Martino Bernabucci (Martino da Faenza) condottiero di ventura

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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Storia Medioevale



MARTINO BERNABUCCI (MARTINO DA FAENZA)

Condottiero di Ventura al servizio della Repubblica Veneta

di Miro Gamberini

"L'altro fu quel magnanimo, cortese,
Miser Martin da Faenza gagliardo
Che fe' tremar più volte el milanese"

(da i "Versi" di Gambino d'Arezzo - 1420-1477?)

PREMESSA
Gli anni intorno al 1380 furono decisivi nella storia bellica italiana, poiché furono quelli in cui si ebbe la fine delle grandi compagnie di ventura e l’affermazione definitiva del singolo condottiero. Il fattore principale nel declino delle compagnie fu la struttura che in Italia le Signorie locali e gli Stati si diedero potenziando i dispositivi di difesa. Per sopravvivere in questo contesto, la crescente forza militare degli Stati costrinse le compagnie a stringere accordi e alleanze, ove gli alleati di oggi, diventavano nemici il giorno dopo.
Ecco emergere il ruolo fondamentale del condottiero, che con il suo comportamento diventa quel comandante strategico e ambizioso che, ove si presenti l’occasione di metter mano a un territorio, cerca di ritagliarsi una sua “Signoria” personale. 
 La storia che qui vado a raccontare inizia nel 1398, e nasce da una notizia letta nel libro “Sant’ Antonino nel Borgo Durbecco di Faenza” ove don Giulio Foschini in una nota a pag. 31, cita: “1417 – Fra le glorie del Borgo deve porsi Martino Bernabucci, capitano di ventura ...” É sorta immediatamente in me la curiosità di conoscere le vicende storiche di questo condottiero.
Ecco qui di seguito tutto quello che sono riuscito a raccogliere su Martino Bernabucci, chiamato il faentino. Dagli scritti degli storici del tempo, emerge un condottiero sempre in prima fila nelle battaglie da lui sostenute e con una grande disponibilità di denaro, ottenuta quando al comando di una sua compagnia di ventura militava al soldo della Repubblica Veneta, tanto da diventarne Comandante Generale.
Entrato al servizio di Sigismondo Malatesta, su consiglio di Venezia, combatte nella Marca Anconetana, ove cerca di consolidare i poteri della signoria Malatestiana. Personaggio meno famoso e  significativo di Braccio da Montone, col quale in varie battaglie ha incrociato la sua spada, era consapevole che occorrevano forze militari ben disposte e organizzate per mettere in atto le sue ambizioni di condottiero.
Specialmente contro Braccio ha subito delle sconfitte memorabili, ma sempre è riuscito a ricompattare i suoi soldati. Alieno a manovre azzardate, era un cavaliere impareggiabile e la sua specialità era la fulminea incursione tra le file avversarie e le operazioni di saccheggio alla testa della sua cavalleria Entrato in contrasto con i signori di Rimini su un vago sospetto di tradimento, pagherà con la vita questo indizio.

“Frattanto giunse nella Flaminia il faentino Martino,
famoso comandante militare di quel tempo...”

(Girolamo Rossi, 1539-1607)
Martino Bernabucci o Martino da Faenza
Non si conosce la data di nascita di Martino Bernabucci (Martino da Faenza), detto il Faentino, valente condottiero di ventura dei primi anni del XV sec.; Marcello Valgimigli nel manoscritto “Memorie storiche di Faenza”, accenna a un testamento del padre di Martino datato 1407, conservato nel monastero di Classe in Ravenna, in cui  viene citato “..Magnanus de Bernabuccis - capellae S. Antonine Burgi Porte Pontis” attestando in modo concreto le sue origini faentine. Tutta la sua vita è coronata dalla partecipazione, sotto diverse bandiere, alle lotte che contrapposero le varie signorie locali per il predominio sul territorio. Difficile è quindi ricostruirne la sua partecipazione a questi fatti storici, Giovan Antonio Campano nel suo libro “L’Historie et vite di Braccio da Montone”, lo menziona descrivendolo “hominem supramodum pecuniosum”, senza specificare se egli avesse accumulato la sua ricchezza con il mestiere delle armi.

I combattimenti dal 1398 al 1407

Le notizie più remote riguardanti Martino Bernabucci ci sono state tramandate dai cronisti del tempo quando raccontano avvenimenti di storia locale, sono brevi annotazioni di fatti che vedono il condottiero faentino protagonista con i suoi soldati nelle varie contrade italiane. La citazione più antica è del settembre 1398, quando costituisce con Lorenzo Attendolo una propria compagnia di ventura, la quale nel mese successivo verrà assoldata da Ceccolo Broglia per la conquista di Assisi. Nel 1403 viene ingaggiato dal condottiero Ottobono Terzi (Otto Buonterzo) di Parma, per conquistare il castello di Borgo San Donnino (Fidenza). Conquistata la fortezza, Martino da Faenza viene dal Terzi assieme a Gasparo dei Pazzi nominato comandante della guarnigione. Il 5 marzo 1404 Martino da Faenza entra in conflitto col Terzi, forse per non aver ancora ricevuto il soldo concordato, e si ribella facendo prigionieri i suoi ufficiali.
Costituisce nel medesimo mese con Fra Ruffino da Mantova (Ruffino Galloso) e Giovanni Marzano la "Società degli Armigera di Borgo San Donnino", per contrastare Pietro Rossi e Ottobono Terzi i quali si sono impadroniti militarmente di Parma in nome del partito guelfo. Passa un solo mese, e in aprile le alleanze cambiano: il Terzi allontana anche Rossi dal potere. Ne nasce una guerra civile, che insanguinerà a lungo le strade della città. La Società degli Armigeri stringe alleanza con Pietro Rossi per arginare il dilagare della potenza militare di Ottobono. Nel 1405 Martino si mette al servizio di Pandolfo Malatesta (1),  in quel momento  impegnato a costruirsi una personale signoria in Lombardia. Vengono conquistate Piacenza, Brescia e la Valcamonica. Nel 1407 le bandiere dei guelfi e dei ghibellini tornano a sventolare, annunciatrici di una prossima guerra. Pandolfo Malatesta è in una situazione difficile suo fratello Carlo è stato nominato governatore e tutore del duca Giovanni Maria Visconti, elezione caldeggiata da Iacopo Dal Verme per eliminare l'influenza ghibellina sul Visconti.
L'intento viene portato avanti anche con la forza, quando Dal Verme, formato un proprio esercito e appoggiato da una coalizione composta da Pandolfo, Ottobuono Terzi, i Gonzaga, Venezia e il cardinale legato Baldassarre Cossa, marcia su Milano contro Facino Cane. Il quale dopo essersi spostato alla Certosa di Garegnano, è abbandonato anche da Giovanni Maria, e viene sconfitto dalle truppe di Dal Verme a Binasco il 22 febbraio 1407. Pandolfo Malatesta con questa vittoria ottiene la legittimazione ducale sulla signoria di Brescia. Se il ducato di Milano raggiunge una relativa pace, Fermo con la Marca Anconetana,  rette dal tiranno Antonio Aceti, si trovano invece in un periodo di estrema confusione. Innocenzo VII invia nel maggio del 1407 Lodovico Migliorati (alias Lodovico Meliorati, 1370? - 1428), Paolo Orsini e Ceccolino da Perugia (Ceccolino Michelotti) per prendere possesso di Fermo. Dalla cronaca “L’Historie et vite di Braccio da Montone” di Giovan Antonio Capano apprendiamo che Lodovico Migliorati, per assicurarsi un contingente adeguato per far fronte a un eventuale attacco mosso contro di lui dal vescovo Benedetto di Montefeltro e rettore della Marca, assolda “Martino Signor di Faenza”, il quale  con 600 cavalli e 300 fanti accorre in soccorso del Migliorati, che si trova nel castello di Grifalco a Cortona.

Lo scontro avviene nel mese di agosto in località Arcervia, ove  contrapposti al  Migliorati e a Martino da Faenza e con un esercito meno numeroso vi sono il signore di Camerino, Rodolfo da Varano, e Braccio da Montone. La battaglia ce la racconta Giovan Antonio Capano:
“Martino Signor di Faenza, e il Conte di Carrara, messi insieme da tremila cavalli, se n’andò con tutto l’esercito contro Braccio, il quale stava all’hora alle stanza in Montecosaro, poco  innanzi preso da lui. Braccio udita la venuta di costoro, accioché non si credessero, ch’egli volesse schivar la battaglia, si spinse innanzi due miglia, e ivi essendosi dall’una parte e dall’altra messe tra messe in una piccola pianura e ordinata le schiere, fu combattuto il rimanente del giorno, che furono alquante hore quasi nove. Dei nemici molti ne furono morti e altri fatti prigionieri. Il fin della guerra fu, che Lodovico con gli altri Signori furono fatti ritirare, e con gran violenza cacciati, si ricoverarono nelle terre vicine, e Braccio, che senza dubio ne haveva havuto il meglio, ricondusse l’esercito vincitore agli alloggiamenti”.
Il Fortebracci dimostrò tutto il suo valore, sopperendo con la tattica all’inferiorità del suo esercito.
 Parecchi soldati abbandonarono il signore di Fermo per passare al fronte avversario; diversi castelli, inoltre, si diedero spontaneamente al Fortebracci. Lodovico Migliorati comandante della coalizzazione chiese di incontrare Braccio a Cingoli, ove si siglarono gli accordi, giurandosi reciproca amicizia e appoggio militare negli anni a seguire. La collaborazione fra i due diede subito i suoi risultati: il Fortebracci inviò alcuni soldati al Migliorati affinché se ne servisse per la riconquista di Ascoli, recentemente ribellatasi, così che non solo conquistò la città ma entrò anche in possesso di molti dei territori perduti, muovendo insieme con Martino da Faenza e il Conte di Carrara  depredarono  i villaggi e la campagna fino alle porte di Camerino, ove trovarono rifugio, per poi spostarsi nel castello di Apiro (Macerata) nel gennaio del 1408.

Le battaglie contro Braccio da Montone dal 1408 al 1411

Il mese successivo Martino (febbraio) si porta al castello di Lapiro presso Cingoli con trecento cavalieri, e si fortifica nella rocca pronto a resistere all’assalto di Braccio da Montone, la breve battaglia che segue ci viene narrata nuovamente dal Capano: “La terra fu presa e messa a sacco, e gli trecento cavalli di Martino svaligiati del tutto, furono lasciati in poter loro, il che fu cagione, che i Cingulani si sbigottirono grandemente, e parendo loro d’haver troppo vicino un cosi bellicoso numero sotto pretesto di schivar la ruine del paese, gli offerirono (se egli voleva partirsi dal lor Territorio, e render la Terra) dandogli cinque mila ducati. Braccio accetta la condizione, diede di quei danari una paga ai soldati e di nuovo rimenò l’esercito alle stanze”.
Pagata la loro liberazione i cingolani non tardano a far rullare i tamburi di guerra, riconquistano il castello di Lapiro, e mandano “… ambasciatori al Signor di Faenza, accioché gli accomodasse di quella quantità di soldati che bastasse loro per difendersi dalle scorrerie… ” degli uomini di Braccio da Montone. “Il Faentino havendo lodato il consiglio loro, li ringraziò della fede, che havevano mostrato verso di lui, e mandò loro 600 Cavalli, scelti tra li migliori fra quanti ne haveva, ai quali ordinò, che difendessero i confini di Cingoli dalle scorrerie dei Bracceschi, e che insieme inconsideratamente non s’arrischiassero di venire alle mani, dovendo bastare ai Cingolani d’esser difesi da incendi, e rubamenti”.

Ritratto di autore anonimo di Andrea Fortebracci, o Braccio da Montone (1368-1414).




Braccio da Montone.
A marzo Braccio entra nuovamente nel territorio di Cingoli, accampandosi in un campo fortificato lontano dalla città due miglia. Aveva appena fortificati gli alloggiamenti, quando gli venne riferito da spie, che uomini armati di Cingoli gli venivano incontro, con 700 cavalli, e due mila fanti; Braccio da Montone, intuendo di essere in inferiorità preferì non accettare lo scontro con la cavalleria di Martino da Faenza e ordinò ai sui soldati di schierarsi sulla difensiva. I Cingolani sicuri di cogliere i “Bracceschi” mentre fortificano l’accampamento, si trovarono invece gli uomini schierati e giudicarono più prudente non dar battaglia, certi di aver maggior possibilità di successo asserragliandosi nella fortezza di Cingoli. La battaglia ebbe inizio mentre le truppe di Cingoli stavano rientrando in città. Le baliste con sassi e pietre cercavano di abbattere le mura “Si combattè con tanto ardore e fierezza d’animo dall’una banda, e dall’altra, che venuta la notte, e essendosi dai Terrazzani [abitante di una città fortificata, di un castello, di un borgo] posti sulla mura di molti lumi, durò la battaglia fino alle tre hore, percioché i Cingolani speravano la vittoria dalla stanchezza dei nemici”. La contesa fu tanto tremenda che la cronaca racconta  “… quasi tutti i soldati dell’uno e dell’altro esercito furono feriti e che la maggior parte dei cavalli restarono storpiati o morti, si combattè fin  tanto, che i nemici diedero facultà di combattere”. La vittoria arrise a Braccio da Montone, il quale dopo aver lodato i suoi soldati fece arrivare dai paesi vicini molti medici “...acciochè i feriti con diligenza si medicassero, e Braccio nello stesso ritorno havendo saccheggiato il contado di Fabriano, fece lega col Signor di Sassoferrato”.
Nell’aprile del 1408 Martino da Faenza affianca il re di Napoli Ladislao d’Angiò (Napoli 1376 – Napoli 1414) alla conquista di Roma; si scontra alla Porta di Santo Spirito con le truppe di Paolo Orsini. Roma cade il 25 aprile e resta occupata fino al giugno dello stesso anno.  E’ un anno travagliato il 1409, si era entrati nella fase più acuta del scisma d’Occidente all’obbedienza romana, rappresentata da Gregorio XII, che si contrapponeva quella avignonese la cui guida era nelle mani del catalano Pedro de Luna, il quale aveva assunto il nome di Benedetto XIII. Ladislao e Migliorati cementarono la loro alleanza proprio in opposizione a Gregorio XII.
Allontanato il pericolo di un rientro imminente di Gregorio XII, Ladislao ritenne opportuno sciogliere l’esercito. Migliorati, accompagnato da Martino da Faenza e da Ceccolino Michelotti, fecero ritorno nella Marca, ma nel corso del concilio di Pisa (1409), al quale parteciparono i maggiori esponenti delle due obbedienze, si consumò il nuovo passaggio di fronte di Ladislao, che si dichiarò fedele a Gregorio XII, ospite dal novembre di quell’anno di Carlo Malatesta, signore di Rimini. Migliorati e Martino da Faenza si trovano ora su posizioni opposte, anche il re di Napoli Ladislao che aveva tentato di occupare alcune città marchigiane, revoca al Migliorati il titolo di conte di Monopoli. Fu in tale frangente, maggio 1409, che il Migliorati fece giustiziare per tradimento il nipote Giannocchio che, posto alla custodia delle fortezze di Monterubbiano e Marano, era venuto segretamente a patti con i capitani di Ladislao, Rodolfo da Varano e Martino da Faenza con lo scopo di sottrarre le fortezze allo zio.
Tra il 25 e il 26 giugno 1409 giunse la decisione del concilio che dichiarò decaduti e scomunicati Gregorio XII e Benedetto XIII, eleggendo un nuovo pontefice nella figura di Pietro Filargo che assunse il nome di Alessandro V. La crisi, ben lungi dall’essere risolta, si era dunque complicata con la presenza di tre papi, ognuno sostenuto da alleati influenti. Il 1° luglio 1409 le truppe del re di Napoli capitanate dai mercenari Martino da Faenza, Ciccolino da Perugia ed Angelo da Lavello detto il Tartaglia si accamparono sul fiume Fiastra tra S. Ginesio e Sant'Angelo; nello stesso giorno Lodovico Migliorati, che ora milita nel campo pontificio giunse a S.Angelo e costrinse i nemici a retrocedere per poi sconfiggerli il giorno seguente in una battaglia nei pressi diLoro Piceno (Macerata).  Il resto dell'esercito di re Ladislao, che si era accampato in territorio di Montecosaro, mosse alla volta del paese sotto la guida di Berardo di Rodolfo di Varano. Il 3 agosto i soldati del Varano penetrarono nel castello di Loro Piceno con l'aiuto di Fra Cecco dei Conventuali di S.Francesco. Duecento fanti al grido di “Viva lo re” fecero irruzione nella chiesa di S.Francesco scontrandosi contro la fiera resistenza dei loresi, che rimasero fedeli al Migliorati. Grazie all'intervento degli uomini inviati da Ruggero di Montegiorgio e da Rodolfo da Varano fu respinto l’assalto al castello.
 In Alessandro V, il Migliorati aveva trovato un protettore influente che, il 15 luglio, lo elesse “vicario di Fermo e di tutte le altre terre della Marca”. A fine mese Martino da Faenza finge di allontanarsi dalle Marche per fermarsi nel territorio di Montecosaro in località le Fontanelle.


Da un manoscritto di Leonardo Franchi "De Antiquitatibus Septempedanorum" storico sanseverinate del XVI secolo, veniamo a conoscere che nel settembre del 1409 Martino da Faenza con la sua compagnia di ventura  era acquartierato a Sanseverino.
Trascriviamo dal libro di Raoul Paciaroni: “L’ultimo assedio a Sanseverino”, prima il contesto storico in cui si svolge l’episodio,  poi in nota a parte la trascrizione del manoscritto. (2) “Agli inizi del XV secolo signoreggiava su Sanseverino Antonio Smeducci che era animato da una grande ambizione di dominio. Si trovò però a mal partito quando nel 1409 gli marciò contro Giacomo de’ Rossi da Parma, Vescovo di Verona e Rettore della Marca, mandato da papa Alessandro V per ridurre sotto la diretta giurisdizione della Chiesa la città di Sanseverino. Il Rettore preparò contro di essa una spedizione con un buon numero di fanti forestieri e marchigiani, con 300 cavalli carichi di vettovaglie e con ben 600 guastatori. L’esercito pontificio, dopo aver gravemente danneggiato il castello di Aliforni, la villa di Palazzata e altre località del territorio comunale (Cagnore, Settempeda, Torricella, S. Lazzaro), pose il campo presso Sanseverino per prepararsi ad espugnarla. Ma la città si era posta in buona difesa e con l’aiuto provvidenziale del capitano Martino da Faenza, sopraggiunto con un contingente di 600 cavalieri, potè in tre giorni togliere l’assedio. Neppure il tempo di rinfoderare le spade che un nuovo impegno militare attende il condottiero faentino: nel mese di ottobre del 1409 Braccio da Montone, alla guida di 1100 cavalli, si appresta a conquistare Jesi, e nuovamente deve confrontarsi con Martino da Faenza alleato di Ludovico Migliorati, Ceccolino dei Michelotti e Riccardo di Montereale. Ancora una volta la vittoria arride a Braccio. La città viene conquistata giovedì 11 ottobre, ottanta sono i prigionieri che vengono rinchiusi nel castello di Apiro (Macerata). La città di Jesi, dietro lauto compenso, viene dal Fortebraccio donata ai Malatesta. L’improvvisa morte di Alessandro V, avvenuta il 3 maggio 1410, e la successione al soglio pontificio di Baldassarre Cossa, che assunse il nome di Giovanni XXIII, mettono Martino da Faenza in una posizione difficile.  Per non rimanere isolato, il condottiero faentino decide allora di patteggiare per Gregorio XII.  Si allea con Rodolfo da Varano, col quale  accompagnano il papa nel maggio del 1411  da Macerata a Gaeta.

Capitano Generale della Repubblica Veneta

Nel maggio del 1412 Martino è al soldo di Ancona, ma allo scadere del contratto gli anconetani, non avendo denari per pagarlo, gli offrono una somma equivalente in merci, egli rifiuta e incomincia a depredare le campagne del circondario. Cinge la città sotto assedio accampandosi sul colle di Santo Stefano, minacciandola di raderla al suolo, ma nel novembre del medesimo anno viene siglato un accordo sul contenzioso. Tra maggio e luglio entra come Capitano generale di 400 lance al servizio di Pandolfo Malatesta, il quale lo invia a Offanengo (Cremona) per conquistare il castello che, rafforzato da quattro torri di difesa e mura merlate, era una minaccia costante per il Malatesta, in quel periodo signore di Brescia, dopo breve resistenza il fortilizio viene conquistato.
La sua fama di combattente audace e sempre alla testa delle sue compagnie di ventura, ne aveva fatto, secondo Biondo Flavio, un "Capitano celebre, e insigne tanto nominato dai scrittori di quei tempi, tanto da nominarlo Bellicosissimum militem il quale con le sue heroiche attioni illustrò se stesso, la famiglia, e la Patria”.
Lo storico faentino Giulio Cesare Tonducci nelle sue “Historie di Faenza”, lo menziona con queste parole:
 “...i di cui fatti, benché siano e ne gl’antecedenti, e nei seguenti anni ancora descritti copiosamente da gl’ Historici, m’è parso bene però memorarlo particolarmente in questo, nel quale fu dal Senato Veneto in grata demostrazione di stima del suo valore, e  servigio strenuamente prestatoli, mentre fu loro Capitano Generale nelle guerre, ch’hebbero col Re d’Ungheria, aggregato con tutta la discendenza alla Cittadinanza Veneta, come si ha dalle lettere Ducali sotto li 10 Aprile 1413 [dal doge Michele Steno] e poi rinnovate, e confermate à suoi figlioli, e discendenti li 20 febbraio 1430 da Francesco Foscarini Duce di quella Republica..."  Bartolomeo Righi negli “Annali della città di Faenza” lo incensa definendolo “...Martino Bernabucci Faentino, che era Capitano-Generale dell’armi Veneziane, e avea voce d’uno fra i primi condottieri di quei tempi”. Tutti questi elogi sono dovuti al suo impegno nella battaglia avvenuta nell’agosto del 1412 a Motta di Livenza quando, sotto le insegne dei fratelli Pandolfo e Carlo Malatesta e agli ordini della Repubblica Veneziana, combatte l’esercito di Sigismondo di Lussemburgo re d’ Ungheria e re dei Romani, che rivendicava il possesso del Friuli e dell’Istria. Lo scontro tra i due eserciti è all’inizio cruento, gli ungheresi dilagano e attaccano il campo fortificato veneziano, ma grazie all’intervento di 600 lance condotte da Martino da Faenza la cavalleria ungherese viene messa in fuga  ribaltando in tal modo le sorti della battaglia, in cui rimangono uccisi 1500  ungheresi con il loro Capitano Generale Andrea di Polcenigo. La battaglia è vinta, ma per confermare il dominio sul territori Venezia invia Martino da Faenza, su consiglio di Pandolfo Malatesta, a prendere possesso di Marostica nel gennaio del 1413. La città nega l’ingresso alle truppe veneziane, per cui  Martino colloca la sua compagnia di  800 cavalieri a Molvena, per poi prendere possesso di Vicenza. Quando Filippo Scolari al comando di truppe ungheresi cinge d’assedio le mura della città berica, fa calare nottetempo i ponti levatoi, ne esce con i suoi cavalli e 500 fanti e con Pandolfo Malatesta sconfigge gli ungheresi. La scaramuccia è breve, gli ungheresi si ritirano fino al Piave, ma prendendo una scorciatoia Martino li precede e li attacca mentre stanno guadando il fiume. Fra gli imperiali sono uccisi 400 uomini, altri 320 sono fatti prigionieri, dei quali 80 vengono incarcerati a Venezia. Rientra a Vicenza, si fortifica nella città e previene sempre i movimenti degli avversari. Si trasferisce successivamente alla difesa di Treviso; tallona Filippo Scolari e quando costui si ritira nel territorio di Aquileia attua la politica della terra bruciata, gli impedisce ogni attività di vettovagliamento per le truppe e di foraggiamento per le cavalcature.
Questi episodi che vedono Martino Bernabucci impegnato in Veneto, Marcello Valgimigli (nel volume “Memorie Storiche di Faenza”, vol. 9, pag. 194) li  descrive con le parole di un anonimo storico veneto, che Bernardino Azzurini ha riportato nelle sue schede: “Martino da Faenza del nostro esercito capitano, essendo entrato (negli anni 1412 e 13) Sigismondo re d’Ungheria Capitano con grande esercito nella provincia d’Aquilea, egli imitando di Quinto Fabio [Massimo detto Cunctator, “Temporeggiatore”] la sagacità, con una squadra di spediti soldati e cavalieri ardeva i coperti e corrompeva i pascoli dovunque era per andare il nemico, così hora cedendo et hora attaccando costrinse l’Unghero, in necessità d’ogni cosa, a partirsi dalli nostri confini”.
Il 5 marzo del 1413, Martino da Faenza “per meriti di guerra” acquista dalla Repubblica Veneta i diritti relativi al feudo e al vicariato di Custoza (Verona), la quale rimarrà di proprietà della famiglia dei Bernabucci di Faenza fino a quando la “Signora Laura Faenza discendente dal q. [defunto] Martin Faenza nel 1674  vende la possessione e il Titolo di Contea al Sig. Girolamo Summoriva” che poi il 12 settembre 1720 causa “Devoluzione per gli acquisti, e investiture Feudali” vende a Antonio conte Ottolini di Verona”. (3)
Il 17 aprile 1413 viene firmata una tregua quinquennale tra Sigismondo e Venezia, Pandolfo Malatesta viene nominato Capitano Generale per i servizi militari resi alla Serenissima con una pensione annua vitalizia di 1000 ducati d'oro, e il conferimento della nobiltà veneziana con diritto d'ingresso nel Consiglio Maggior veneziano. Mentre a Martino, come descritto dal Tonducci, il doge Michele Steno il 29 aprile 1413 concede il grado di Capitano Generale, la cittadinanza veneziana con una pensione vitalizia di 400 ducati e un palazzo situato a Verona nel borgo di Porta Vescovo.


Al soldo di Pandolfo Malatesta dal 1413 al 1417

Infastidito della presenza delle truppe di Pandolfo Malatesta e Martino da Faenza, troppo vicine a Milano, Filippo Maria Visconti, agendo con accortezza, finanzia le truppe del capitano Braccio da Montone, per portare lo scontro direttamente nella Marca Anconetana. Nel frattempo, nei pressi di Assisi  il 12 luglio del 1416 Carlo e il nipote Galeazzo Malatesta vengono catturati da Braccio da Montone. A difesa dei suoi territori e allo scopo di liberare i famigliari il 23 settembre, scortato da tremila uomini della compagnia di ventura del condottiero faentino, Pandolfo Malatesta muove verso la Romagna.


Mezzo grosso con ritratto di Pandolfo Malatesta.
Durante il suo impiego in qualità di capitano in Lombardia negli anni 1411 – 1414, Pandolfo Malatesta pagò a Martino 50.000 ducati d’oro. Giunto a Rimini, il Malatesta intavola trattative per scarcerare i suoi congiunti, dietro una richiesta di un riscatto di centomila fiorini d’oro, e trentamila per suo nipote. La trattativa non dà risultati positivi, per cui si decide di passare alle armi.
In ottobre Martino, con la sua compagnia di ventura, inizia la riconquista della Marca: vengono conquistate Corinaldo, Osimo, Montelupone, Civitanova Marche e Fermo. Si sposta nell’alta valle del Tevere e si indirizza su Borgo San Sepolcro (Sansepolcro) per unirsi con Ludovico dei Michelotti. Raggiunta la località, purtroppo non sfrutta l’occasione per portare l’attacco decisivo a  Perugia, dove Braccio di Montone si trova in difficoltà.
Questa indecisione gli sarà fatale. Contemporaneamente si riallacciano le trattative per i Malatesta, i quali vengono dopo un oneroso riscatto di 30.000 ducati, (prestati da Martino da Faenza) liberati. La conquista della Marca indusse nel maggio del 1417 Obizzo da Polenta, signore di Ravenna, e fidato alleato di Pandolfo Malatesta, a far arrestare il condottiero faentino, avendo avuto informazioni che Martino Bernabucci approfittando dei disordini nelle terre malatestiane, volesse impossessarsi di quelle località in accordo con Braccio da Montone, per conto dei veneziani. Angelo della Pergola, condottiero di ventura agli ordini di Pandolfo Malatesta, viene incaricato di arrestare Martino da Faenza, ciò  avviene il giorno dell’Ascensione (20 maggio 1417) mentre sta ascoltando la messa nella chiesa di San Francesco in Rimini. Sotto tortura, confessa di aver avuti dei contatti con Braccio da Montone. Condannato a morte, viene giustiziato a Fano, la data è variamente indicata dai cronisti del tempo, ma probabilmente va collocata nell’ottobre del 1417. (4)
Quando la notizia della morte del condottiero Martino il 29 ottobre giunse a Venezia la città reagì immediatamente, impugnando gli accordi sottoscritti con Pandolfo Malatesta, e privandolo della protezione che la Repubblica esercitava sulla sua signoria a Brescia. Come scrive Lodovico Antonio Muratori nel volume. “Annali d’Italia”, vol. X: “Pandolfo Malatesta... trovò la maniera di far danaro, con opporre a Martino da Faenza, uomo ricchissimo, e che militava per lui, un reato di tradimento, per cui lo spogliò non solo del contante, ma anche della vita”.

Il testamento di Martino Bernabucci

Il Mittarelli negli Annales Camaldulenses  ha pubblicato una parte del testamento di Martino Bernabucci, che era conservato nel monastero dei Camaldolesi di Classe. Non è annotata il giorno e la data della stesura dell’atto, è specificato solo l’anno 1418, ma molto probabilmente è il momento in cui il rogito viene aperto. Martino lascia “molti legati” [donazioni] alla chiesa di san Marco di Venezia del valore di cento aurei d’oro in indulgenze per la sua anima”. Alla chiesa di santa Maria del Mare di Fano, venticinque ducati d’oro, oggi è ridotta a rudere, ma nel 1416 quando Pandolfo Malatesta, per intercedere alla grazia della liberazione del fratello Carlo inviò in “voto due Corone d’Argento dorate valutate ventiquattro ducati oro” era “frequentata da molto Popolo per i continui miracoli, che operava”. Stesso importo, venticinque ducati d’oro, dona alla chiesa di Santa Maria del Metauro di Fano.
Nel testamento, nessun accenno a un lascito per i due figli Pietro e Gianantoni, dei quali veniamo a conoscenza grazie a un “contratto militare” registrato in Vicenza nella “cancelleria del Capitano” datato 18 maggio 1467. Apprendiamo che Pietro procuratore del fratello Gianantonio dichiara: “di avere ricevuto dal nobile Valerio Chiericati e da Giancristoforo figlio di Uguccione da Arzignano 2200 fiorini, a lire 5 l’uno, pagatigli per conto della Signoria Veneziana a titolo di prestanza pattuita, e promette in nome del detto suo fratello la stretta osservanza del contratto stesso, facendo quietanza del suddetto importo”. Il contratto era stato siglato il 15 maggio nel Palazzo Ducale di Venezia e stabiliva che: “Gianantonio de’ Bernabucci da Faenza ai servigi di Venezia, per un anno ed uno di rispetto con 200 cavalli vivi, alle condizioni delle altre milizie; con obbligo di combattere ovunque in Italia e con 2200 fiorini di camera di prestanza, avuta la quale si recherà entro 10 giorni a Ravenna ove farà gli arruolamenti” (Ravenna fin dal 1441 era governata dai Veneziani). Il documento reca la firma di Giancristoforo di Uguccione da Arzignano quale procuratore di Venezia, mentre Gianantonio “firma e giura di osservare il contratto in sostituzione del fratello Pietro”. Un figlio di Martino “continua l’arte delle armi”, ma da questo momento non vi sono più notizie della famiglia Bernabucci.

NOTE

1) Pandolfo Malatesta, fratello minore di Carlo, era un uomo ambizioso ed imprevedibile, Signore di Fano e di Brescia. Aveva ricevuto un’educazione umanistica, sapeva parlare correttamente il latino e comprendeva anche il francese e il provenzale. A Brescia si era contornato di una corte che ebbe una certa importanza per la cultura quattrocentesca. Inoltre seppe mantenere la sua compagnia di ventura a tale livello di consistenza numerica e di continuità che con qualche ragione la si potrebbe considerare un esercito permanente. Nicolò da Tolentino, Angelo della Pergola e Martino da Faenza passarono molti anni agli ordini di Pandolfo e furono personaggi di primo piano alla sua corte.
2) “Nell’anno 1409, adì 3 settembre, monsignor lo vescovo delli Rossi di Parma, vescovo di Verona, nella Marca Rettor di Santa Chiesa, a petitione de papa Alessandro V e Galeazzo Malatesta con altre genti d’armi, fanti forestieri e fanti de Cingulo, con cento fanti dall’Apiro e con trecento forieri carichi di vituaglie e con ben seicento guastaroli, tutti insieme andò a campo San Severino, e lo primo di fare il guasto a Laifurni e Santa Palazata, e per tutto quello paese fece il guasto perfino alle Cagnore, e passò lo campo a Settempeda, et alla Torricella et a S. Lazaro, e lo fece per tutto il guasto e molto fu danneggiato assai, et dentro in San Severino la sera de notte ce entrò messer Martino da Faenza con circa seicento cavalli et fecero delle belle scaramuccie fra l’una e l’altra parte. Lo campo sedette tre dì, lo quarto dì se levò lo campo e tutta la gente d’armi una con li fanti, e poi lo ditto signore et andò a campo ad Appignano”.
3) Alcuni famigliari di Martino Bernabucci dopo la sua scomparsa lasciano la Romagna, e si trasferiscono in Veneto nel feudo acquistato da Martino, cambiano il cognome adottando quello di provenienza del luogo di nascita del condottiero e cioè: Faenza.
4) Riporto i brani con cui è riferita la sua cattura e morte nel Chronicon foroliviense (R. I. S. , T. XIX , col. 886 E) «Eodem anno (1417) immediate scilicet 20 die maii  in festo Ascensionis de mane in ecclesia fratrum minorum de Arimino  audiens missam dominus Martinus de Faventia caput fare MI. Armorum  hominum captus fuit per provisionatos Caroli de Malatestis domini Arimini.  (Ib., col. 887 B) Millesimo ut supra dominus Martinus de Faventia pro  proditione quia volebat prodere dominum Pandulphum fratrem Caroli de Malatestis et destruere civitatem eorum fuit decapitatus post mortem  Galeaz domini Faventini in Fano de mense novembris.


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