Notizie su quattro Santi venerati a Faenza
San Maglorio - Sant'Omobono - San Nevolone - Sant'Umiltà
Rosarita Berardi
Faenza è
città nota sul territorio nazionale – oltre che per le sue ceramiche -
per essere una “mosca bianca” e cioè una roccaforte del potere di
stampo cattolico. In sostanza, una buona serva della Chiesa romana. La
Romagna (attenzione: non l'Emilia-Romagna) è una regione caratterizzata
da aspetti particolari. Ad esempio i suoi confini geografici, da sempre
nebulosi... in un certo senso anche la nebbia, un tempo onnipresente,
ha le sue responsabilità nella faccenda ma certamente ne hanno di più
quelle acque lagunari – oggi bonificate – che si allungavano invadenti
fino nel più profondo entroterra, confondendo e deviando strade e
percorsi. Non è stata da meno la “pgnadona” (la pinetona) che cingeva
Ravenna, impenetrabile e malarica barriera che isolava il capoluogo
romagnolo. Ravenna ha forti tracce levantine (basta pensare ai
bizantini) perché le sue relazioni commerciali si dipanavano più verso
il mare che verso le paludi retrostanti. Nel corso dei secoli la
Romagna non ha mai avuto una configurazione amministrativa autonoma e
quindi confini propriamente detti, ha bensì subìto quelli imposti da
centri di potere esterni. Da un punto di vista geo-cartografico, il
territorio cosiddetto romagnolo rispecchia una situazione politica e di
confini estremamente frammentaria e di divisioni amministrative
costituite dal Ducato Estense, dalle Legazioni (di Bologna, Ferrara,
Ravenna e Forlì) dello Stato Pontificio e dai comuni inclusi nel
Granducato di Toscana.
Una caratteristica però unificava i romagnoli d.o.c. ed era lo spirito
ribelle. Monarchici a favore dell'unità d'Italia, poi anarchici, poi
repubblicani, poi socialisti, poi comunisti... la Romagna, nera e
rossa, si è sempre riconosciuta come passionale, estremista e ribelle.
Anticlericale in tutte le forme possibili perché lo Stato Pontificio ha
sempre usato il pugno di ferro, affamando e sfruttando queste terre
senza pietà.
E in questo Faenza rappresenta un eccezione: roccaforte papalina e
democristiana con 39 parrocchie, operative a tutt'oggi, per un
territorio che conta 57.000 abitanti. Partendo
da questo presupposto storico sociale, verificare l'esistenza di un
quartetto di Santi che godono della venerazione dei faentini nonostante
la loro esistenza sia stata quasi sempre laica diventa un affettuoso
paradosso. Di questi quattro santi, due sono venerati a diffusione
nazionale e due sono noti solamente a Faenza o poco più in là...
San Maglorio di Dol (535 – 605), la sua vicenda terrena è
raccontata da quel capolavoro dell’antica letteratura bretone, che è la
“Vita Maglorii”, scritta da un monaco dell’abbazia di Lehon
(Côtes-du-Nord), fondata dal re bretone Nominoè e che custodiva nel IX
secolo le reliquie del santo. Come sia finito nelle devozioni dei
faentini questo santo gallese è un piccolo mistero a cui cerca di dare
risposta Giuliano Vitali nel suo libro "San Maglorio, santo gallese
venerato a Faenza" – Edit Faenza. Poichè trattasi di riordinare e dare
plausibilità a una messe di leggende e di pettegolezzi storici, il
libro di Vitali ipotizza varie tesi, tutte affascinanti, dando credito
incerto a quelle più diffuse e amate dalla popolazione.
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San Maglorio di Dol, olio su tela di Eugène Goyet (1798 - 1846),
esposto nella chiesa parigina di Saint-Jacques-du-Haut-Pas
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Reliquiario di Sant-Maglorio - Chiesa abbaziale di Lehon
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Il vecchio convento di San Maglorio
nei disegni di Romolo Liverani
Le prime notizie sul monastero di San Maglorio di via Campidori,
risalgono al 1200, quando l'area era occupata da un romitorio di monaci
Camaldolesi e da un convento di suore. Situato al limite del perimetro
medioevale della città, con la costruzione delle mura manfrediane fu
inglobato al loro interno.
Il
primo disegno di Romolo Liverani illustra il monumentale portone
d'ingresso al monastero, come appariva nel 1830. Sullo sfondo la chiesa
facente parte del complesso conventuale.
In questo convento Galeotto
Manfredi "ospitò" l’amata Cassandra Pavoni nel momento in cui,
per motivi di convenienza politica, egli dovette sposare la bolognese
Francesca Bentivoglio.
Dopo l'assassinio di Galeotto,
Cassandra si fece monaca, qui morì nel 1513 trovando sepoltura sotto il
pavimento della chiesa. Al momento dell’occupazione francese, nel 1797,
il convento ospitava 60 monache che vennero trasferite nell’altro
monastero camaldolese della Santissima Trinità, situato in Borgo
Durbecco.
Con la
Restaurazione le monache ritornarono nella loro antica sede di Via
Campidori.
Il
secondo disegno qui a fianco , fa vedere com'era,
l'ingresso alla chiesa del convento
col portone ripreso dall'interno da sotto il portico della chiesa stessa.
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Sant'Omobono.
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Sant'Omobono Tucenghi (seconda metà del XII sec – 1197), patrono della
città di Cremona e protettore dei sarti. Mercante medievale, assai pio
e pieno di carità, condusse la sua vita tra il commercio, la politica e
la misericordia verso i poveri. Sposato
e con famiglia, fu un uomo che, senza privilegi di nascita, divenne
quasi leggendario per levatura e bontà dello spirito. Era un abile
mercante laniero (una tra le principali attività commerciali di Cremona
nel Medioevo) e molto attivo negli affari. Omobono e la sua
famiglia accumularono ingenti patrimoni con il loro commercio, in
quell'epoca turbolenta, in cui tante città italiane passarono
all'autogoverno.
La sua nobiltà d'animo lo portava a usare il denaro guadagnato col
commercio per la carità. Non lasciò scritti e nemmeno discorsi, ma
attraverso la tradizione orale ci giunge la sua chiara disposizione nei
confronti del denaro guadagnato: su di esso avevano precisi diritti i
poveri. I soldi erano mezzi d'intervento per soccorrere la miseria. La
sua generosità divenne proverbiale, tanto che a Cremona è rimasto il
detto «Non ho mica la borsa di sant'Omobono» per rifiutare eccessive
richieste di denaro. A Faenza, tradizionalmente, si organizzava la
Festa delle Sartine nella sede del DLF (dopolavoro ferroviario, sito
non lungi dalla chiesetta dedicata a S. Antonio da Padova, ove vi è un altare dedicato a Sant'Omobono, in Piazza della
Penna).
Questa ricorrenza ha radici vecchie di quasi due secoli e vide i natali
con lo scopo di festeggiare l’attività di una categoria allora
numerosissima quale quella dei sarti e delle sartine. Con il passare
degli anni sacro e profano si sono sempre più amalgamati fino al clou
in cui la festa delle sartine era accompagnata da giornaletti
elogiativi o ironici e dalla elezione delle reginette.
Beato Nevolone (? - 1280). Di mestiere faceva il ciabattino e a Faenza,
dove era nato e vissuto, è rivendicato come patrono dei calzolai. Aderì
alla confraternita del Terz'Ordine Francrescano e si recò in
pellegrinaggio a Santiago de Campostela ben undici volte. Condusse una
vita austera. Come Sant'Omobono, Nevolone appartenne alla schiera dei
penitenti beati laici e, come lui, era sposato e dedito alla carità
verso i più miserevoli. Una biografia romanzata della vita di codesto
santo è stata pubblicata da Giorgio Zauli e Maria Rosa Turrini con il
titolo "San Nevolone, una vita, un cammino" – Edit Faenza.
Santa Umiltà (1226 - 1310), nata con il nome bellissimo di Rosanese Negusanti, è l'unica donna di questo particolare quartetto.
Ad appena quindici anni, giovane adolescente e figlia di persone
agiate, sposa un giovane della sua età, Ugolotto Caccianemici, e vive
felice i primi anni di matrimonio. Iniziano presto per la giovane
famiglia grandi sofferenze: nascono due bambini che muoiono in tenera
età e poco dopo muore anche la madre di Rosanese, infine Ugolotto si
ammala gravemente. La moglie gli resta accanto assistendolo con amore
mentre nel frattempo matura in lei la vocazione religiosa.
Dopo anni di sofferenze Ugolotto comprende a poco a poco la vera
missione della moglie e le permette di entrare fra le monache di Santa
Perpetua, una Comunità cluniacense della città. Egli stesso la seguirà
entrando nella comunità maschile della stessa Congregazione. Rosanese
assume così il nome di Umiltà. Nel 1266 fonda una comunità monastica,
detta La Malta (il fango), per il luogo dove sorge e cioè subito fuori
dalle mure cittadine. Sedici anni dopo, nel 1281, Umiltà si reca a
Firenze e su richiesta delle autorità religiose, istituisce un'altra
comunità monastica che dedica a San Giovanni Evangelista. La fama della
santità di questa Abbadessa si diffonde presto anche a Firenze, oltre
che per tutta la Romagna. I primi biografi ci testimoniano fatti ed
episodi che rivelano la sua carità e la sua fede. La morte la coglie il
22 maggio del 1310 a Firenze, dove verrà sepolta nella chiesa del
monastero da lei fondato. Oggi il
suo corpo, pressoché intatto, riposa a Bagno a Ripoli, sulle colline
fiorentine, nel Monastero Vallombrosano dello Spirito Santo. Scrisse i
Sermones, un insegnamento che racconta essere ispirato, e preceduto da
tutta una serie di visioni, che fanno di lei, almeno in Italia, la
prima dottoressa cristiana, precursore di Caterina da Siena.
E'
singolare come questi quattro santi siano considerati dai faentini come
facenti parte di un bagaglio comune che appartiene alla città.
Storicamente classificati come personaggi volitivi, risoluti, versati
alla loro missione con passione e ferrea tenacia... ritratto anch'essi
di questa terra. Non sono oggetto di devozioni particolari. Gli si
dedicano giornate e feste più laiche o sociali che non religiose nel
senso liturgico eppure sono parte integrante della memoria cittadina ma
i romagnoli, faentini compresi, son ribelli anche nella scelta dei loro
santi.
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Beato Nevolone mentre è al lavoro ha una visione angelica: dalla porta
spalancata della bottega si vedono i loggiati della Piazza di Faenza.
A lato, il percorso del Cammino per Santiago di Compostella.
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Sant'Umiltà.
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