenze.
(6 ) G. Rossini, Schede, Faenza, Biblioteca Comunale, ms.
(7 ) F. Argnani, Ceramiche e maioliche arcaiche di Faenza, Faenza 1908, tav. 3.
(8 ) G. Ballardini, Di un boccale ceramico faentino, in La Romagna, VII, fasc. HI, s. IV, 1910.
(9 ) G. Liverani, Maioliche faentine al tempo dei papi avignonesi, in Faenza, 1977, VI, pp. 123-131.
(10 ) A. Corbara, op. cit.
(11 ) L.G. Boccia, op. cit.
(12 ) E. Grandi, I monumenti dei dottori e la scultura a Bologna, Bologna, 1982, p. 7-128, tav. 23.
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