Tebaldello Zambrasi |
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TEBALDELLO de’ ZAMBRASI E IL SACCO DI FAENZA DEL 24 AGOSTO 1281
di Miro Gamberini da: 2001 Romagna, n° 141, dicembre 2013 Su Tebaldello: All'inferno per una "porcha".....articolo di Giuliano Bettoli e Miro Gamberini. Recentemente è stata pubblicata
una trascrizione del manoscritto BU 1438 conservato presso la
Biblioteca Universitaria di Bologna dal titolo: Istoria di Bologna:
origini – 1521, di Fileno della Tuata (1450 – 1521), a cura di Bruno
Fortunato. È una delle più vaste opere di storia bolognese la cui
stesura prese l’avvio nel 1496; si tratta di una cronaca
dettagliata degli avvenimenti non solo felsinei ma anche concernenti i
rapporti di Bologna con le altre città italiane, che ci consente di
precisare e mettere in risalto con maggiore attenzione fatti di storia
locale arricchendoli di dettagli che i nostri cronisti faentini hanno
tralasciato o che non conoscevano. Un episodio avvenuto a Faenza
nel 1281 di grande impatto che oggi definiremmo mediatico nella
cronistoria bolognese è quello riguardante Tebaldello de’ Zambrasi
figlio di Garatone , discendente da una delle più potenti famiglie
faentine del duecento, e i Lambertazzi, ghibellini di Bologna esiliati
a Faenza.
Narra il nostro cronista: “Tibaldello figliolo de m. Charatone di Chanbrasi, el quale avea una soa porcha che se alivava chome fano quasi tutti li cittadini de Faença e tenola davanti l’uso. Questa porcha fu robata a chostui, e sapendo lui essere stati alcuni de quilli Lanbertaçci più e più volte se ne lamentò e domandò la soa porcha, al quale li Lambertaci con la soa usata superbiadiseno farli anchora piezo, e vedendose essere befato e schermito et anchora menaçato e non essere atto per si solo a fare la vendeta, trovò una invençione. Avea una sua chavala la quale tuta rase, e lasavala andare per la tera alcuna volta per modo che tuti li fanciulli li coreano drieto e chosì la notte chome el zorno, per modo che era venuto in tanto chostume che fuse che romore volesse in Faença persona non se movea digando: «Là la cavalla de Tibaldello»”. Del maiale, come confermano Antonio Messeri e Achille Calzi in: “Faenza nella storia e nell’arte”, i “Lambertazzi …..ne fecero allegro banchetto” (pag. 72). Tebaldello, da uomo astuto e furbo, mandò ai Lambertazzi un vaso di salsa piccante, per rendere più saporita la carne. Non contento del risultato ottenuto, predispose un piano più accurato per vendicarsi. Aveva necessità di trattare con i Geremei, avversari e fautori dell’esilio dei Lambertazzi da Bologna. Doveva isolarsi dalla vita politica ma al tempo stesso essere presente e vigile in città. Decise allora di farsi passare per pazzo. Prese un bastone, distrusse la casa sua, poi mal vestito (forse nudo) corse per le vie della città urlando e ingiuriando i passanti. Una mattina prese una sua cavalla rozza sciancata e schifosa, la tosò in modo ridicolo e cavalcandola con un astore, cioè uno sparviero, in pugno e due cani segugi al guinzaglio, invitò i passanti a seguirlo urlando frasi prive di senso. Liberò il cavallo in modo che senza impedimenti potesse correre per le vie. Dopo tale comportamento si sparse in tutta la città la diceria della sua infermità mentale. Di sera girava per le vie “e gridar arme arme, e dimenare i picchiatoi delle porte e degli usci con quanta forza avea nelle braccia”. I Lambertazzi allora presero le armi e, pronti a dar battaglia, scesero nelle strade, ma, constatato che il pericolo era causato dalle grida di Tebaldello, ritornarono tranquilli a casa. Aveva ottenuto il suo scopo e poteva quindi tramare la sua vendetta. Vestito da frate, con il fido Gherardone, si recò a Bologna a preparare la vendetta. Si accordò con i Geremei, famiglia guelfa di Bologna e rivale della casata dei Lambertazzi, di consegnare a loro Faenza e vendicare così la prepotenza subìta, assicurando a sé e alla sua famiglia la cittadinanza bolognese. Messeri-Calzi attestano l’avvenimento al 13 novembre 1280 collocando Tebaldello come preposto alla custodia di Porta Imolese, la quale fu da lui aperta per lasciar entrare l’esercito dei bolognesi, che, col favore della notte e al grido di «viva la Chiesa, morte a’ traditori!», irruppero in città assalendo i Lambertazzi e i ghibellini e costringendoli a fuggire da Porta Montanara. Dopo aver depredato case e chiese alle nove antimeridiane (ante horam terciam, scrive il Cantinelli nel suo Cronicon) Faenza era in mano dei Geremei che nominarono podestà il guelfo bolognese Guidottino Prendiparti. Diversa la versione di Fileno della Tuata il quale colloca l’episodio il 24 agosto 1281, giorno di san Bartolomeo, (come testimonia anche il Tonduzzi nelle Historiae Faventinae a pag. 316), attribuendo a Tebaldello di aver fatto “…contrafare una chiave dela porta de Faença e mandandola a Bolognesi, e subito auta la dita chiave li Heremi con tutti li ghelfi andarono a Faenca; molto astutamente prima mandono a mentre guardie per tuto che niuno non li posè portare le novelle, tanto che di note introno in Faença e amaçorno [amazzarono] quasi tuti li Lanbertacci e presero circha cinquecento dela sua parte ghibelina ch’erano in Faença, e preseno multi in li fra Menori, e lì in ghiexia [chiesa] amaçorno nove de Lanbertacci e questa fu la totale et ultima destrucione de Lanbertacci che mai più feno chapo” Il 26 gennaio 1282 il consiglio dei Duecento di Bologna sancì quanto aveva concordato con Tebaldello: “….fu fato citadino de Bologna con tuta soa famiglia e fatoli assai digni privilegii, e per honore suo fu stabelito a Bologna in perpetuo che quel zorno che fu el dì de san Bartolomeo se debia fare chorere per stra Mazore [l’attuale Piazza Aldrovandi] uno chavallo uno sparaviero dui chani ali chavalli, perché fu oltra l’esere fato çitadino fu fato zintilomo e donatoli de molti beni de Lanbertaçi çoè posesioni chaxe e botteghe; e per la soa porcha che li fu tolta fu ordinato ch’el dito zorno doppo la corsa de chavalli se debia avere una porcha chotta, e tajarla in peci e zetarla in piaça a saciare la chanaglia, chome loro se saciorno de una porcha robata che li chostò chara e fu la morte e roina soa”. Il sacco di Faenza, 24 agosto 1281 Quella rivalsa politica, degenerata in una strage di tante persone inermi, compromise l’equilibrio politico-militare romagnolo instaurando un’enclave guelfa in Romagna. Persino il nostro sommo poeta Dante non ignora il fatto e sintetizza questo infamante episodio in versi immortali nella sua Commedia: “Tebaldello, ch’aprì Faenza quando si dormia” (Inferno XXXII 122-123), collocando lo Zambrasi, dannato, nel profondo e più basso e stretto cerchio, il nono, dell’imbuto infernale nel lago ghiacciato dell’ Antenora, fra i traditori della patria ritenuti dal poeta rei del più grave peccato tra i fraudolenti. Miglior ‘premio’ non vi poteva essere per consegnare e ricordare ai posteri questo ambiguo e discutibile personaggio faentino. E Dante, è opportuno notarlo, sceglieva i personaggi come esempi tra quelli che erano più famosi, nel bene e nel male, perché l’esempio stesso risultasse più efficace. È lui stesso a scriverlo nel XVII canto del Paradiso (vv136-142) : Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa pur l’anime che son di fama note, che l’animo di quel ch’ode, non posa né ferma fede per esempio ch’aia la sua radice incognita e nascosa, né per altro argomento che non paia. versi che nell’italiano odierno suonano così: “perciò ti vengono mostrati in questi cieli sul monte del Purgatorio e nel doloroso abisso dell’Inferno soltanto anime di personaggi famosi, per il fatto che la mente dell’ascoltatore non si appaga e non presta fede a esempi che abbiano protagonisti sconosciuti e oscuri né ad altre prove che non siano evidenti”. Si deve quindi credere che quando Dante scriveva, non meno di vent’anni dopo il tradimento commesso, Tebaldello Zambrasi godesse ancora di ampia rinomanza negativa. Anche Primo Scardovi, storico faentino del ‘900, in “Un traditore Faentino del XIII secolo” in “La Festa”, 5 febbraio 1928, pp.105-107, così descrive l’episodio della battaglia tra i guelfi bolognesi e i ghibellini faentini: “La città, in quell’ora, era sepolta nel sonno e ignara della strage imminente. Che ebbe principio, violenta, come tempesta scatenata, d’un tratto, dal cielo. Le soldatesche «tamquam leones avidi» (l’immagine è del Cantinelli), irruppero, con grida feroci e fracasso d’armi, per le vie della città, mentre, ai primi allarmi, dalle torri, partivano disperati rintocchi destando di soprassalto i dormienti. Quanti malcapitati si trovarono addosso, per via, quelle orde feroci, furono trucidati o feriti a morte o fatti prigionieri. Grida disperate, imprecazioni rabbiose, suppliche lamentevoli, pianti di fanciulli giungevano dalle case, dalle vie e dalle piazze, mescendosi al fracasso delle armi, all’urlìo bestiale delle masnade, ai colpi d’ascia menati contro le porte, per far bottino e strage. Nugoli di fumo e lingue di fiamme arrossavano l’aria, laddove i primi incendi segnavano i limiti raggiunti dalla furibonda irruzione. Poi, passato il primo smarrimento, le prime disperate difese. I validi corsero nelle case e si rifugiarono nelle chiese. I Lambertazzi e gli Accarisi scesero, coi loro, nelle vie, a far battaglia; e, dai tetti delle case, intanto, sugli assalitori, si gettavano pietre. Ma la difesa era vana, contro l’impeto degli assalitori. Oltre le case, per il bottino e gli stupri, costoro sacrilegamente violarono le chiese e i conventi; e tutti coloro che vi avevano cercato rifugio donne, vecchi, fanciulli; e, ancora chierici, sacerdoti, frati e monache, vi furono passati a fil di spada, con barbarie empia. Alcuni vennero tratti in carcere, con battiture e ludibrio. Nella chiesa di san Francesco, presso la Porta Ravegnana, vi fu tale quantità di cadaveri, la più parte fanciulli, da aver l’aspetto, il tempio, piuttosto, di carnaio. E per le vie, i morti raggiunsero un numero sì grande, da restarne colme le fogne della città”. Il combattimento decisivo tra i guelfi invasori e i ghibellini di Faenza, coi Lambertazzi si svolse nella Piazza Maggiore. Salvatore Muzzi, nel suo libro “Annali della città di Bologna, dalla sua origine al 1796” pubblicato nel 1840 a Bologna, descrive così lo scontro a pag. 153: “Qua si cozzano fanti con fanti, là si trafiggono lancieri con lancieri; e chi ruota a tondo ferrata mazza, chi cala fendenti a due mani con lunghissima spada . Quivi si muore colà si geme mai vivi. Il vincitore esulta e schiamazza, e nella gioia della vittoria incrudenlisce sui proprii concittadini; il vinto si ritira e freme, e nel timore della sconfitta pensa vendetta e bestemmia. Il tumulto è generale, la zuffa accanita, il successo pendente e incerto. Ed ecco Magarotto Magarotti, sostenuto da’ suoi figlioli, farsi forte ad una bocca della piazza, e quivi piantare il Gonfalone imperiale a segnacolo di parte Ghibellina, e far grande sforzo per occupare quel terreno che già tenevano i guelfi combattitori: ecco Guidottino Prendiparti, accorto di ciò, venir con molti allo scontro ed attaccar petto a petto il Magarotti, il quale, caduto per grave ferita, lascia il vessillo al nemico, che ne fa preda. Il Magarotti è già spento, quando Ruffino de’ Principi corre a’ danni del Prendiparti e con percossa di mazza giù lo travolge dal destriero. E sarebbe morto calpestato nella mischia, se Alberto l’Orso de’ Caccianemici grandi non gli faceva schermo, girando a tondo la terribile spada, e larga piazza, impenetrabile alla turba assalitrice, tenendo sgombra intorno a sé, finché il caduto Guidottino, ripreso senso e coraggio, non fu rimontato a cavallo. Ed egli Alberto, venuto alle mani con Ruffino, gettando il brando, e staccata la mazza dall’arcione, colpì d’un colpo si fiero l’avversario, che il lasciò quasi morto. Alla fine di sì miseranda battaglia i Ghibellini, cui toccò la peggio, si misero in fuga, ed uscendo di Faenza per la Porta detta Montanara, quivi molti di loro furono attaccati, feriti e trafitti spietatamente: e tutti gli altri, che venner trovati o inermi o nascosti, andarono tutti a fil di spada senza distinzione”. Secondo alcuni storici, il sacco di Faenza fu un vero massacro. Cherubino Ghirardacci (1519 – 1598), considerato il primo studioso storico moderno bolognese, al quale va il merito di aver basato i fatti narrati nella sua Historia di Bologna, pubblicata nel 1596, su informazioni derivate da fonti archivistiche e non su tradizioni riportate da altri, e non sempre verificabili, così descrive la battaglia a pag.258: “Fù la battaglia generale veramente da ogni parte sanguinosa, e per molte hore il valore di ambedue le parti parve eguale; ma finalmente prevalsero i Guelfi, li Ghibellini si posero in fuga; e uscendo fuori della porta detta Montanara per salvarsi, di essi molti furono feriti, e morti; ne quivi hebbe fine la strage loro; percioche tutti quei, che in Faenza erano stati rinchiusi trovati, andarono a’ filo di spada. Et nel monastero de’ Frati Minori [ chiesa di san Francesco], essendone fuggiti nove de’ principali, che havevano scalate le finestre, e quivi si erano ridotti pensando salvarsi, miseramente furono uccisi. Et oltre a’ i molti, che restarono prigionieri, che furono da cinquecento, anco molti infelicemente peritono nelle cloache, e ne’ luoghi puzzolenti”.
Gli Zambrasi, ricca e potente famiglia faentina di parte ghibellina, contesero il dominio della città con gli Accarisi e i Rogati, ai Manfredi guelfi. Forte, bello, e ricco, è la descrizione di Tebaldello che Salimbeni de Adam nella sua “Cronaca” ci ha tramandato. Figlio di una relazione extraconiugale di Garatone Zambrasi discendente di Zambrasio de’ Zambrasi, console di Faenza nel 1186. Nel 1238 il padre Garatone viene ucciso dal guelfo Amadore Bulzaca, questo episodio causò in città gravi tumulti e discordie, tanto che i Manfredi dovettero esiliare per qualche tempo da Faenza. Erede legittimo della fortuna accumulata dalla famiglia fu il fratello Zambrasino, frate gaudente, il quale riconoscendo in Tebaldello una forte propensione alla disciplina all’onestà e al senso civico ne volle condividere con lui l’eredità. Queste doti conquistarono la stima ed il rispetto dei Consoli della città i quali lo inviarono a Ravenna per ottenere l’assoluzione dalla scomunica e dall’interdetto che l’arcivescovo Aldobrandino aveva imposto a Faenza. Nell’intento di cercare una pacificazione con la parte aversaria, Tebaldello nel 1280 concesse in sposa a Ottaviano dei Fantolini, figlio di Ugolino, della illustre casata guelfa di Zerfognano, la bellissima e desiderata figlia Zambrasia. Le nozze si celebrarono nella chiesa di san Rufillo (oggi parrocchia di Sarna). Dopo il matrimonio si stabilirono nel castello di Rontana. I Lambertazzi, ghibellini, il 22 dicembre 1279 furono cacciati da Bologna, dai guelfi Geremei, e trovarono ospitalità a Faenza. Bramosi, prepotenti e litigiosi, i Lambertazzi finirono col mettersi in contrasto con chi così generosamente li aveva ospitati. Di qui nasce l’episodio che è al centro della nostra storia: il furto del maiale. Tebaldello nato forse nel 1245-50, muore il 1° maggio 1282, a Forlì, vestendo la divisa guelfa nella battaglia passata alla storia col nome del “sanguinoso mucchio”. I Lambertazzi, scrive Albano Sorbelli, furono una celebre famiglia ghibellina di Bologna, in contrasto con quella dei Geremei, guelfa. Il nome, per indicare più una fazione che una famiglia, comincia nel 1217, in occasione di due schiere di crociati che in Bologna si formarono per aderire all'appello di Giovanni di Brienne. A capo dei Lambertazzi si pose Bonifazio, e il nome rappresentò da allora in poi un grido di guerra, contro i Guelfi. Lambertazzi e Geremei sono due tendenze politiche e due forme di governo che lottano fra di loro. Dopo le grandi conquiste ottenute dal popolo alla metà del sec. XIII con la guida del pugnace Rolandino Passeggeri, i Lambertazzi cominciarono a sentirsi a disagio, temendo di perdere quel comando che avevano tenuto per tanto tempo: di qui divergenze e contese. La lotta divenne spietata e insanabile, quando nel 1270 le società delle armi respinsero dalle loro fila i nobili. Così dal 1271 al 1273 i Lambertazzi propongono al comune di combattere contro gli Aigoni di Modena, guelfi; e di rimando i Geremei vogliono combattere contro i signorotti di Romagna, aderenti ai ghibellini. Gli scontri fra le parti sono frequenti, ma si acuiscono nell'aprile e maggio del 1274. Per oltre un mese Bologna e il contado sono un campo di battaglia: la guerra civile si accende e propaga con un accanimento terribile, mentre dappertutto scorre il sangue. Alla fine i Lambertazzi sono soverchiati e per il tradimento dei Geremei e per l'intervento dei loro avversarî ferraresi e lombardi. Decidono di lasciare la città e ogni cosa: sono dodicimila (giovani e vecchi, donne e fanciulli) che si ritirano in Romagna, a stento trovando ospitalità a Faenza. Le case, gli averi, le suppellettili sono assaliti e distrutti dal popolo rimasto vincitore. Nicolò III per mezzo di Bertoldo Orsini riuscì nel 1279 a comporre la pace e a ricondurre i Lambertazzi in città; ma la tregua fu breve. Già nell'anno stesso risorsero le divergenze, e nel 1280 i Lambertazzi furono definitivamente cacciati dalla città, con un'altra battaglia fratricida; némai più poterono tornare. Personaggi anche cospicui di questa famiglia troviamo, più tardi, in Bologna, ma ormai il nome è privo di significato politico. I Geremei, secondo quanto riporta Albano Sorbelli, furono una storica famiglia bolognese, di parte guelfa, in lotta continua con la famiglia rivale dei Lambertazzi, di parte ghibellina, per il predominio a Bologna. Il primo chiaro accenno all'assunzione dei due nomi per le due fazioni si ha nel 1217 quando, avendo Giovanni di Brienne invocato soccorso di crociati per la liberazione dei luoghi santi, Bologna diede due schiere, una per fazione: a capo dei ghibellini fu eletto Bonifacio de' Lambertazzi, a capo dei guelfi Baruffaldino de' Geremei; e da quell'anno il nome dei Geremei passò a significare la tendenza guelfa, e continuò anche quando la famiglia stessa fu spenta o dispersa. La famiglia dei Geremei si estinse infatti nello stesso sec. XIII, con Baruffaldino morto nel 1252, e coi fratelli di lui spentisi poco dopo; ma il nome, come espressione di partito politico-sociale, rimase sino al primo ventennio del sec. XIV, quando lasciò il posto a quello dei Maltraversi. I Geremei riuscirono nel 1255 a istituire il capitano del popolo; per la venuta di Carlo d'Angiò e la morte di Manfredi (1266) accrebbero ancora il loro potere, che giunse nel 1274 e nel 1280 alla cacciata definitiva dei Lambertazzi, ottenendo così il pieno possesso della città, conservato indiscusso fino al 1327. Bibliografia: L.V. Savioli, Annali bolognesi, II, pp. 1, 327 seg.; F. Pellegrini, Il serventese dei Lambertazzi e dei Geremei, in Atti e mem. R. Deput. st. patria delle Romagne, s. 3ª, IX-X; id., Un documento inedito delle lotte fra i Lambertazzi e Gemerei, ibid., XIV, p. 119 seg.; V. Vitale, Il dominio della parte guelfa in Bologna, Bologna 1902. G. Ghirardacci, Historia di Bologna, parte 1ª, Bologna 1596; L. V. Savioli, Annali bolognesi, III, Bassano 1795; F. Pellegrini, Il serventese dei Lambertazzi e dei Geremei, in Atti e memorie della R. Deputaz. di st. patr. delle Romagne, s. 3ª, IX-X; V. Vitale, Il dominio della parte guelfa in Bologna, Bologna 1902 |
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